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Umberto Eco
Provocare per vincere
11 Dicembre 2005
Scritti 2004
La risposta di Umberto Eco a un di Paolo Flores d’Arcais, da Micromega, n.4/2003. Una puntale dissacrante analisi logica del berlusconismo, e delle difficoltà di vincerlo.

Cari amici, i problemi che ponete sono molti e vorrei focalizzarmi su uno soltanto. Voi dite che molti intellettuali nel nostro paese sembrano conquistati da un fatalismo a valenza ottimistica, quasi che il vaticinio di Montanelli (lasciate che l’Italia assaggi Berlusconi per qualche anno e poi se ne accorgerà) suoni come invito all’evasione anziché stimolo a più lucida passione civile. A prima vista non direi. Anche se in ogni tempo è esistita la divisione tra coloro che si arroccano nella loro torre d’avorio e coloro che s’impegnano, non passa giorno che non assista a severe e appassionate denunce su quanto ci accade d’intorno, e mi pare che sui pericoli che corre la nostra democrazia si sia creato il fronte di una minoranza vocale abbastanza vigile.

Però sono vere due cose. Una, che se vado in edicola e compero tutti i giornali esistenti, mi accorgo che il fronte critico si esercita solo su alcuni giornali schierati all’opposizione, e in parte anche su una stampa che, per quanto si voglia «indipendente», non può tacere su alcuni eventi scandalosi; però ci sono lettori che comperano invece gli altri giornali, e che rimangono del tutto impermeabili a queste critiche. Pertanto il rischio è che l’antiberlusconismo sia diventato materia da club, praticato da coloro che sono già d’accordo, così che le denunce (che ci sono) lasciano intoccati proprio quei nostri connazionali ai quali chiederemmo un esame di coscienza sul voto che hanno dato qualche anno fa. E allora si comprende, anche se non si giustifica, la reazione di coloro che, pur stando all’opposizione, ci invitano a smetterla col gioco al massacro nei confronti del primo ministro, che rischia di diventare materia di civile e divertita conversazione per membri dello stesso circolo ricreativo i quali, trovandosi tutti d’accordo nelle loro deprecazioni virtuose, si convincono di avere salvato almeno l’anima.

Da cui una prima riflessione, su cui ritornerò alla fine: il fronte critico nei confronti del nuovo regime raggiunge soltanto l’udienza che di queste critiche non ha bisogno.

Veniamo ora ai casi del nostro sfortunato paese. Ogni giorno si sentono reazioni energiche (e per fortuna anche da parte dell’opinione pubblica di altri paesi europei, forse più che da noi) al colpo di Stato strisciante che Berlusconi sta cercando di realizzare.

Ci siamo accorti tutti che era male impostata la discussione se Berlusconi stesse instaurando un regime, sino a che la parola «regime» ci evocava automaticamente il regime fascista, e allora era se non altro onesto ammettere che Berlusconi non stava mandando i dissidenti a Ventotene, non stava mettendo i ragazzi in camicia nera, non ricostruiva la camera dei fasci e delle corporazioni e così via.

Infatti non era ancor chiaro che, regime essendo in genere una forma di governo (così come ci sono regimi democratici, regimi monarchici e così via), Berlusconi sta instaurando giorno per giorno una forma di governo autoritario, fondato sull’identificazione del partito, del paese e dello Stato con una serie di interessi aziendali. Lo fa senza procedere con operazioni di polizia, arresto di deputati, o abolizione violenta della libertà di stampa, ma mettendo in opera una occupazione graduata dei media più importanti, e creando con mezzi adeguati forme di consenso fondate sull’appello populistico.

Di fronte a questa operazione si è affermato, nell’ordine, che: (i) Berlusconi è entrato in politica al solo fine di bloccare o deviare i processi che potevano condurlo in carcere; (ii) come ha detto un giornalista francese, Berlusconi sta instaurando un «pedegisme» (pdg essendo in Francia il président directeur général, il boss, il manager, il capo assoluto di una azienda); (iii) Berlusconi realizza il progetto avvalendosi di un’affermazione elettorale indiscutibile, e quindi sottraendo agli oppositori l’arma del tirannicidio, in quanto debbono opporsi rispettando il volere della maggioranza, e quello che possono fare è solo convincere parte di questa maggioranza a riconoscere e accettare le considerazioni del cui elenco la presente è parte; (iv) Berlusconi, sulla base di questa affermazione elettorale, procede facendo approvare leggi concepite nel suo personale interesse e non secondo quello del paese (e questo è il pedegisme); (v) Berlusconi, per le ragioni sopra esposte, non si muove come uno statista e neppure come un politico tradizionale, ma secondo altre tecniche – e proprio per questo è più pericoloso di un caudillo dei tempi andati, perché queste tecniche si presentano come apparentemente adeguate ai principî di un regime democratico; (vi) come sintesi di queste ovvie e documentate osservazioni, Berlusconi ha superato la fase del conflitto d’interessi per realizzare ogni giorno di più l’assoluta convergenza d’interessi, e cioè facendo accettare al paese l’idea che i suoi personali interessi coincidano con quelli della comunità nazionale.

