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Nicola Scevola
I Charedi lasciano la Metropoli
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
Controversa evoluzione nell'uso degli spazi alla new town di Milton Keynes. Il manifesto, 21 agosto 2005 (f.b.)

Per secoli le comunità ebraiche ortodosse sono state abituate a dover traslocare da un posto all'altro. Una volta era a causa delle persecuzioni cui erano soggetti, oggi semplicemente per la loro straordinaria prolificità. Con i loro cappotti neri e i lunghi riccioli che spuntano sotto i cappelli a tesa larga, i Charedi sono una delle comunità più caratteristiche del quartiere di Stamford Hill a nord di Londra. Si sono stabiliti da queste parti dopo la prima guerra mondiale, crescendo rapidamente fino a diventare la più grande comunità ortodossa di tutt'Europa. Oggi, però, il quartiere non riesce più ad ospitarli. Lo spazio non è più sufficiente per le esigenze delle numerose famiglie, e la comunità ebraica sta progettando un trasferimento in massa verso Milton Keynes, una cittadina a un centinaio di chilometri da Londra. I sostenitori del progetto dicono che sarà l'esempio di una comunità perfetta, i suoi detrattori che sarà solo un altro ghetto. Nel quartiere di Stamford Hill, soprannominato da alcuni sociologi Volvo City per la preponderanza di grandi station wagon che circolano per le sue strade, la comunità ebraica cresce a un ritmo dell'8% all'anno, e i suoi 25 mila abitanti sono raddoppiati dal 1989. Un po' come in tutta Londra, le case qui hanno prezzi molto alti, e alloggiare famiglie con una media di sei figli a testa non è facile. Oltre alle normali difficoltà che potrebbe avere qualsiasi famiglia numerosa, però, i Charedi hanno anche altri generi di limitazioni. Il loro stile di vita ultraortodosso, rispettoso di tutte le regole e i divieti che il credo ebraico impone, rende il vivere comunitario una necessità imprescindibile. E per soddisfare le loro particolari esigenze c'è bisogno di spazio per i servizi comuni e case con tanti posti letto.

I Charedi hanno bisogno di avere una sinagoga vicina per quando, durante la giornata dello Shabbat, devono raggiungere il tempio senza poter guidare. Devono avere negozi kosher e scuole ebraiche dove far studiare i loro figli. E il fatto che per pregare debbano riunirsi almeno dieci uomini rende preferibile che gli osservanti abitino e lavorino il più possibile vicini gli uni agli altri. Per questo Stamford Hill è un luogo ideale.

I maschi pregano tre volte al giorno e cercano di andare avanti a studiare i testi sacri al più a lungo possibile. La maggior parte di quelli che hanno un lavoro sono impiegati all'interno della comunità stessa e guadagnano salari moto bassi. Di conseguenza le famiglie sono generalmente povere. Purtroppo, però, la velocità con cui gli abitanti di Stamford Hill si moltiplicano senza disperdersi ha creato un vero problema di alloggi. E oggi Volvo City è diventata un posto troppo affollato per poter soddisfare le esigenze della comunità. Le loro abitudini particolari fanno sì che, per poter vivere in maniera decorosa, i Charedi debbano trasferirsi in gruppo. E il progetto prevede che si muovano 300 famiglie per un totale di circa 2000 persone.

«Sarebbe un modo per creare un nuovo villaggio ideale con spazio a sufficienza per tutti», dice Ita Symons, la direttrice di Agudas Israel housing, l'associazione immobiliare che ha ideato il progetto. «Non vorremmo muoverci da Stamford, ma qui non c'è davvero più spazio». L'idea di dover ricostruire una nuova comunità ebraica dal nulla non entusiasma tutti gli abitanti di Stamford Hill. I Charedi hanno lavorato sodo e investito tante energie per creare le infrastrutture che gli permettono di vivere a loro agio nel nord di Londra. E' solo la necessità di spazio che li ha convinti a muoversi. «La comunità sta crescendo a una velocità fenomenale. In alcune zone c'è rimasto posto per qualche casa, ma non per le scuole, i negozi, le sinagoghe», dice Abraham Pinter, rabbino dell'Unione delle congregazioni ebree ortodosse. «Ci sarebbero altre zone più vicine a Londra dove stabilire una nuova comunità, ma Milton Keynes è rinomato per essere un luogo aperto alle innovazioni».



Una «città modello»

La cittadina meta del nuovo progetto di migrazione è stata costruita dal nulla a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta per compensare l'ipercrescita della capitale britannica, ed è abituata al costante flusso di nuovi arrivi. L'intento originale dei costruttori era di farne una città modello, dotata di un'architettura moderna e funzionale. La pianta delle strade a reticolato e la distribuzione policentrica di aree residenziali alternate a zone verdi e centri commerciali minimizza i problemi di inquinamento e congestione del traffico. Ma il progetto non sembra essere interamente riuscito e molti critici la paragonano ad un'anonima urbanizzazione degna di una periferia qualsiasi. Nonostante questo, Milton Keynes è cresciuta ad un ritmo strabiliante, passando dall'avere 60 mila anime sparse nei tre villaggi originali riuniti negli anni Sessanta, ai 177 mila abitanti censiti nel 2001. E il progetto finale non è ancora completo, con alcune aree in attesa di essere sviluppate.

