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Claudio Malacrino
Dal modello gerarchico a sussidiarietà e concertazione: pochi pro e tanti contro
15 Febbraio 2006
La legge Lupi
Un intervento nel dibattito sulla Legge Lupi e, soprattutto, sulle tendenze di lungo periodo da cui nasce (Torino, 20 gennaio 2006)

1. Con particolare intensità, a partire dall’inizio degli anni ’90, si è sviluppata una critica (a più livelli) dei processi decisionali in materia di urbanistica e pianificazione territoriale, cosiddetti gerarchici o “a cascata”.

A questi processi decisionali era associato sia un modello gerarchico politico/amministrativo (dal generale al particolare – dal più grande, cioè, al piccolo, in termini di scala territoriale di riferimento) sia un modello di piani, programmi e progetti a scatola cinese sia un conseguente modello normativo: la legge statale, quella regionale e le norme locali (comunali).

In tema di Urbanistica e di Pianificazione Territoriale, questo modello si può così sintetizzare: lo Stato, con le sue leggi generali per il governo del territorio, le Regioni con proprie leggi ispirate a quelle nazionali, i Comuni con la propria attività normativa e regolamentare alla scala locale, soggetta al controllo regionale.

Questo impianto normativo è stato declinato nel corso del secondo novecento secondo due fasi: una prima fase, dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni ’70, caratterizzata da una forte centralizzazione e da un rapporto, sostanzialmente, diretto tra Stato e Comuni; una seconda fase, dalla seconda metà degli anni ’70 in poi, caratterizzata dalla nascita della legislazione regionale (conseguente alla istituzione delle Regioni) con un rapporto diretto tra ogni singola Regione ed ogni Comune.

2. A partire dall’inizio degli anni ’90, poi, si è sviluppato un “movimento” (una “lobby”) nazionale di istituzioni accademiche, culturali e professionali, che ha sviluppato una persistente e forte critica alla pianificazione urbanistica fondata sul modello delineato dalla legislazione regionale.

Parte attiva, trasversale dal punto di vista dei referenti politici ed egemone culturalmente. è stata svolta dall’Istituto Nazionale di Urbanistica, in discontinuità con le “campagne progressiste” che a partire dai primi anni ’60 e, con qualche sussulto, ancora fino ai primi anni ’90, hanno caratterizzato l’impegno culturale e politico per la riforma urbanistica nazionale.

Da questo punto di vista è paradigmatico il caso piemontese: le critiche di questa lobby si sono concentrate sulla sistematica demolizione (fondata su una rappresentazione macchiettistica della attività pianificatoria piemontese e del ruolo svolto dai tecnici regionali) della legge regionale 56/1977 ispirata e voluta da Giovanni Astengo: la legge urbanistica regionale, cioè, più fortemente radicata nel clima Olivettiano di Comunità e che nell’INU aveva un referente privilegiato.

Questa critica fondata sulla vulgata della rigidità del modello a cascata (dal Piano Territoriale regionale, al Piano Territoriale di Coordinamento, ai Piano Regolatori Generali), si è, infine, innervata sui due filoni della “SUSSIDIARIETA’” e della “CONCERTAZIONE”.

3. Il primo filone, quello della SUSSIDIARIETÀ, è stato preso in prestito dal nobile principio “europeo” secondo cui ad ogni campo dell’agire umano, a seconda del livello delle questioni e dei problemi, è riservata una forte autonomia di azione.

Questo principio è stato declinato nel nostro Paese in vari modi e con versioni anche estremiste (“ padroni a casa nostra”), che hanno trovato emuli anche nel campo della pratica urbanistica ed edilizia: tra i confini del Comune che io, Sindaco, amministro o tra i confini della mia proprietà, faccio quel che voglio senza alcuna ulteriore autorizzazione.