Questo è certamente un regime, una forma e una concezione di governo, e si sta realizzando in modo così efficace che le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà ed amore per l’Italia ma semplicemente al timore che l’Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero estendersi all’Europa intera.

Tutte queste osservazioni (e persuasioni) sono vere, condivise e condivisibili, e io non direi che sinora si sia manifestato soltanto disinteresse, ignavia, accettazione dell’inevitabile, con tutte le tentazioni di negoziazione e inciucio che ne conseguono.

Il problema è che l’opposizione a Berlusconi, anche all’estero, procede alla luce di una settima persuasione, che secondo me è sbagliata. Si ritiene infatti che, non essendo uno statista, ma un boss aziendale solamente inteso a mantenere gli equilibri precari del proprio schieramento, Berlusconi non si accorga che il lunedì dice una cosa e il martedì il suo contrario, che non avendo esperienza politica e diplomatica sia incline alla gaffe, parli quando non deve parlare, si lasci sfuggire affermazioni che è costretto il giorno dopo a rimangiarsi, confonda a tal punto il proprio utile particolare con quello pubblico da permettersi con ministri stranieri battute di pessimo gusto sulla propria consorte – e via dicendo. In questo senso la figura di Berlusconi si presta alla satira, i suoi avversari si consolano talora pensando che abbia perduto il senso delle proporzioni, e confidano pertanto che senza rendersene conto corra verso la propria rovina (ipotesi Montanelli).

Credo che invece occorra partire dal principio che, in quanto uomo politico di nuovissima natura, diciamo pure post-moderno, Berlusconi sta mettendo in atto, proprio coi suoi gesti più incomprensibili, una strategia complessa, avveduta e sottile, che testimonia del pieno controllo dei suoi nervi e della sua alta intelligenza operativa (e se non di una sua intelligenza teorica, di un suo prodigioso istinto di venditore).

Colpisce infatti in Berlusconi (e purtroppo diverte) l’eccesso di tecnica del venditore. Non è necessario evocare il fantasma di Vanna Marchi – che di queste tecniche costituiva la caricatura, sia pure efficace per un pubblico sottosviluppato. Vediamo la tecnica di un venditore di automobili. Egli inizierà dicendovi che la macchina che propone è praticamente un bolide, che basta toccare l’acceleratore per andare subito sui duecento orari, che è concepita per una guida sportiva. Ma non appena si renderà conto che avete cinque bambini e una suocera invalida, senza transizione di sorta, passerà a dimostrarvi come quella macchina sia l’ideale per una guida sicura, capace di tenere con calma la crociera, fatta per la famiglia. Quindi di colpo vi dirà che se la prendete vi dà i tappetini gratis. Il venditore non si preoccupa che voi sentiate l’insieme del suo discorso come coerente, gli interessa che, tra quanto dice, di colpo vi possa interessare un tema, sa che reagirete alla sola sollecitazione che vi può toccare e che, una volta che vi sarete fissati su quella, avrete dimenticato le altre. Quindi il venditore usa tutti gli argomenti, a catena e a mitraglia, incurante delle contraddizioni in cui può incorrere. Deve fare in modo di parlare molto, con insistenza, per impedire che facciate obiezioni.

Molti ricorderanno quel tal Mendella che appariva in televisione (non una volta, come fanno gli spot delle grandi aziende, ma per ore e ore, su un canale dedicato) per convincere pensionati e famiglie di medio e basso reddito ad affidargli i loro capitali, assicurando rendimenti del cento per cento. Che, dopo aver rovinato alcune migliaia di persone, Mendella sia stato preso mentre fuggiva con la cassa, è un altro discorso: aveva tirato troppo la corda e troppo in fretta. Ma tipico di Mendella, se ricordate, era presentarsi alle dieci di sera dicendo che lui non aveva interessi personali in quella raccolta di risparmi altrui, perché era semplicemente il portavoce di una azienda ben più ampia e robusta; ma alle undici affermava energicamente che in quelle operazioni, di cui si diceva l’unico garante, aveva investito tutto il suo capitale, e quindi il suo interesse coincideva con quello dei suoi clienti. Chi ha inviato i soldi non si è mai accorto della contraddizione, perché ha scelto evidentemente di focalizzare l’elemento che gli infondeva maggior fiducia. La forza di Mendella non stava negli argomenti che usava, ma nell’usarne molti a mitraglia.

La tecnica di vendita di Berlusconi è evidentemente di tal genere (vi aumento le pensioni e vi diminuisco le tasse) ma infinitamente più complessa. Egli deve vendere consenso, ma non parla a tu per tu coi propri clienti, come Mendella. Deve fare i conti con l’opposizione, con l’opinione pubblica anche straniera e con i media (che non sono ancora tutti suoi), e ha scoperto il modo di volgere le critiche di questi soggetti a proprio favore.

Pertanto deve fare promesse che, buone cattive o neutre che appaiano ai suoi sostenitori, si presentino agli occhi dei critici come una provocazione. E deve produrre una provocazione al giorno, tanto meglio se inconcepibile e inaccettabile. Questo gli consente di occupare le prime pagine e le notizie di apertura dei media e di essere sempre al centro dell’attenzione. In secondo luogo la provocazione deve essere tale che le opposizioni non possano non raccoglierla, e siano obbligate a reagire con energia. Riuscire a produrre ogni giorno una reazione sdegnata delle opposizioni (e persino di media che non appartengono all’opposizione ma non possono lasciar passare sotto silenzio proposte che configurano stravolgimenti costituzionali) permette a Berlusconi di mostrare al proprio elettorato che egli è vittima di una persecuzione («Vedete, qualsiasi cosa dica, mi attaccano»).