English Partnership, l'organizzazione governativa proprietaria del terreno su cui dovrebbe trasferirsi la comunità di ebrei ortodossi, sta considerando di costruire nell'area di Tattenhoe Park 1200 nuove abitazioni. Le esigenze della società britannica moderna hanno portato la compagnia immobiliare a prevedere una maggioranza di case con una o due camere da letto. English Partnership ha però confermato che, dopo essere stata contattata dall'associazione ebrea, ha preso in considerazione anche la costruzione di 300 abitazioni con più di quattro camere da letto.



Ma c'è chi non li vuole

Nonostante la sua lunga tradizione di immigrazione, alcuni rappresentanti di Milton Keynes non si sono dimostrati entusiasti alla prospettiva di ricevere qualche centinaia di famiglie ebree ultrareligiose, e Symons è preoccupata dall'opposizione che sta nascendo intono al progetto. Il capogruppo dei Labour al comune di Milton Keynes ha avvertito che la proposta rischierebbe di creare una «ghettizzazione» della comunità. E Phyllis Starkey, deputato alla Camera dei Comuni per la circoscrizione di Milton Keynes, sembra essere d'accordo. «C'è molta diffidenza fra gli abitanti di Milton Keynes», dice Starkey. «Il progetto potrebbe creare un precedente. E tra qualche tempo potremmo vedere una comunità buddista da una parte e una musulmana ortodossa dall'altra».

Più di ogni altra cosa, la parlamentare è preoccupata dalla scarsa volontà di integrazione della comunità ebraica, che, a suo parere, mal si concilia con il forte sentimento di appartenenza manifestato dagli abitanti di Milton Keynes. «Hanno tutto il diritto di andare avanti con il loro progetto, ma ci sono una serie di problemi che andranno affrontati», avverte Starkey. Altri critici puntano il dito sulla forte discriminazione religiosa in base alla quale opera l'organizzazione che sponsorizza il progetto. Agudas Israel housing association è una delle tante associazioni di carattere religioso che lavorano per risolvere il problema degli alloggi. Come le sue omologhe, Agudas riceve dei fondi dal governo per acquistare o costruire abitazioni attraverso la Housing corporation. Ha cominciato la sua attività 24 anni fa con 25 case e da allora è cresciuta in modo esponenziale fino ad arrivare a possedere 480 abitazioni.



La discriminante religiosa

A differenza di Agudas, però, altre associazioni immobiliari cristiane o musulmane non fanno della fede una discriminante imprescindibile per offrire una casa ad una persona. «Le case costruite dal governo sono troppo piccole per noi. Questo è l'unico modo perché ebrei poveri possano trovare un'abitazione adatta», si difende Ita Symons. «C'è una tale domanda di alloggi spaziosi tra noi che non dobbiamo trovare inquilini di altre fedi». Symons pensa che molte delle obiezioni sollevate siano solamente frutto di un antisemitismo diffuso. «In Gran Bretagna non è come in altre parti d'Europa, dove l'antisemitismo è espresso più apertamente. Qui è più sottile, ma c'è comunque», avverte. «La gente è diffidente perché non ci mescoliamo con altri. Siamo una comunità molto coesa, che sa badare a sé stessa. Ma il fatto che non creiamo disordini e non mettiamo bombe non è un buon motivo per negarci lo spazio dove vivere».

Altri progetti prima di questo sono già falliti. A St Albans, un sobborgo a nord di Londra, la proposta ha incontrato la forte opposizione della comunità locale. E anche quella di trasferirli vicino all'aeroporto di Stansted è finita nel nulla. English Partnership dovrebbe decidere se vendere il terreno alla comunità Charedi entro ottobre. Perché il progetto possa procedere, però, il prezzo d'acquisto dovrebbe essere inferiore a quello di mercato. «Possedere una casa è fondamentale per i membri della comunità. La maggior parte delle nostre attività sociali si svolgono al suo interno. Ma non siamo ricchi e per poterla comprare il prezzo deve essere molto vantaggioso», spiega Symons, che sta già vagliando altre ipotesi nel caso in cui il progetto non dovesse andare in porto. «Il problema è destinato a rimanere e qualcosa prima o poi dovrà succedere».

Nota: le perplessità e problemi di un uso dello spazio come quello della comunità ebraica ortodossa sono in parte riassunti nell'articolo. A solo titolo informativo, allego qui il link ad una ripugnante (a dir poco) nota sulla medesima questione, dell'americano nazista National Socialist Movement. Ogni commento è ovviamente superfluo (f.b.)

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