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Stefano Rodotà
Il codice Bonaparte. Napoleone legislatore europeo
2 Dicembre 2005
Scritti 2004
L’Europa deve far rivivere il carattere “universale” del Codice napoleonico, ma deve superare la finalizzazione delle regole al valore della proprietà (propria della rivoluzione borghese ma ormai anacronistica) anzichè ai valori della persona . Una tesi esposta con chiarezza, su la Repubblica del 14 dicembre 2004

Doppio bicentenario, quest’anno, per Napoleone. Il 21 marzo 1804 veniva promulgato il Codice civile che porta il suo nome, e il 2 dicembre dello stesso anno veniva celebrato a Notre Dame «le Sacre de l’Empereur», la sua Incoronazione. All’immagine di Napoleone legislatore moderno che, nelle stanze del Consiglio di Stato, presiede più della metà delle sedute durante le quali il codice viene elaborato e dove, pur senza abbandonare mai l’autorità del Primo Console, si rivolge ai presenti ancora con l’appellativo rivoluzionario di «cittadino», si accompagna così una rappresentazione che, tramandata dai quadri di David e Ingres, lo vede adorno degli antichi segni del potere - corona, scettro, ermellino.

Mai, però, Napoleone volle che altre immagini offuscassero quella di legislatore, alla cui costruzione, anzi, si dedicò sempre con convinzione. Nel suo racconto dei tempi di prigionia a Sant’Elena, Charles de Montholon riferisce come Napoleone gli confidasse d’essere sicuro che la sconfitta di Waterloo avrebbe cancellato il ricordo delle sue quaranta vittorie, aggiungendo tuttavia che «ce que rien n’effacera, ce qui vivra éternellement, c’est mon Code civil». Non è, questo, il solo momento di una identificazione quasi fisica di Napoleone con il codice, come dimostra l’uso costante del possessivo «mio» tutte le volte che si riferisce a quel testo. «Mon code est perdu», avrebbe esclamato apprendendo che cominciavano ad apparire i commenti e le interpretazioni che ad esso dedicavano i giuristi. E, sempre a Sant’Elena, si domandava con qualche amarezza, e con una linguaggio doppiamente possessivo, «pourquoi mon Code Napoléon n’eut-il servi de base à un Code européen?».

Ci si è chiesti se davvero Napoleone possa essere ritenuto, come egli voleva, l’autore di quel codice e, per dare una risposta, si sono seguite le più diverse piste: quale fu il suo contributo effettivo nelle discussioni al Consiglio di Stato? quali tracce il codice portava della legislazione rivoluzionaria e delle molteplici altre tradizioni culturali che in esso affiorano? e chi, di questa impresa, fu l’effettivo motore? dove finisce il lavoro collettivo, l’ « oeuvre à tous», e si svela un apporto personale? Anche se diverse ricerche confermano il ruolo di Napoleone nel definire le grandi linee della codificazione, non v’è bisogno di filologia giuridica per rendersi conto del fatto che l’approdo a un testo fondamentale dei tempi moderni è stato reso possibile «dall’incontro tra un uomo ed una situazione», da un’intuizione e da una iniziativa politica che hanno permesso di eliminare, anche in modo autoritario, le ultime resistenze e di uscire così da una situazione di stallo, dall’«impossibile code civil» dei tempi post-rivoluzionari, così definito da uno storico fine come Jean-Louis Halpérin.

Il Code civil come opera politica, dunque, che lo trascina al di là della pur rilevantissima dimensione tecnica e gli consente di «dare il tono ad un’epoca nuova», caso unico nella pur ricca vicenda delle codificazioni moderne, come ha messo in evidenza un grande storico del pensiero giuridico, Franz Wieacker. Così lo percepirono i contemporanei, e non solo politici e giuristi, tanto che Heinrich von Kleist interruppe il lavoro letterario per intraprenderne una traduzione e, più tardi, Stendhal lo additava come inarrivabile lezione di stile. Peraltro, proprio perché accompagnato da un segno politico così forte, il Code fu oggetto delle ripulse e delle polemiche aspre che accompagnarono il disegno e l’azione di Napoleone.