Il vittimismo, che sembra contrastare col trionfalismo che caratterizza le promesse berlusconiane, è tecnica fondamentale. Ci sono stati esempi anche simpatici di vittimismo sistematico, come quello di Pannella che è riuscito per decenni ad occupare le prime posizioni nei media proclamando che tacevano sistematicamente sulla sue iniziative. Ma il vittimismo è anche tipico di ogni populismo. Mussolini ha provocato con l’attacco all’Etiopia le sanzioni, e poi ha giocato propagandisticamente sul complotto internazionale contro il nostro paese. Affermava la superiorità della razza italiana e cercava di suscitare un nuovo orgoglio nazionale, ma lo faceva lamentando che gli altri paesi disprezzassero l’Italia. Hitler è partito alla conquista dell’Europa sostenendo che erano gli altri a sottrarre lo spazio vitale al popolo tedesco. Che è poi la tattica del lupo nei confronti dell’agnello. Ogni prevaricazione deve essere giustificata dalla denuncia di una ingiustizia nei tuoi confronti. In definitiva il vittimismo è una delle tante forme con cui un regime sostiene la coesione del proprio fronte interno sullo sciovinismo: per esaltarci occorre mostrare che ci sono altri che ci odiano e vogliono tarparci le ali. Ogni esaltazione nazionalistica e populistica presuppone la coltivazione di uno stato di continua frustrazione.

Non solo, il poter lamentare ogni giorno il complotto altrui permette di apparire sui media ogni giorno a denunciare l’avversario. Anche questa è tecnica antichissima, nota anche ai bambini: tu dai uno spintone al tuo compagno del banco davanti, lui ti tira una pallina di carta e tu ti lamenti col maestro.

Un altro elemento di questa strategia è che, per creare provocazioni a catena, non devi parlare solo tu, bensì lasciare mano libera ai più dissennati tra i tuoi collaboratori. Non serve passargli ordini, se li hai scelti bene partiranno per conto proprio, se non altro per emulare il Capo, e più dissennate saranno le provocazioni meglio sarà.

Non importa se la provocazione va al di là del credibile. Se tu affermi, poniamo, che vuoi abolire l’articolo della Costituzione che difende il paesaggio (d’altra parte che altro sono le proposte di elevare la velocità ai centocinquanta orari, o i progetti tecnologici e faraonici in spregio alle esigenze ecologiche?), l’avversario non può non reagire, altrimenti perderebbe persino la propria identità e la propria funzione di oppositore come garante. La tecnica consiste nel lanciare la provocazione, smentirla il giorno dopo («Mi avete frainteso») e lanciarne immediatamente un’altra, in modo che su quella si appunti e la nuova reazione dell’opposizione e il rinnovato interesse dell’opinione pubblica, e tutti dimentichino che la provocazione precedente era stata semplicemente flatus vocis.

L’inaccettabilità della provocazione consente inoltre di raggiungere altri due fini essenziali. Il primo è che, in fin dei conti, per alta che la provocazione sia stata, costituisce pur sempre un ballon d’essai. Se l’opinione pubblica non ha reagito con sufficiente energia, questo significa che persino la più oltraggiosa delle strade potrebbe essere, con la calma dovuta, percorribile. Questo è il motivo per cui l’opposizione è costretta a reagire, anche se sa che si tratta di pura e semplice provocazione, perché se tacesse aprirebbe la strada ad altri tentativi. L’opposizione fa dunque quello che non può non fare per contrastare il colpo di Stato strisciante, ma così facendo lo corrobora, perché ne segue la logica.

Il secondo fine che si realizza è quello che definirei l’effetto bomba. Ho sempre sostenuto che se fossi uomo di potere impegolato in molti e oscuri traffici, e se venissi a sapere che entro due giorni scoppierà sui giornali una rivelazione che porterebbe alla luce le mie malefatte, io avrei una sola soluzione: metterei o farei mettere una bomba alla stazione, in una banca, o in piazza all’uscita dalla messa. Con ciò sarei sicuro che per almeno quindici giorni le prime pagine dei giornali e l’apertura dei telegiornali saranno occupate dall’attentato, e la notizia che mi preoccupa, seppure apparisse, sarebbe confinata nelle pagine interne e passerebbe inosservata – o comunque toccherebbe solo di striscio un’opinione pubblica preoccupata da ben altri problemi.

