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Etienne Balibar
Quel velo sulla Repubblica
2 Dicembre 2005
Scritti 2004
Nell'intervista di Ida Dominijanni il filosofo francese argomenta che non vi sono contraddizioni necessarie tra laicità dello stato e velo islamico. Una riflessione sul significato attuale della laicità in una società plurietnica, su il manifesto del 4 settembre 2004

«Il problema è che cosa accadrà in questi giorni col ritorno in classe delle `ragazze velate', e la cosa è largamente imprevedibile. Indipendentemente dai fatti drammatici dell'ultima settimana, resta evidente che la legge sulla laicità non regola nessuno dei problemi di fondo cui allude: né quelli relativi alla concezione della laicità in una società transnazionalizzata, né quelli che riguardano lo statuto individuale e collettivo dei discendenti degli immigrati in una società post-coloniale».

Per biografia e formazione - le sue critiche alla politica del Pcf sull'immigrazione che gli valsero l'espulsione dal partito nel 1981, la sua attenzione costante alle lotte dei migranti negli anni Ottanta e Novanta, il suo lavoro teorico sulla riqualificazione dell'universalismo nelle società solcate dalle differenze etniche e culturali, la sua recente e ricca elaborazione di un'idea di Europa anti-identitaria e aperta all'alterità - Etienne Balibar è certo uno degli intellettuali francesi più attrezzato a interpretare la fitta trama di questioni che si agitano dentro, sotto e a lato della legge francese contro l'uso del velo e degli altri segni di appartenenza religiosa, legge oggi al centro del drammatico ricatto sulla vita dei due giornalisti francesi sequestrati in Iraq. E infatti alle valenze simboliche del conflitto sull'uso del velo Balibar è attento fin dall''89, quando il preside del Collegio di Creil escluse due studentesse dalla scuola. E contro la legge voluta da Chirac si è espresso fin da subito, firmando con altri intellettuali la petizione «Sì alla scuola laica, no alle leggi di emergenza». Un suo denso saggio sull'argomento è apparso nel volume collettivo Le foulard islamique en question (a cura di Charlotte Nordmann, Ipam 2004), e sarà pubblicato sul numero di ottobre della rivista del manifesto.

Pensi che il conflitto fra lo Stato francese e le comunità islamiche si intensificherà nei prossimi mesi?

Non è detto: gli eventi del Medio oriente potrebbero al contrario portare le comunità a tenere basso il profilo delle rivendicazioni. Già qualche mese fa, quando la legge fu approvata, una comunità che si rifà ad Al Quaeda o si è presentata come tale, aveva minacciato la Francia di rappresaglie, ma salvo una piccolissima minoranza di integralisti i musulmani francesi, anche quelli fondamentalisti, non apprezzarono la cosa. A maggior ragione oggi la paura dell'assimilazione ai terroristi - paura in parte indotta dall'islamofobia dilagante - spingerà la «comunità musulmana», o meglio i gruppi e i segmenti assai eterogenei che la compongono, a esplicitare la loro appartenenza alla nazione francese e a marcare fortemente la loro rottura con il terrorismo, i rapimenti eccetera. Che d'altronde la maggioranza dei musulmani condanna radicalmente. Penso che le ragazze reagiranno alla stessa maniera - il che non esclude che scoppino comunque dei drammi individuali. Tutto questo fa il gioco, comunque, della politica del governo francese e in particolare del ministro per l'educazione nazionale. E bisognerà vedere se il governo e il corpo insegnante, mobilitati su «posizioni di principio», riusciranno a evitare di fare fronte comune e di pensare che gli avvenimenti diano loro ragione e facciano loro guadagnare dei punti nel controllo delle ragazze musulmane o nella eternizzazione del «modello francese».

Del «modello francese» la laicità è un pilastro cruciale. Nel tuo saggio tu scrivi però che la legge sul velo, invece di rafforzarlo, rischia di mostrarne le crepe irreversibili. Dove sta la crisi del valore della laicità?

Molto dipende dal modo in cui la parola «laicità» viene usata _ non a caso in tedesco e in inglese si usa piuttosto il termine «secolarizzazione», che ha un significato diverso. E' noto che lo stato moderno ha costruito la sua egemonia vincendo sulle guerre di religione, imponendo una identità civile e laica su appartenenze e comunità religiose che venivano soppresse o quantomeno relativizzate e relegate nella sfera privata. La costruzione politica dello stato nazionale implica questa svalorizzazione delle identità religiose. Ma quello che viene fuori oggi, con i processi di transnazionalizzazione, è che il rapporto fra religione e politica non è risolto una volta per tutte: l'epoca delle identità religiose non è finita, mente la crisi delle identità nazionali è già cominciata. Non è vero che il teologico-politico appartiene al passato, come afferma la visione lineare della storia e della secolarizzazione, da Weber a Durkheim.

