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Gaetano Azzariti
La lettera della Carta
1 Giugno 2006
Difendere la Costituzione
Nel referendum e oltre: come uscire dalla crisi della cultura costituzionale che travaglia la Repubblica. Da il manifesto del 31 maggio 2006

Vittorio Emanuele Orlando, il fondatore della «Prima scuola italiana di diritto pubblico», padre della patria, alla fine dell'800 sostenne che, raggiunta l'unità politica, fondato lo Stato italiano, era giunta l'ora di «dare la scienza del diritto pubblico» al nostro paese, assegnando ai giuristi questo compito fondamentale. Durante i governi della destra storica il compito fu assolto addirittura con un eccesso di arroganza, ponendo i giuristi a capo del processo d'unificazione politica e amministrativa. Successivamente la scienza giuridica ha assunto un ruolo più riservato, ma ha sempre continuato a influenzare la sfera del politico, conservando un salutare distacco da essa. All'Assemblea costituente fu decisivo l'apporto dei giuristi e l'integrazione tra questi e i politici ha rappresentato una delle ragioni del successo (si pensi al rapporto tra Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, solo per citare un caso, che partorì la norma più significativa dell'intera nostra costituzione: il principio di eguaglianza sostanziale, scolpito nel testo della nostra costituzione con parole impegnate e profetiche, con un'eleganza stilistica e una precisione concettuale insuperate). Ora il colloquio tra giuristi e potere s'è trasformato. Troppi giuristi si offrono come consiglieri dei principi rinunciando all'autonomia della propria scienza, molti politici non amano i vincoli giuridici, in particolare quelli che il diritto costituzionale, nato per limitare il potere, pretende di imporgli. Nell'epoca della tecnica e della neutralizzazione del politico, gli unici «tecnici» inascoltati dal potere appaiono essere proprio i costituzionalisti.

Destra sorda

E' così che l'ultima «grande» riforma dell'intera seconda parte della nostra costituzione ha conquistato il più alto numero di critiche da parte degli studiosi di diritto costituzionale, eppure - inascoltate le critiche - è stata approvata di forza e «a colpi di maggioranza» nello scorcio della passata legislatura. Ora, si spera, sarà il corpo elettorale che si esprimerà il 25 giugno nel referendum costituzionale a dare regione ai tecnici e torto ai politici.

E' probabile che la sordità del ceto politico di centrodestra, che ha progettato e poi strenuamente voluto la modifica costituzionale, sia almeno in parte da far risalire alle «culture» politiche di appartenenza: Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega - le forze politiche «egemoni» in quel campo - sono estranee, per storia e pratica politica, ai principi della Costituzione italiana del dopoguerra. Tant'è che una ragione che spiega la forzatura costituente risiede proprio nella volontà di legittimare la propria forza e fondare la propria esistenza su nuove basi costituzionali. Non credo però ci si possa accontentare di questa spiegazione. La fuga dal diritto costituzionale non può ridursi a una semplice intolleranza di una parte delle forze partitiche refrattarie a ricondurre il proprio agire politico entro un ordine costituzionale esistente; questa tesi trova almeno due ostacoli: una «banale» ragione pratica, una «profonda» ragione storica.

Anzitutto, in effetti, non si comprenderebbe perché quelle stesse forze politiche, nel momento in cui, rifiutando questa costituzione, decidono di scrivere una loro costituzione, non utilizzino al meglio i «propri» tecnici per formare un testo giuridicamente («tecnicamente») solido o almeno in grado di funzionare. Diciamolo chiaramente: la «nuova» costituzione non solo è inaccettabile perché esprime una concezione autoritaria dello Stato, dell'organizzazione politica e dei rapporti tra poteri, ma è anche pessimamente scritta (si guardi per curiosità il nuovo articolo 70 della costituzione sulla funzione legislativa e si comprenderà immediatamente come non potrà mai un Parlamento operare in base a quegli incomprensibili criteri di riparto tra le funzioni di Camera e Senato). Potrebbe anche maliziosamente ritenersi che sia una sciatteria tecnica politicamente redditizia (l'esempio che si è richiamato, in fondo, è un modo per paralizzare ed indebolire l'organo parlamentare a favore del governo, il che rappresenta uno dei principi ispiratori della riforma costituzionale), ma ciò confermerebbe l'impressione che al fondo ci sia una profonda insofferenza nei confronti del diritto costituzionale e delle sue regole, anche nei suoi aspetti meno ideologicamente orientati relativi alle tecniche di scrittura dei testi costituzionali. Meglio regole mal scritte che condizionamenti costituzionali sembra essere il pensiero politico dominante.