Un caso tipico di effetto bomba è stata la sparata sul kapò seguita dalla sparata di rinforzo del leghista Stefani contro i turisti tedeschi beoni e schiamazzatori. Gaffe incomprensibile, dato che suscitava un incidente internazionale e proprio all’inizio del semestre italiano? Niente affatto. Non solo (ma questo è stato effetto collaterale) perché sollecitava lo sciovinismo latente di gran parte dell’opinione pubblica, ma perché in quegli stessi giorni si discuteva in parlamento la legge Gasparri, con la quale Mediaset affossava definitivamente la Rai e moltiplicava i dividendi. Ma io (e chissà quanti altri come me) me ne sono reso conto solo ascoltando, mentre guidavo in autostrada, Radio Radicale in diretta dal parlamento. I giornali dedicavano pagine e pagine a Berlusconi gaffeur, al fatto se i turisti tedeschi sarebbero scesi ugualmente in Italia, al problema lancinante se Berlusconi con Schröder si fosse davvero scusato oppure no. L’effetto bomba ha funzionato alla perfezione.

Potremmo rileggerci tutte le prime pagine dei quotidiani degli ultimi due anni per poter calcolare quanti effetti bomba sono stati prodotti. Di fronte ad affermazioni sesquipedali, come quella che i magistrati sono soggetti da cura psichiatrica, la domanda da porsi è quale altra iniziativa questa bomba stia facendo passare in secondo piano.

In questo senso Berlusconi pedegista controlla e dirige le reazioni dei suoi oppositori, le confonde, può usarle per mostrare che quelli vogliono la sua rovina, che ogni appello all’opinione pubblica è una canagliata ad hominem.

Per finire, la strategia delle mosse eccessive produce sconcerto negli stessi media che dovrebbero criticarle. Si consideri la faccenda Telekom-Serbia. A uno storico del futuro sarà chiaro che, in questa ridda di insinuazioni ed accuse, sono in gioco sei diversi problemi. Vale a dire: (i) se l’affare Telekom-Serbia è stato un cattivo affare; (ii) se era politicamente e moralmente lecito fare transazioni con Milosevic´, in un’epoca pre-Kosovo, quando il dittatore serbo non era ancora stato messo al bando dalle nazioni democratiche; (iii) se in questo affare sono stati impiegati denari pubblici; (iv) se il governo era tenuto a sapere che cosa stesse accadendo; (v) se il governo l’ha saputo e ha dato il suo consenso. Tutti questi punti sono di carattere squisitamente politico ed economico e potrebbero essere discussi sulla base dei fatti (quando, come, quanto). Il sesto punto è invece se qualcuno abbia preso tangenti per consentire un affare illecito e dannoso per l’Italia. Questo punto sarebbe di rilievo penale ma potrà essere discusso solo sulla base di prove ancora a venire. Ebbene, scegliete un italiano a caso e chiedetegli se ha chiare queste distinzioni e se sa di che cosa si stia parlando quando si protesta contro i veleni o si sollecita un’inchiesta. Solo pochi articoli di fondo hanno messo in chiaro l’esistenza non di uno ma di sei problemi, per il resto i media sono stati trascinati in una ridda convulsa di esternazioni quotidiane, le une che riguardavano i punti (i)-(v) e le altre che riguardavano il punto (vi), ma senza che il lettore o il telespettatore abbiano avuto il tempo di capire sia che le questioni erano sei sia di quale si stesse parlando. Per stare dietro alla ridda di esternazioni, che confondono abilmente i sei punti, anche i media sono costretti a confonderli – il che è poi quello a cui l’operazione mira.

Se questa è la strategia, sino a ora si è dimostrata vincente. Se l’analisi della strategia è giusta, Berlusconi ha ancora un grande vantaggio sui suoi avversari.

Come ci si oppone a questa strategia? Il modo ci sarebbe, ma assomiglia al suggerimento di McLuhan, che per bloccare i terroristi (che vivevano sull’eco propagandistico delle loro iniziative e sul malessere che diffondevano), proponeva il black out della stampa. La conseguenza era che forse non si sarebbe diventati megafono dei terroristi, ma si entrava in un regime di censura – che è poi quello che i terroristi speravano di provocare.

È facile dire: concentri le tue reazioni solo sui casi veramente importanti (leggi sulle rogatorie o sul falso in bilancio, Cirami, Gasparri e via dicendo) ma se Berlusconi lascia capire che vuole diventare presidente della Repubblica metti la notizia in un trafiletto di sesta pagina, per obbligo d’informazione, senza stare al suo gioco. Ma chi accetterebbe questo patto? Non la stampa specificamente di opposizione, che si troverebbe immediatamente a destra della stampa «indipendente». Non la stampa indipendente, per la semplice ragione che il patto presupporrebbe un suo schieramento esplicito. Inoltre questa decisione sarebbe inaccettabile per qualsiasi tipo di medium, il quale verrebbe meno al suo dovere/interesse, quello di approfittare del minimo incidente per produrre e vendere notizie, e notizie piccanti e appetibili. Se Berlusconi insulta un parlamentare europeo non puoi relegare la notizia tra i fatti di cronaca o gli stelloncini di costume, perché perderesti le migliaia di copie che ti fa guadagnare il battage sul gustoso avvenimento, con pagine e pagine di opinioni divergenti, interpretazioni, pettegolezzi, ipotesi, reazioni salaci.

Naturalmente potrebbe darsi che questa strategia non abbia il respiro di una strategia: che sia una tattica utile per vincere alcune battaglie ma non per vincere una guerra. Anzi, potrebbe essere una tattica buona per sfiancare l’esercito avversario ma non per vincere una battaglia campale.