La declinazione urbanistico/pianificatoria piemontese è stata la legge n. 41/1997, con la quale, tra l’altro, è stato riscritto l’art. 17 della legge urbanistica Astengo (la L.R. 56/1977); con tale articolo è stata introdotta la possibilità di approvazione diretta, da parte dei Comuni, di varianti cosiddette “parziali” e di modifiche (le cosiddette “varianti non varianti”) ai piani regolatori: dietro queste due teste d’ariete si è collocata una innumerevole produzione (migliaia) di modificazioni dei Piani Regolatori, fuori da ogni controllo e da ogni forma di coordinamento da parte della Regione.

4. Il secondo filone, quello della CONCERTAZIONE, è stato, a sua volta, mediato dal mondo delle cosiddette relazioni industriali: anche in questo caso, cioè, il padre è nobile. Anche in questo caso, però, la declinazione urbanistica che se ne è fatta è stata, sostanzialmente, quella di dare dignità a ciò che, in tempi meno sospetti, si sarebbero chiamati “ interessi privati in atti d’ufficio”.

Nel caso del Piemonte, poi, il modello concertativo è stato promosso per svuotare di significato la fase, così centrale nella legge urbanistica astenghiana, delle “osservazioni” ai progetti preliminari degli strumenti urbanistici.

Nel modello astenghiano, cioè, la fase metaprogettuale (la delibera programmatica del PRG) e quella progettuale preliminare degli strumenti urbanistici sono affidate alla mano pubblica che, attraverso delibere del Consiglio Comunale (fino a prova contraria massima espressione della democrazia elettiva), portano alla conoscenza di tutti le proposte sulla tutela e sull’uso del territorio: attraverso le osservazioni, i cittadini, le associazioni, i partiti, tutti quelli che hanno proposte od osservazioni da fare nel pubblico interesse, possono proporre migliorie al Consiglio Comunale attraverso un processo trasparente e, soprattutto, codificato.

Il modello concertativo, come appare essere stato declinato fino ad oggi e come appare trasfuso nelle proposte di legge sia regionali sia nazionali (legge Lupi) in materia di urbanistica, si fonda, viceversa su:

(a) una sostanziale equidistanza della Pubblica Amministrazione dagli interessi privati e dal pubblico interesse , non come bene scarso da tutelare

(c) una delega al Sindaco o alle maggioranze politiche delle decisioni, da fare ratificare dai Consigli Comunali.

5. Si ricava, in conclusione, da un esame dell’attuale stato dell’arte quanto segue:

(1) la critica al cosiddetto modello gerarchico (la pianificazione a cascata) ha prodotto, nel corso degli anni ’90, un progressivo logoramento dell’apparato normativo ed una produzione senza controllo di varianti urbanistiche parziali e di modifiche che hanno “gratificato” interessi particolari

(2) coesistono nel nostro Paese più modelli di pianificazione urbanistica: quello centralistico, con riferimento, soprattutto, alla proliferazione di piani e programmi di nuova generazione (a partire dalla legge Botta/Ferrarini), in cui permane l’antico rapporto diretto tra Stato e Comuni; quello gerarchico in cui permane la potestà autorizzativa della Regione (vale per i PRG, le varianti strutturali, i PTC ecc.); quello ispirato alla sussidiarietà, in cui il Comune adotta ed approva proprie varianti e modifiche

(3) la competizione tra questi modelli, non avviene sul terreno dell’innovazione culturale o politica o disciplinare, ma soltanto sul versante della ricerca della minimizzazione dei controlli di merito e della partecipazione democratica

(4) il dibattito sulla riforma urbanistica sia nazionale sia, nel caso piemontese, regionale dovrebbe, rispetto ai modelli che si stanno affacciando (ad es. la legge Lupi recentemente approvata dalla Camera ed in discussione al Senato), acquisire il tema della inclusione sociale e della conoscenza diffusa quali linee guida contro ipotesi legislative che trasferiscono le decisioni “altrove” rispetto alle sedi democratiche proprie (i Consigli Comunali).

Torino, 20 gennaio 2006

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