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Alessandra Baduel
C’è un paesaggio da rifare
4 Dicembre 2005
Il paesaggio e noi
Istruttiva rassegna delle idee (antitetiche) di vari architetti e urbanisti su identità e tutela. La Repubblica delle Donne, 26 novembre 2005 (f.b.)

Un sentiero di terra battuta, a destra prati e case basse sullo sfondo, a sinistra un filare di alberi e il verde che digrada verso l’acqua della roggia.

Dopo la svolta che fiancheggia una piccola chiusa appaiono un pioppeto, un tratto coltivato, di nuovo un prato, una staccionata. Sono due dei sette chilometri già percorribili di una strada che, quando sarà finita, ne conterà i 120 - tutti da fare a piedi, in bicicletta, a tratti anche a cavallo, fra Milano e Varzi, nell’Oltrepò. Un progetto che ha un nome evocativo, Greenway; un’autrice, l’architetta del paesaggio Caterina Ziman; l’imprimatur dell’università di Pavia e la sponsorizzazione della Banca del Monte di Lombardia. Perché anche un semplice sentiero come questo, un tempo normale presenza vicino a qualsiasi paesino italiano, oggi è frutto di un’operazione altamente specializzata the richiede, come dice Ziman, “molto studio, molta ricerca, molta elaborazione. Sono questi gli ingredienti giusti per arrivare a fare la cosa più semplice” .Peccato solo che al momento il percorso fuori dal tempo sbuchi in un grande e inutile spiazzo di cemento davanti a un gruppo di villette a schiera: periferia di San Genesio, periferia di Pavia.

Poche decine di chilometri più avanti, però, c’è dell’altro, di nuovo e di sorprendentemente bello - sì, bello - da vedere. Oltre la strada, dietro un filare di alberi, strisce color cobalto, azzurro, turchese e acquamarina che si alternano fino a una torretta color tortora. È uno dei due depuratori di Milano, il San Rocco, un bestione che smaltisce fra i 4 e i 12 metri cubi al secondo di acque reflue, a seconda delle piogge.

Costruito dalla società Degremont su progetto degli architetti Quattroassociati, è in funzione dalla fine 2004. Dietro la parete colorata, l’impianto prosegue con una serie di vasche all’aperto. Dalla tangenziale, che quasi le affianca sfiorando l’intero complesso, si vede ben poco: tutto è circondato da un terrapieno verde.

A svegliarci dal sogno di un’altra Italia possibile ci pensano un fiorellone gigante e i tubi che reggono lui e la relativa insegna dell’imperdibile centro commerciale. Cielo cancellato, non esattamente un piacere per gli occhi. Periferia di Rozzano, periferia di Milano: viene voglia di mettere in moto ruspe, martelli idraulici, palle d’acciaio, qualsiasi cosa possa aiutare a ripulire. Tornano in mente Sgarbi e Agrigento da bombardare, e scatta inesorabile la tentazione di dare sempre e comunque ragione a chi si batte contro inceneritori e alte velocità -di cui pure oggi abbiamo bisogno. Ma anche la ruspa, senza un pensiero costruttivo che possa far ridiventare il paesaggio patrimonio di tutti invece di terra di nessuno che è, potrebbe rivelarsi un’arma inutile.

Il depuratore di San Rocco aveva un obiettivo preciso: ripulire le acque senza invadere il territorio. E ci è riuscito, tanto che insieme alla Greenway viene citato come caso positivo nella mostra fotografica Paesaggio tradito che apre oggi a Milano, un’occasione per denunciare e riflettere sugli orrori, spesso perfettamente legali, che hanno invaso 1’Italia; e soprattutto e per dimostrare che anche un depuratore o una passeggiata possono aiutare a immaginare, per il futuro, un paesaggio migliore.