In secondo luogo potrebbe accadere che questa tattica inebrii, abitui, dia un senso di impunità: a un certo punto Berlusconi potrebbe diventarne vittima egli stesso, ripetere compulsivamente le sue mosse, senza rendersi conto che agli occhi di moltissimi è diventato la caricatura di se stesso.

Ma tutte queste sono ipotesi, e potrebbero essere dannose in quanto rassicuranti. Non rimane dunque che prendere una decisone, sia pure sulla base della semplice ipotesi che sia buona e sia realizzabile: visto che, sino a che il gioco ce l’ha in mano Berlusconi, l’opposizione deve seguirne le regole, l’opposizione deve prendere l’iniziativa adottando – ma in positivo – le stesse regole berlusconiane.

Questo non comporta che l’opposizione dovrebbe finire di «demonizzare» Berlusconi. Si è visto che se non reagisce alle sue provocazioni in un certo senso le avalla, e in ogni caso manca al proprio dovere istituzionale. Ma questa funzione di reazione critica alle provocazioni dovrebbe essere assegnata a un’ala dello schieramento, impegnata a pieno tempo. E dovrebbe manifestarsi su canali alternativi. Se è vero, come è vero, che i media ancora liberi dal controllo berlusconiano raggiungono solo i già convinti, e la maggior parte dell’opinione pubblica è esposta a media asserviti, non rimane che scavalcare i media. A modo proprio i girotondi sono stati un elemento di questa nuova strategia, ma se uno o due girotondi fanno rumore, mille ingenerano assuefazione. Se debbo dire che il telegiornale ha celato una notizia non posso dirlo attraverso il telegiornale. Debbo tornare a tattiche di volantinaggio, distribuzione di videocassette, teatro di strada, tam tam su Internet, comunicazione su schermi mobili posti in diversi angoli della città, e a quante altre invenzioni la nuova fantasia virtuale può suggerire. Visto che non si può parlare all’elettorato disinformato attraverso i media tradizionali, se ne inventano dei nuovi.

Contemporaneamente, a livello dell’azione più tradizionale dei partiti, delle interviste, della partecipazione a programmi televisivi (ma sorprendendo l’avversario con l’esternazione inattesa) l’opposizione deve fare partire le proprie provocazioni.

Cosa intendo per provocazioni di opposizione? La capacità di concepire dei piani di governo, su problemi su cui l’opinione pubblica sia sensibile, e di lanciare idee su futuri assetti del paese tali da obbligare i media a occuparsene almeno con lo stesso rilievo che danno alle provocazioni di Berlusconi.

In spirito di puro machiavellismo (stiamo parlando di politica) ritengo che, salva la dignità, il progetto provocatorio potrebbe andare al di là delle proprie effettive possibilità di realizzazione. Tanto per fare un esempio da laboratorio, la pubblicizzazione di un piano che prevedesse, poniamo, una legge che la sinistra al governo vorrebbe fare subito approvare, che proibisse a un solo soggetto di avere più di una stazione televisiva (e o un giornale o una stazione), scoppierebbe come una bomba. Berlusconi sarebbe obbligato a reagire, questa volta in difesa e non in attacco, e facendolo darebbe voce ai suoi avversari. Sarebbe lui a dichiarare l’esistenza di un conflitto (o di una convergenza) d’interessi, e non potrebbe attribuirne il mito alla volontà perversa dei suoi avversari. Né potrebbe accusare di comunismo una legge antimonopolio che mira ad allargare gli accessi alla proprietà privata dei media.

Ma non è necessario spingersi a ipotesi fantascientifiche. Un piano per il controllo del rincaro dei prezzi dovuto all’euro, toccherebbe da vicino anche coloro che non si sentono coinvolti dal conflitto d’interessi.

Insomma, si tratterebbe di lanciare di continuo, e in positivo, proposte che lascino intravedere all’opinione pubblica un altro modo di governare, e che mettessero la maggioranza alle corde, nel senso che sia obbligata a dire se ci sta o non ci sta – e in tal senso essa sarebbe costretta a discutere e difendere i propri progetti e a giustificare le proprie inadempienze – non potendo arroccarsi sull’accusa generica a una opposizione rissosa. Se tu dici alla gente che il governo ha sbagliato a fare questo o quello, la gente potrebbe non sapere se hai ragione o torto. Se invece dici alla gente che tu vorresti fare questo o quello, l’idea potrebbe colpire l’immaginazione e gli interessi di molti, suscitando la domanda sul perché la maggioranza non lo fa.

Solo che, per elaborare strategie del genere, l’opposizione dovrebbe essere unita, perché non si elaborano progetti accettabili e dotati di fascino se ci si impegna dodici ore al giorno in lotte intestine. E qui si entra in un altro universo, e l’ostacolo insormontabile pare essere la tradizione ormai più che secolare per cui le sinistre di tutto il mondo si sono sempre esercitate nella distruzione delle proprie eresie interne, anteponendo le esigenze di questa lotta tra fratelli alla battaglia frontale contro l’avversario.

Eppure, solo superando questo scoglio si può pensare a un soggetto politico capace di occupare l’attenzione dei media con progetti provocatori, e di battere Berlusconi usando, almeno in parte, le sue stesse armi. Se non si entra in questa logica, che può anche non piacere, ma è la logica dell’universo mediatico in cui viviamo, non rimane che fare dimostrazioni contro la tassa sul macinato.