«Laicità» è una parola controversa. Ma anche la religione, di questi tempi, non si sa più bene che cosa sia. E' una dimensione soggettiva o un fatto pubblico? Attiene alla coscienza individuale o alla comunità?

La separazione fra individuo e stato, privato e pubblico, presuppone che la religione sia una questione personale, una pratica dell'intimità e della coscienza soggettiva, e dunque che proibendone le manifestazioni esteriori non la si ostacola ma la si riporta alla sua forma più autentica. Ma questa concezione della religione appartiene alla tradizione cristiana, non a quella islamica né a quella ebraica, le quali hanno tutt'altro concetto della reazione fra pubblico e privato e ritengono che il compito essenziale della religiosità stia precisamente nella costruzione della comunità e di un ambiente morale. Capisci bene dunque che tutta questa discussione sul divieto di «ostentare» i simboli religiosi è viziata in partenza da una serie di giudizi e pregiudizi che legano laicità dello stato e tradizione cristiana. «Pregate nel segreto del cuore e sarete così buoni cristiani e insieme buoni cittadini», predica lo Stato laico; ma questa idea non può essere condivisa da islamici ed ebrei. Del resto in Francia, da Napoleone a De Gaulle, quello che ha vinto non è una laicità ideale, bensì un compromesso politico fra stato e chiesa cattolica. Il cattolicesimo in Francia è largamente dominante e gode di molti privilegi. Mentre l'Islam rimane una religione discriminata: formalmente i mussulmani godono di tutti i diritti, di fatto la Francia è piena di chiese ma costruire una moschea è difficilissimo. La cosiddetta laicità è la religione civile dello stato francese che maschera riflessi patriottici, nazionalisti e postcoloniali.

A questo proposito: si può ipotizzare una sorta di parallelismo fra l'uso che Bush ha fatto dopo l'11 settembre della parola d'ordine della libertà e l'uso che Chirac ha fatto della laicità con la legge sul velo? Come fossero due armi del rigurgito nazionalista occidentale, nelle due diverse versioni americana e francese, che a loro volta si combattono fra loro?

Di sicuro questo parallelismo l'ha ravvisato Bin Laden, che ha messo la legge francese sul velo sullo stesso piano dell'invasione americana dell'Iraq. Ed è vero anche che Bush, anzi tutti gli Stati uniti, da Bush ai queer californiani, hanno attaccato la legge, in nome del principio liberale della libertà d'espressione _ una occasione meravigliosa di rivincita del nazionalismo americano su quello francese. E del modello multiculturale americano sul modello assimilativo e integrazionista francese.

Senonché la globalizzazione ha messo in crisi tutti e due questi modelli, ovvero i due modi di coniugare identità nazionale e differenze di là e di qua dall'Atlantico.

Infatti. Il modello multiculturale americano finisce col costruire società fatte di comunità chiuse e incomunicanti. Il modello integrazionista francese non funziona più, perché i popoli ex-coloniali non si lasciano assimilare come gli italiani o i polacchi in passato. E il problema non riguarda solo la Francia, riguarda tutta l'Europa.

Secondo te qual è la posta in gioco vera della legge contro il velo, la laicità dello stato o la libertà femminile? O tutt'e due insieme, e legate in che modo?

Tutt'e due, ma tutt'e due mal tematizzate. Non sono d'accordo con chi riduce il dibattito su questa legge a un referendum, pro o contro la laicità. Chi, come me, ha criticato la legge non intende attaccare il principio della laicità, ma adattarlo alle condizioni attuali della Francia e dell'Europa. E nelle attuali condizioni della Francia e dell'Europa, francamente non vedo contraddizione fra il nocciolo della laicità dell'insegnamento scolastico e la possibilità di entrare in una scuola con il velo o con un altro segno di appartenenza. E penso che il divieto avrà conseguenze più negative dell'autorizzazione.

Quanto alla libertà femminile, è la cartina di tornasole della complessità di tutta la questione, e di come essa ci costringa a smarcarci continuamente dagli schieramenti in campo. Esempio: c'è chi contesta la legge sul velo in nome della lotta anticoloniale e pensa che quest'ultima «converga» spontaneamente con la lotta per l'emancipazione femminile. Cosa sulla quale, ovviamente, non sono affatto d'accordo: fra queste due rivendicazioni di emancipazione - quella che combatte il razzismo culturale e l'egemonismo delle vecchie nazioni coloniali, e quella che lotta contro la soggezione delle donne nei popoli colonizzati - c'è una contraddizione drammatica, che dobbiamo saper guardare in faccia. Non possiamo credere a nessuno dei due discorsi simmetrici che vorrebbero cancellarla: né a quello che accomuna la «lotta delle donne» e «la lotta dei popoli oppressi» e dei gruppi etnico-religioso minoritari, né a quello che presenta le istituzioni e i valori dell'«Occidente» come modello e veicolo di emancipazione delle donne in tutto il mondo, e in particolare nel mondo mussulmano: anche l'Occidente ha sviluppato forme massicce di assoggettamento femminile.