Ma non è soltanto intorno all’immagine napoleonica che dev’essere sviluppata l’analisi del Code civil. «Ecco in mano mia il Codice civile. Non è per nulla il prodotto della società borghese. E’ piuttosto la società borghese, nata nel XVII secolo e sviluppatasi nel XIX, che semplicemente trova nel Codice una forma giuridica»: così Karl Marx nel 1849. E Antonio Labriola incalza: «Il novello stato, che ebbe bisogno del 18 brumaio per diventare una ordinata burocrazia poggiata sul militarismo vittorioso, questo stato che completava la rivoluzione nell’atto che la negava, non potea fare a meno del suo testo, e l’ebbe nel Codice civile, che è il libro d’oro della società che produca e venda merci». Questa critica, che ha le sue radici nella Congiura degli Eguali e nel socialismo, ci porta così al tema del soggetto storico di quella codificazione, la borghesia.

Esponendo i motivi della codificazione, il maggiore tra i suoi artefici, Jean-Etienne-Marie Portalis, scrive: «al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero». Ecco indicati, con ammirevole semplicità, il senso e la portata dell’operazione politica realizzata attraverso il Code, individualista e patrimonialista.

La proprietà dà il tono al codice. Lo aveva già detto con assoluta chiarezza Cambacérès, scrivendo che «la legislazione civile regola i rapporti individuali e attribuisce a ciascuno i suoi diritti in relazione alla proprietà». Lo sapeva bene Napoleone che, nel suo proclama del 18 brumaio, si presentava appunto come il difensore di «libertà, eguaglianza e proprietà», reinterpretando, attraverso la cancellazione della fraternità, la triade rivoluzionaria.

Peraltro la liberazione della proprietà dai pesi feudali, e la sua libera circolazione, erano alla base della stessa Rivoluzione.

Proprietà e contratto definiscono così non solo lo statuto della borghesia vittoriosa, ma l’intera trama delle relazioni tra i cittadini. Il Code s’insedia come «una massa di granito» nella società, si presenta come il piano dei rapporti sociali, diventa «la costituzione civile dei francesi». Flaubert, processato per Madame Bovary, vuole ottenere legittimazione sociale davanti al tribunale e si dichiara «proprietario». Il culmine dell’ascesa sociale della Nana di Zola si realizza quando finalmente può esclamare «Sono proprietaria».

Questa, peraltro, è l’indicazione che viene dalla formula di Portalis, dove la proprietà, presentandosi come un assoluto, costituisce un limite al potere stesso del sovrano. Nasce da qui una vicenda che accompagnerà i codici civili fino al Novecento, attribuendo ad essi un sostanziale valore costituzionale di fronte alle costituzioni in senso proprio, il cui contenuto riguardava i soli rapporti politici. Questo valore costituzionale dei codici civili scomparirà quando, a partire dalla «lunga» Costituzione di Weimar del 1919, i principi della legislazione civile verranno trasferiti nei testi costituzionali e sotto l’impulso di un nuovo soggetto storico, la classe operaia, faranno penetrare l’idea sociale nella cittadella proprietaria.

Ma il Code, come modello, è anche strumento di unificazione politica e di identificazione sociale. E’ il codice della doppia secolarizzazione, nei confronti della Chiesa e dell’Ancien Régime.

E farà dire a Tocqueville che «le torrent démocratique a débordé sur les lois civiles», sia pure nella misura che, storicamente, Napoleone riteneva compatibile con il suo potere.

A quel modello possiamo riferirci oggi, soprattutto nella prospettiva di un codice europeo? No, se si considera che la «costituzionalizzazione della persona» rende improponibile una logica tutta patrimonialista; che l’idea di una inscalfibile massa di granito contrasta con i bisogni di una società che, segnata da una innovazione continua, richiede anche una legislazione per principi, omeostatica, capace di adeguarsi al mutamento; che i valori costituzionali sono nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, e ad essi i codici civili devono essere coerenti, avendo perduto l’autoreferenzialità. Sì, se pensiamo alle possibilità di unificazione e razionalizzazione degli strumenti giuridici; all’effetto di trasparenza e di democratizzazione di regole comuni dei rapporti personali e sociali non affidate soltanto alle logiche di mercato o all’azione, non sempre controllabile, di tecnocrazie nazionali o sopranazionali. Di nuovo, il codice come impresa politica, non come operazione tecnica.

Ma, quale che possa essere il destino di un codice, dubito che uno scrittore del futuro potrà piegarsi sul suo testo con lo spirito che spingeva Stendhal a scrivere così a Balzac: «en composant la Chartreuse, pour prendre le ton, je lisait de temps en temps quelques pages du Code civil».

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