Pubblichiamo il Questionario scritto da Paolo Flores D’Arcais e sottoposto a Umberto Eco come linea-guida della sua analisi

QUESTIONARIO IN FORMA DI TESI

Dinnanzi al regime berlusconiano, non è venuto il momento, per l’intellettuale che ha il privilegio di ‘ farsi ascoltare’, di impegnarsi in prima persona?

Non è necessario ‘allargare’ l’Ulivo, oltre i partiti, alla società civile, per dare nuovo slancio ai movimenti e autenticità all’opposizione?

Premessa

Le righe che seguono non vanno prese come un vero e proprio questionario. Piuttosto, come una traccia, che indica gli argomenti che presumibilmente stanno a cuore a molti lettori, e che ciascuno, nel rispondere, può utilizzare a suo modo, concentrandosi nel proprio intervento su alcuni punti o anche su uno solo dei temi, o aggiungendone altri eccetera. Con la più totale libertà.

1. Una sorta di schizofrenia etico-politica sembra conquistare il paese anche nella sua maggioranza di cittadini criticamente consapevoli: una mitridatizzazione, forse. Sempre più numerose sono le persone, anche di vocazione moderatissima, che riconoscono una dichiarata finalità di regime nell’azione berlusconiana di malgoverno (da ultimo Rivera, ex golden boy calcistico, oggi cautissimo politico della Margherita). Ma alla consapevolezza analitica non corrisponde adeguata «ragion pratica», l’imperativo cioè di un coinvolgimento anche personale nell’azione democratica di contrasto, ora che troppi e reiterati fatti, concordemente univoci, certificano l’avvenuto superamento della soglia che dichiara «la repubblica in pericolo».

Siamo al punto che la più autorevole testata della destra economica internazionale, bibbia ebdomadaria dell’establishment capitalistico e compassata cheerleader giornalistica della signora Thatcher e di Bush padre e figlio (e dello spirito santo del liberismo senza remore), l’Economist insomma, insiste pervicacemente in una vera e propria «crociata» per sensibilizzare l’Occidente conservator-finanziario a non sottovalutare la tabe anti-liberaldemocratica rappresentata dal berlusconismo, e annesso rischio di contagio populista in Europa a danno delle libere (ma soprattutto liberiste) istituzioni: tanto comunitarie che dei singoli Stati.

Ma gli intellettuali democratici nel nostro paese sembrano conquistati da un fatalismo a valenza ottimistica, quasi che il vaticinio di Montanelli («Per decidere di liberarsene l’Italia deve assaggiarlo fino in fondo») suoni invito al divertissement e all’evasione anziché stimolo a più lucida passione civile.

E allora, se il cumularsi delle gesta e delle minacce governative contro la convivenza liberaldemocratica ha ormai esondato (come in effetti) il livello di guardia, non è giunto il momento della decisione per un impegno civile – e dunque politico, di «movimento» – esplicito personale e diretto, al di là di quello indiretto erogato con la capacità e le realizzazioni professionali, da parte di chiunque (una percentuale assai modesta) abbia modo di praticare davvero il diritto all’espressione della libera opinione, goda cioè, in virtù di autorevolezza o notorietà pubbliche, del privilegio massmediatico di «essere ascoltato»?

2. Prodi ha lanciato la proposta di una lista unica dell’Ulivo per le prossime europee. Il fondatore della Repubblica, Eugenio Scalfari, ha commentato che «l’operazione ha un senso se allarga l’Ulivo alla società civile oltre che ai partiti». Analogo il significato, sebbene non la formulazione letterale, dell’appassionata difesa della proposta Prodi svolta da Furio Colombo sul quotidiano di cui è direttore, l’Unità. Senza tale allargamento alla società civile, in effetti, la proposta di Prodi suonerebbe incongrua perché – come immediatamente notato anche da Massimo D’Alema – «con una legge che fa eleggere un deputato con lo 0,7 per cento, avremmo interesse a presentarci con dieci liste, non con una». Fare alle europee – dove si vota con un proporzionale quasi perfetto – il pieno dei voti dei cittadini che oggi si oppongono a Berlusconi – e che ormai nel paese rappresentano una cospicua maggioranza – è dunque possibile solo in due modi: o differenziando al massimo l’offerta attraverso la presentazione di numerose liste, che coprano tutte le sfumature dei punti di vista dell’opposizione, quale si è espressa sia in parlamento che nelle manifestazioni di massa della Cgil, dei girotondi e dei no global, oppure accogliendo la proposta unitaria di Prodi, ma con un rigore tale da renderla attraente e vincente anche in regime di proporzionale.

In che modo, dunque, va realizzato l’allargamento dell’Ulivo «alla società civile oltre che ai partiti»? Come evitare che tale allargamento si riduca al mero inserimento di qualche personalità non direttamente espressione degli apparati, a replica – in formato ridotto, oltretutto – delle esperienze (niente affatto diprezzabili per l’epoca) degli «indipendenti di sinistra»? Chi dovrebbe avanzare le candidature della società civile? Come andrebbe utilizzato lo strumento Internet, che nella scelta del candidato democratico alla Casa Bianca si sta dimostrando un fattore entusiasmante ed efficacissimo di innovazione e partecipazione (e che tale si era già dimostrato nella realizzazione della manifestazione di piazza San Giovanni a Roma il 14 settembre 2002)? E si deve tentare, in questo allargamento dell’Ulivo alla società civile e oltre i partiti, di coinvolgere anche i partiti di opposizione che dell’Ulivo non fanno parte (lista Di Pietro e Rifondazione)?