STRADE OPPOSTE - Fra gli architetti e gli urbanisti italiani, Pierluigi Cervellati e Stefano Boeri, entrambi docenti a Venezia, quanto al futuro da immaginare sono agli antipodi. Detta in modo grossolano, uno vorrebbe cancellare tutte le “villettopoli”, mentre l’altro insegue prospettive positive perfino in quell’edificio-mostro che va sotto il nome di Corviale.

“II paesaggio è un bene comune come l’aria o l’acqua”, esordisce Cervellati, “e le responsabilità del “ tradimento”, oltre che di geometri e costruttori, sono anche di architetti, ingegneri, urbanisti, amministratori, soprintendenze ai Beni culturali. Del resto bisogna pur ricordare che vogliamo tutti l’auto, e la Fiat ha assicurato tanti posti di lavoro. E che se da una parte la storica lotta per la casa ha prodotto mostri urbanistici, dall’altra, secondo l’inchiesta de1 1951-52 per il primo Rapporto parlamentare sulla miseria in Italia, su 48 milioni di abitanti nove vivevano in “ baracche, catapecchie o grotte”: quasi un italiano su cinque”. Secondo Cervellati la situazione oggi è ancora peggiore che negli anni ‘60 e ‘70 degli scempi: lo Stato che vende le case popolari, 1’80% degli italiani costretto a comprarsi casa da affitti più alti dei mutui, la campagna abbandonata, i beni culturali visti solo come fonte di profitti, l’uso forzato dell’auto per carenza di trasporti pubblici. “E in questo quadro”, prosegue, “ci sono urbanisti e architetti che difendono il concetto di città diffusa e la villetta come luogo di socializzazione. Senza vedere che proprio queste aree, né città né campagna, sono quelle più a rischio d’implosione”.

A ogni inizio di corso Cervellati chiede ai nuovi allievi dove vivono: “Dei circa ottanta di quest’anno solo tre abitano in condominio. Gli altri stanno quasi tutti fuori città, in villette monofamiliari, qualcuno in case bifamiliari o a schiera. È una tendenza che va frenata. L’ambiente agricolo non è un’area dismessa da occupare, ma il parco del futuro, un bene collettivo”. E quindi, che fare? “Basterebbe applicare le leggi che ci sono, penso per esempio ai piani paesaggistici previsti vent’anni fa dalla Galasso”. O impedire nuovi scempi: “Guardi questa storia della Tav. Io sono assolutamente schierato con i valligiani piemontesi: perché non potenziare la ferrovia che già c’è?”.

Stefano Boeri - proprio uno di quelli che si rifanno al concetto di città diffusa - guarda oltre l’Italia, all’Europa, e propone di osservarla come dal finestrino di un aereo: Tutto il continente si percepisce come un’unica grande città: vedi ovunque spazi costruiti”, spiega. “Oggi, poi ci si sposta rapidamente: grazie al low cost possiamo vivere a Torino, lavorare a Monaco, vedere uno spettacolo a Londra. La percezione della dimensione urbana ne risulta dilatata”. E il paesaggio? Ovviamente anche Boeri pensa che sia stato distrutto da “un’edilizia folle”, ma avverte: “La nostalgia è un pessimo alleato e quell’edilizia è pur sempre il riflesso di una società: basti pensare al quanto è aumentato Il numero delle persone che possono permettersi di costruirsi una casa. Preso atto del fenomeno, il problema è uno solo: dove e come costruire”. E le tanto odiate villettopoli? “Bisogna osservare e studiare l’intero corpo urbanistico e poi intervenire in un punto preciso, un po’ come si fa con l’agopuntura. Prendiamo una famiglia con villetta in Brianza: il padre lavora a Milano, la madre a Varese, un figlio studia a Castellanza, l’altra a Pavia. Usano il centro commerciale di Desio, la sera vanno al cinema al multisala di Melzo. È una monade su cui bisogna lavorare innanzitutto culturalmente”, non serve demonizzarla ma occorre farci i conti: “Oggi l’architettura non ha bisogno di opere autografe, deve invece produrre “dispositivi” da inserire nei punti giusti perché continuino a lavorare nello spazio producendo effetti sociali”. Ancora un esempio: “Ha presente i ragazzi che via sms si danno appuntamento la sera vicino ai caselli delle autostrade? Bene: io organizzo un concorso per creare nuovi spazi, accanto a quei caselli”.