Vi è poi un'altra «profonda» ragione storica, che ancor più preoccupa. In effetti se tutto potesse ridursi all'incultura ed all'estraneità al sistema costituzionale vigente della destra di questo paese, la vittoria «seppur di misura» alle elezioni politiche ci renderebbe tutti più sicuri per il futuro. Passata la notte della democrazia costituzionale ci appresteremmo a tornare alla normalità. Una parentesi, forse per alcuni aspetti drammatica, ma ormai alle nostre spalle. Non credo sia così semplice. Non lo penso sia perché ritengo che le forze di centrosinistra non siano senza peccato, sia perché l'idea di tornare al tempo della normalità può essere diversamente intesa.

Entrambe le convinzioni si fondano sulla valutazione del recente passato. Se si volge lo sguardo all'indietro si scorge un percorso accidentato e pieno di «disinvolture» costituzionali: dall'acritica assunzione di parole d'ordine storicamente patrimonio culturale della destra (la forma di governo presidenziale), allo schiacciamento delle ragioni «superiori e indisponibili» dei valori costituzionali sulle esigenze contingenti della politica e della sua crisi progressiva. Un'impennata si ebbe durante tutti gli anni '90 (ma il processo di erosione delle ragioni del costituzionalismo data in Italia almeno dalla metà degli anni '70), quando si è voluto tradurre un'evidente e profonda crisi politica in crisi costituzionale, senza avvedersi che in tal modo non si sarebbe potuto raggiungere alcuno dei risultati sperati. Che sia fallito l'obiettivo della stabilizzazione del sistema politico perseguito attraverso riforme della costituzione sempre più spericolate non può stupire: bastava sapere che non è questo il compito delle costituzioni, le quali se dettano le regole della politica, tuttavia non forniscono ad essa alcuna soluzione pratica ed immediata. Ma, evidentemente, nessuno ha avuto interesse ad ascoltare chi conosce cosa sono le costituzioni, meglio è apparso usarle per fini, più o meno nobili, ma comunque strumentali.

Propaganda contro la Carta

Ciò che appare più grave è però che il fallimento degli obiettivi politici contingenti non è stato privo di conseguenze sul piano «nobile» della Costituzione. Anziché consolidarne il ruolo in tempi che vedono una caduta delle legittimazioni dei poteri politici e dunque rafforzare quell'àncora che può dare senso e valore all'agire politico, si è pensato bene di eroderne le fondamenta, delegittimare la costituzione vigente con un'opera incessante di propaganda negativa (la «vecchia» costituzione e la retorica del cambiamento costituzionale necessario) e di assalti fuori controllo (le forzature compiute con leggi ordinarie in materie costituzionali, le modifiche «tacite», i progetti di riscrittura di intere parti eterogenee di costituzione, l'istituzione di commissioni «quasi-costituenti», l'evocazione diretta del terribile potere costituente: tutte misure di «rottura» o comunque in deroga a quelle ordinariamente previste dalla stessa costituzione per la sua revisione all'articolo 138).

Le disinvolture costituzionali del centrosinistra, la sordità dei suoi responsabili politici ai richiami severi della dottrina costituzionalistica, sono di minor gravità rispetto a quelle vissute nell'ultima legislatura? Non sarò io a negarlo, ma che si possa riprendere il cammino semplicemente mettendo tra parentesi l'operato della destra considerandolo il male assoluto e nascente dal nulla, mi sembrerebbe francamente bizzarro, miope, forse suicida.

Possiamo permetterci in sostanza di riprendere il cammino interrotto delle riforme costituzionali «lì dove eravamo rimasti»? Nuove bicamerali, accordi di governabilità, pirotecniche proposte di trasformazione costituzionale si affacciano già all'orizzonte. La smania del nuovo, la permanente crisi dei partiti, l'irresistibile leggerezza della politica dei giorni nostri, l'incultura costituzionale diffusa, spingono tutte verso la direzione di una nuova stagione di uso congiunturale e distorto della costituzione. Ci si può opporre? Si può rilanciare una politica costituzionale consapevole? O è troppo rivoluzionario nell'Italia di oggi chiedere che si lotti per la costituzione, per l'affermarsi di un costituzionalismo che certo sia adeguato ai tempi della globalizzazione e della fine degli spazi chiusi, ma non perciò arreso al tempo dell'indeterminatezza e della politica senza valore?