3. La Costituzione europea è molto deludente, e forse più che deludente. Radica il diritto di veto di ciascun governo in tutti gli ambiti decisionali significativi, consegnando così le istituzioni comunitarie a una potenziale paralisi permanente, e allontanando ogni prospettiva di sovranità dei cittadini europei – attraverso rappresentanti eletti e non attraverso i governi – su di esse. Fa di un liberismo irrazionale, sempre meno temperato e corretto da politiche di welfare, l’unico «nord» di un percorso che non prevede la nascita dell’Europa come autentico soggetto politico, delimitato nei suoi confini agli ambiti geopolitici dove siano già sufficientemente sviluppate le precondizioni culturali e sociali di una democrazia liberale autentica, epperciò forte di istituzioni democratiche tali da rendere effettiva la sovranità dei cittadini e di fare dell’Europa un partner a pari titolo – per dignità, compattezza, influenza – degli Stati Uniti d’America.

Come impedire che questa cattiva Costituzione, benché votata come provvisoria, non finisca per condizionare e bloccare ogni conato di Stato federale democratico europeo, favorendo invece una deriva che nell’allargamento indiscriminato delle istituzioni comunitarie a paesi non ancora sufficientemente democratici (ai loro governi, del resto) veicoli solo una nuova subalternità di questa non Europa agli Stati Uniti?

Perché fino qui l’opinione pubblica e il mondo intellettuale non si sono dimostrati sensibili al peso che il futuro dell’Europa avrà nel futuro di ogni paese e quindi di ogni cittadino? Cosa è possibile fare, fin da ora e nel futuro più prossimo, per rendere i cittadini europei (e quelli italiani intanto) consapevoli della posta in gioco e partecipi delle decisioni, attraverso azioni collettive capaci di spostare i rapporti di forza?

4. Un quotidiano di destra – il Riformista – ha parlato con tono tanto enfatico quanto soddisfatto di «fine del biennio rosso», intendendo con l’iperbole il venir meno della stagione dei movimenti, e il ritorno prepotente e definitivo del «primato dei partiti» (questo e non altro, del resto, è stato il senso che i politici di professione hanno sempre conferito al vessillo più volte inalberato del «primato della politica»). Ma è davvero realistico pensare che i movimenti – intesi nel duplice e intrecciato sistema, giornalisticamente definito come girotondi e no global – abbiano concluso la loro parabola? O non è più ragionevole ipotizzare che essi seguano, strutturalmente e per loro natura, un andamento carsico che vedrà alternarsi momenti di grande mobilitazione popolare a periodi di attività locale scarsamente visibile e quasi sotterranea, a pause di approfondimento culturale e magari di «compromessi» politici, a incertezze e andirivieni di frammentazione in mille rivoli e a ritorni di massa inaspettati e inediti, benché dichiarati ormai impossibili dal coro unanime del pensiero unico d’ordinanza?

E nel caso la stagione dei movimenti fosse davvero conclusa, non si tratterebbe di una sciagura anche per l’opposizione partitico-parlamentare, visto che senza il tanto osteggiato (dai finti riformisti) «biennio rosso» (la cui novità, semmai, è stata di non essere affatto «rosso», benché radicalmente intransigente sui valori di eguaglianza e libertà, e capace di un antagonismo democratico niente affatto ideologico, tanto possibile – e anzi irrinunciabile – quanto dimenticato dalle opposizioni ufficiali) i partiti del centro-sinistra sarebbero ancora invischiati nell’immobilismo delle loro paure, nella morta gora di una ricorrente vocazione all’inciucio, nella palude delle pulsioni alla divisione permanente e autoreferenziale? Senza il vituperato «biennio», oltretutto, la pratica della non opposizione non si sarebbe forse tradotta in una non crescita di consensi elettorali, mentre è proprio nella vitalità dei movimenti – che hanno indotto riflessi di iniziativa oppositoria anche negli zombie partitici – la chiave per capire l’inversione del trend elettorale a svantaggio di Berlusconi?

Cosa è oggi possibile fare, allora, per dare nuovo slancio ai movimenti? E cosa possono fare gli intellettuali per promuovere una più intensa stagione di consapevolezza civica e di azione democratica? Cosa è auspicabile che intervenga nel rapporto tra girotondi e no global, al di là degli intrecci già operanti (che vedono centinaia di migliaia di cittadini partecipare a entrambi i tipi di iniziativa, e numerosi circoli e associazioni locali militare in entrambe le costellazioni)? Quali sono i temi su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione e la mobilitazione? Quali strumenti di comunicazione è possibile inventare per contrastare il monopolio dis-informativo e massmediatico berlusconiano? È possibile, auspicabile – e in che modo incentivabile – una convergenza su singoli temi tra i «centomovimenti» e associazioni intellettuali di impegno e peso democratico del tipo Libertà e giustizia? Su quali temi? Con quali modalità? E fra tutte queste espressioni della società civile e i partiti? E con quali modalità, perché non si finisca – come già troppe volte in passato – nell’uso strumentale (anzi in un vero e proprio «usa e getta») della società civile da parte degli apparati di partito?