La linea ferroviaria attraversa le risaie fra San Germano Vercellese e Santhià nella pianura piemontese (foto di Fabrizio Bottini)



NÈ CITTÀ NÈ CAMPAGNA - Dalla cronaca delle ultime settimane. A Sedrina, paese montano della VaL Brembana, nel Bergamasco, le case, costruite quando i terreni al sole servivano per coltivare, sono tutte in ombra. Ora il Comune chiede al ministero dell’Ambiente se si può spostare una cava per abbassare un monte di venti metri. E sole sarà. “Non conosco i dettagli dell’operazione”, dice l’architetto e docente di urbanistica al Politecnico di Milano Luigi Mazza, “ma in generale l’idea di una decisione collettiva sul proprio paesaggio non mi dispiace affatto”. Ciò che l’architetto non digerisce è invece “una certa intellettualità molto italiana, pericolosamente narcisista, fortemente orientata in senso estetico”. Quanto alla discussione su dove finisca il paesaggio artificiale della città e cominci quello naturale della campagna, la trova oziosa: “Cerdà, l’autore di Barcellona, fu il primo a dire, a metà ottocento, che non esiste un oggetto chiamato città, ma un intersecarsi dì costruzione urbana e costruzione progettata della campagna”. E oggi? “Che oggi questo confine sia inesistente è chiaro a tutti, o quasi. Lo svuotamento di senso è palese, a cominciare dalle piazze per finire con le aree pedonali che servono soprattutto a facilitare i consumi. Del resto è ovvio che sia così: il potere si esprime nello spazio, e dato che oggi il potere non è riconoscibile, non lo è neppure la città”.



UN GARANTE DELLA QUALITÀ - Torniamo dunque al “ che fare”. Nella tabella di marcia ideale di Salvatore Settis, storico dell’arte e direttore della Normale di Pisa, la priorità è “aprire un dibattito il più pubblico possibile, coinvolgendo università, scuola, cittadini ma anche con l’impegno delle varie associazioni per la tutela del paesaggio. Passare insomma da una fase in cui si dicono solo dei no a quella delle proposte. Per esempio portando a compimento l’iter parlamentare del disegno di legge sulla qualità architettonica”, che guarda al paesaggio - urbano ed extraurbano -come parte del patrimonio da tutelare. “Garante delle norme di tutela deve essere un’alta professionalità con totale neutralità di giudizio. A ricoprire questo ruolo possono anche non essere i soprintendenti ai Beni culturali, ma devono essere figure con le stesse doti e totalmente indipendenti dal potere politico immediato. L’essenziale è non dover più assistere alla deriva degli ultimi anni, in cui il potere decisionale è passato sempre più nelle mani di istanze politiche comunali e regionali. Succede in Sicilia, che ha in ciò piena autonomia, ma anche in Toscana. E ciò significa che ogni Comune in fase preelettorale allenta il controllo sui permessi edilizi”.

Anche l’urbanista Antonello Boatti, del Politecnico dì Milano, ha nel cassetto proposte operative e una certa dose di speranza: “Risanare è possibile, creando poli decentrati dotati delle risorse proprie di una città moderna. Fuori Milano, a pochi chilometri da molti scempi, c’è Buccinasco: un buon esempio di come andare avanti. Ha 2.500 abitanti per chilometro quadrato, 25 mila persone in tutto. Il paese è bello, con piazza, cinema, verde e servizi pubblici, oltre a un bravo sindaco”. Peccato che sia minacciato dai mafiosi in soggiorno obbligato.

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