Personalmente sono del tutto d'accordo con te. Non tutto il femminismo però la pensa così. Molte femministe, in Francia specialmente, difendono la legge sulla laicità, contro l'obbligo di portare il velo che il patriarcato islamico impone alle donne, adottando per le donne non occidentali una fede cieca in quegli stessi diritti occidentali di cui per noi stesse, all'interno delle nostre democrazie, abbiamo contestato limiti e finzioni. E offrendo alle donne islamiche quella tutela statale che abbiamo rifiutato per noi...

E' la tragedia delle donne islamiche, che si trovano per un verso a essere vittime del marchio patriarcale della loro cultura, per l'altro verso a essere stigmatizzate come «le altre» dalle donne occidentali. Sia chiaro: io penso che l'accesso a diritti universali sia necessario per aprire a queste donne la possibilità di sottrarsi ai vincoli oppressivi delle comunità d'origine. Quello che rimprovero al laicismo nazionalista francese è di trasformare questa possibilità in una lotta di potere fra uomini islamici da una parte e uomini (e donne falliche) occidentali dall'altra, di cui le islamiche sono la posta in gioco passiva. L'interdizione dell'uso del velo può cadere su di loro come un'imposizione dall'alto uguale e contraria ai comandamenti patriarcali della loro cultura. Le motivazioni di quelle che sono favorevoli a portare il velo sono molto diversificate: vanno dalla sottomissione alle pressioni familiari a forme personali di ricerca femminista volte a esprimere la «doppia differenza» islamica e femminile, all'adesione all'islamismo militante. Bisognerebbe garantire a queste donne di studiare nella scuola pubblica francese facendo le loro esperienze di conflitto fra l'appartenenza alla comunità di origine e i valori repubblicani francesi, e trovando da sé le giuste mediazioni.

Le donne tutte, islamiche e occidentali, rischiano ogni giorno di diventare la posta in gioco della «guerra al terrorismo», che è stata legittimata fin dall'inizio come guerra contro il burka, contro il patriarcato islamico, per l'estensione alle «altre» dei diritti di cui godiamo noi occidentali. Senonché l'emancipazione e la parità che vorremmo esportare genera anche mostri, come lo scenario di guerra dimostra: penso alle torturatrici di Abu Ghraib. Mi pare che l'attenzione a come si ridisloca il conflitto fra i sessi sia una chiave importante per capire le dinamiche di questa guerra.

Questo è vero per tutte le guerre, ma oggi, hai ragione, c'è qualcosa di più profondo in gioco. Tutte le guerre della storia hanno avuto come bersaglio simbolico le donne: la guerra si fa tra uomini, le nazioni sono male-nations, e questo mette in partenza le donne nella posizione di cittadine di secondo rango. Anche il razzismo è marcato dal sesso, la comunità razzista è una comunità maschile, perché il razzismo è lotta per la genealogia e dunque per il controllo delle donne, che della genealogia sono le portatrici. Senonché oggi questo dispositivo è entrato in crisi in tutto il mondo: il controllo collettivo maschile sulle donne non è più possibile.

Infatti, è la libertà femminile che ha rotto il dispositivo. Ma la libertà femminile produce anche - e sanamente - divisioni fra le donne: per resatre all'occidente, ci sono donne che scelgono percorsi di autonomia, e donne che «si arruolano», alla lettera, nell'esercito dei diritti universali...

Perché è in corso, come insegna Gayatri Spivak, una sorta di appropriazione simbolica delle donne da parte dell'egemonismo occidentale camuffato di universalismo: l'estrema forma di appropriazione dell'universalismo da parte di interessi particolari di classe, di sesso, di potere. Una posizione molto difficile per le stesse donne. Prendi un'afghana che lotta per il suo diritto di studiare, di parlare, di lavorare, e a un certo punto diventa oggetto di un discorso di conquista occidentale che pretende di rappresentare i suoi interessi: si ritrova in un double bind insostenibile.

Perciò io penso che politicamente l'unica strada percorribile sia quella della costruzione di solide relazioni fra donne occidentali libere dai diktat dell'emancipazionismo universalistico e donne islamiche libere dai vincoli del comunitarismo.

Io penso piuttosto che l'universalismo bisogna ricostruirlo, liberandolo dall'eurocentrismo, dal monoteismo, dalla ripetizione del discorso tradizionale dei diritti, e rilanciandolo nel senso dell'incontro fra i movimenti di libertà del mondo di oggi e di domani. Un universalismo programmatico invece che dogmatico. Non che sia facile, ma forse potrebbe essere questo il compito di una nuova istituzione mondiale: un compito di traduzione, messa a confronto e arbitraggio, fra domande eterogenee.

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