Non c’è infine il rischio che, qualora nulla di quanto (ottimisticamente?) immaginato, sebbene in forma interrogativa, più sopra, venga traghettato dai desideri alla realtà, Berlusconi possa recuperare l’attuale crescente deficit di consensi? Resta infatti più che mai operante il paradosso per cui al venir meno dei consensi per il governo video-peronista non corrisponde un allargarsi della fiducia nei confronti dell’opposizione, almeno nella sua attuale configurazione partitica. E fino a che questo maledetto cerchio magico, che i dirigenti dell’opposizione fin troppo spesso alimentano con la loro mediocrità, insipienza e presunzione, non verrà spezzato, un ritorno di fiamma del berlusconismo, anche solo come rassegnazione, resterà sempre minacciosamente in agguato.

5. Mettiamo i piedi nel piatto. La maggior parte dei dirigenti del centro-sinistra manifesta nei fatti (e spesso anche nella idealizzazione verbale) la convinzione che si possano sottrarre consensi a Berlusconi solo non parlando dei crimini di Berlusconi, si possano guadagnare voti solo fingendo che Berlusconi e il suo governo non siano un oltraggio permanente a tutti i principî della democrazia liberale, ma un mero episodio di malgoverno conservatore. Con ciò, tuttavia, non solo si apprestano (nel caso la dismisura degli eccessi e delle aggressioni berlusconiane al minimo sentire democratico procurasse alle opposizioni una vittoria elettorale) a ripercorrere l’intero cursus dis-honorum dei passati inciuci, e relative sciagure per il paese (sempre meno reversibili), ma rendono anche altamente probabile il recupero berlusconiano, che si nutre della mancanza di un’alternativa radicalmente credibile, di una differenza radicalmente percepibile e solo perciò appetibile e affidabile.

In questa sudditanza alla prepotenza e dunque alla il-logica berlusconiana è la ragione della critica severa che dai movimenti e da singole personalità intellettuali è venuta ai dirigenti delle opposizioni parlamentari, critica di cui questi ultimi non comprendono, con la severità, l’essenziale generosità.

A forza di non trattare Berlusconi per quello che è (e che non ha mai nascosto di voler essere), infatti, siamo arrivati a questo: che nella sua guerra permanente contro Benjamin Constant, Tocqueville e addirittura Montesquieu (cioè contro il lato liberal-conservatore, moderato e garantista, dell’orizzonte democratico) la maggioranza berlusconiana ha sempre più decisamente praticato i sentieri dell’eversione istituzionale, ed è ormai probabilmente oltre il semplice corteggiamento del reato di «associazione a delinquere a fini eversivi per sovvertire le istituzioni repubblicane», secondo la formula del portavoce di Forza Italia. Ma le forze (?) di opposizione, non avendo avuto fin qui il buon senso di denunciare neppure sotto il profilo politico l’oltraggio permanente alla democrazia liberale operato dalle violenze massmediatiche e dalle scorrerie legislative della maggioranza, e avendo deciso di non denunciare il vulnus rappresentato da Berlusconi neppure dopo una sentenza che ha certificato al di là di ogni ragionevole dubbio il salasso di legalità e il mercimonio di sentenze organizzato sistematicamente negli anni dall’azienda e dai più stretti compari del Cavaliere, hanno lasciato agli eversori di regime l’agio di raddoppiare l’arroganza con la tracotanza, e di far seguire all’aggressione il cachinno di una commissione parlamentare d’inchiesta contro l’eversione... dei giudici imparziali! Il mondo alla rovescia.

Cosa si deve chiedere alle opposizioni perché pongano fine a questa deriva di masochismo che cresce nutrendosi del fallace alibi della «conquista del Centro»? Come è possibile esercitare la pressione sufficiente perché gli apparati dirigenti dei partiti ritrovino la lucidità elementare di una politica di opposizione adeguata all’oggetto cui devono opporsi?

6. È stato detto infinite volte, anche in piazze gremite da milioni di cittadini, che il paese democratico non avrebbe più dovuto tollerare, in un futuro di normalità che veda il centro-sinistra sostituire Berlusconi al governo, le sciagurate omissioni perpetrate nel primo quinquennio ulivista, 1996-2001: sul conflitto di interessi, sul monopolio televisivo berlusconiano, sulle leggi anticorruzioni e sull’intensificazione della lotta antimafia, sul rafforzamento dell’autonomia dei magistrati, e via rimpiangendo. Come è possibile garantirsi effettivamente che un secondo quinquennio «più che ulivista» non si impantani nel piccolo cabotaggio del quieto vivere (che cova poi, quasi ineluttabilmente, qualche exploit di indecenza bipartisan)? Come non precipitare, per la buonissima causa di sconfiggere comunque Berlusconi, nelle sventure sempre meno rimediabili di una nuova delega in bianco?

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12 Dicembre 2005

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