Tra breve una risposta sarà data. Dopo il referendum costituzionale del 25 e 26 giugno constateremo in via di fatto se c'è ancora spazio per una riflessione critica sulle sorti del costituzionalismo, che sappia tener conto delle valutazioni della dottrina più consapevole del ruolo che le costituzioni devono e possono ricoprire nel nostro tempo. Se il referendum costituzionale sarà in grado di produrre un'auspicabile soluzione di continuità rispetto ad un periodo passato di lungo, lento e progressivo deterioramento non è scritto; che sia in grado di produrla non può escludersi.

Ammesso che il referendum respinga l'ultimo assalto alla Costituzione (in caso contrario approderemo ad un altro sistema costituzionale, e ben poco rimarrà da dire), le modalità di reazione allo scampato pericolo possono essere diverse. La reazione continuista è già stata annunciata. In alcuni casi, l'unico insegnamento che si ritiene di dover trarre da una stagione da mettersi rapidamente alle spalle è quella che induce ad evitare alcune improvvide forzature del recente passato (le riforme a stretta maggioranza). Ben poca cosa rispetto alla gravità dello stato confusionale in atto. Ove prevalesse questa reazione continuista, si dimostrerebbe la profondità della crisi di cultura del ceto politico e l'inanità di un pensiero critico ormai sopraffatto da un pensiero unico, egemone e non scalfibile. Lo spazio per la riflessione critica non scomparirebbe, ma i tempi si allungherebbero. La critica dell'esistente diventerebbe il compito principale rispetto a qualsiasi impegno per la trasformazione del sistema costituzionale, in ogni caso - in mancanza di una seria ridefinizione concettuale - condannata ad un'irresistibile perdita di senso costituzionale.

Cercare un'altra strada

Personalmente mi auguro invece che, dopo il referendum, un'altra strada sia percorsa. Più riflessiva, ma non perciò scarsamente innovativa. Anzi, a ben vedere, una prospettiva affatto rivoluzionaria rispetto al passato trentennio (l'origine della crisi, si è poc'anzi affermato, è da far risalire a metà degli anni '70), che finalmente espliciti il reale segno conservatore delle politiche costituzionali fin qui perseguite. Politiche, quelle passate, «disinvolte», non invece «nuove». Almeno se con quest'abusata espressione si vuole intendere adeguate ai reali problemi delle società democratiche e pluraliste del nostro tempo. Se si è consapevoli della profondità della crisi, si evitino facili scorciatoie, si affrontino di petto, invece, la complessità dei tempi difficili. Una strada impervia, forse tortuosa, ma che alla fine può giungere a rinnovare la forza del diritto delle costituzioni. Solo allora potremmo approdare a un nuovo costituzionalismo, senza perciò temere di aver gettato al vento un capitale di civiltà giuridica, senza ottenere nulla in cambio. Come fin'ora è avvenuto.

Quella indicata rappresenta una prospettiva forse politicamente difficile, ma non velleitaria. L'auspicata vittoria del no al referendum costituzionale provocherà di per sé una rinnovata energia alla nostra vigente Costituzione, consolidandone la oramai consumata base di legittimazione, riaffermandone forza e valore. Allora, anziché rimetterla immediatamente in discussione - dando nuovo vigore alla tesi del necessario superamento purchessia della vigente costituzione - più saggio sarebbe concedersi una pausa di riflessione. Non per conservatorismo costituzionale (più o meno nobile), ma per «operare conoscendo», secondo l'insegnamento di un grande giurista, Riccardo Orestano, troppo spesso dimenticato in questa fase storica dominata dall'irriflessività del politico e dall'irresponsabilità della tecnica.

In termini più concreti, può così sintetizzarsi l'alternativa cui ci si troverà dinanzi dopo il referendum: una nuova stagione di trasformazioni costituzionali in Italia può aprirsi o seguendo i tempi costipati della politica, ovvero quelli allungati della cultura. Personalmente preferisco i secondi. Solo quando, se e dopo che in Italia si affermerà una cultura della «manutenzione costituzionale» - altrove presente, la quale ha garantito revisioni, anche profonde, dei testi delle costituzioni nazionali senza produrre al contempo lacerazioni del tessuto e dell'idea che si ha di costituzione - si potrà (e a quel punto si dovrà) promuovere le riforme costituzionali necessarie al tempo della globalizzazione e alla fine degli spazi chiusi. Un riformismo radicale - altro che conservatorismo costituzionale - quest'orizzonte deve fare proprio. Chi è disposto ad accettare le sfide della storia rinunciando a quelle della politica? Chi è disposto ad ascoltare la voce del diritto costituzionale e non solo quelle della politica politicante?

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