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Claudio Pavone
Caro d’Alema era l’unica via
5 Novembre 2005
La Resistenza
Un commento misurato a una battuta revisionista (un atteggiamento “poco storiografico e molto politico”) del presidente DS. Da la Repubblica del 5 novembre 2005

«L’esecuzione di Mussolini? Sarebbe stato più giusto processarlo». «La guerra civile? Uno scontro feroce che conobbe atti di barbarie da una parte e dall’altra». «L’uccisione di Claretta Petacci? Incomprensibile per due persone che oggi ne parlano in poltrona». Sono dichiarazioni di Massimo D’Alema, intervistato da Bruno Vespa nel suo nuovo libro Vincitori e vinti.

Nell’anticipare il volume, Panorama presenta in copertina il presidente dei Ds, valorizzato per il suo "coraggio"; sullo sfondo i corpi del duce e di Claretta appesi a piazzale Loreto; a fianco, il commento di Berlusconi: «I comunisti hanno cambiato idea, ma continuano a commettere infamie». Claudio Pavone, prima partecipe poi storico della Resistenza, non vuole essere trascinato in una polemica di basso livello che confermerebbe i caratteri peggiori dei tempi in cui viviamo. Preferisce replicare con una citazione attribuita a Franco Fortini. È un articolo dell’Avanti!, uscito all’indomani dell’esecuzione di Mussolini: «Ieri s’è svolto uno spettacolo orribile. Necessario come tanti orribili supplizi. Quale "legalità" avrebbe riparato il torto commesso, l’arbitrio fatto legge, la violenza eretta a norma di vita? Il popolo è stato costretto a giustiziare il proprio tiranno per liberarsi dall’incubo di una offesa irreparabile. Per gli italiani non v’era altra via d’uscita. Era l’unica catarsi possibile».

Professore, D’Alema sostiene che sarebbe stato più giusto processare Mussolini.

«Innanzitutto va ricordato che la condanna a morte del Duce fu decretata dal Cnl dell’Alta Italia, che aveva avuto dal governo di Roma la delega per la gestione politica e militare della Liberazione del Nord. Quindi non si trattò di un atto dovuto all’iniziativa di singole persone o movimenti. Altra cosa è ovviamente la fucilazione della Petacci, che tutti condannarono. Altra cosa ancora l’esposizione certamente orribile in Piazza Loreto dei cadaveri, che furono poi rimossi su decisione dell’autorità resistenziale: non dimentichiamo peraltro che era stata scelta quella piazza perché lì erano stati uccisi per rappresaglia dei partigiani e i loro corpi abbandonati sul selciato secondo un costume inaugurato dalla Repubblica sociale».

La resa dei conti tra fascismo e antifascismo era giunta all’atto finale.

«Sì, questa è una cosa che certo sono in grado di capire "anche due persone che oggi ne parlano in poltrona". L’uccisione di Mussolini fu necessaria per chiudere definitivamente con il fascismo».

Esclude dunque l’ipotesi d’una Norimberga italiana?

«Sui motivi per cui non ci fu, rinvio al libro di Michele Battini Peccati di memoria. Gli apparati dello Stato italiano, per larga parte immutati, non avevano interesse a celebrare un processo. In particolare, la casta militare avrebbe dovuto processare una parte di se stessa. A cominciare da Badoglio».

Un processo imbarazzante anche per gli inglesi.

«In una prima fase gli alleati erano favorevoli a processare anche i criminali di guerra italiani. L’evolversi della situazione internazionale e i prodromi della guerra fredda gli fecero cambiare idea».

Una volta lei mi disse che, se Mussolini fosse stato processato, l’avremmo ritrovato sui banchi della Camera nelle file del Movimento Sociale Italiano.

«Credo che lo si possa dire ancora. Ed aggiungo: il suo fascicolo sarebbe finito nell’"armadio della vergogna", tra gli atti dei processi contro i criminali di guerra insabbiati dai ministri Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani».

Insomma, l’avrebbe fatta franca.

«Questa possibilità è sempre stata presente nei protagonisti della Resistenza. Non si doveva rifare come dopo il 25 luglio, quando a Mussolini e ai fascisti erano stati usati tanti riguardi, e poi loro vollero vendicarsi con la Repubblica Sociale».

Altra cosa fu l’uccisione della Petacci.

«Sì, inaccettabile: così essa apparve anche allora. Ma inaccettabile in senso morale era stato innanzitutto il fascismo. Colpisce che - dalla condanna dell’esecuzione della Petacci - il giudizio dell’onorevole D’Alema sembra estendersi a tutta la guerra civile».

Parla di atti di barbarie da una parte e dell’altra.

«Le guerre civili sono sempre cariche di efferatezza. Equiparare le due parti dal punto di vista dell’esercizio della violenza non è corretto. I fascisti della Rsi agivano con una ferocia protetta dalle autorità che allora impersonavano lo Stato, oltre che dagli occupanti tedeschi. I partigiani erano invece ribelli contro quello Stato. Rimproverare ai ribelli di essere tali, cioè rimproverargli il titolo d’onore, rischia di condurre a una equiparazione tra le due parti. Voglio poi aggiungere che la violenza era parte integrante della mentalità e della cultura fascista. Per gli antifascisti fu una necessità. E purtroppo, come sempre accade, anche la violenza esercitata per fini giusti può corrompere alcuni di quelli che la praticano».

In un’altra pagina del libro di Vespa, D’Alema distingue in modo netto tra chi militava dalla parte giusta e chi in quella sbagliata.

«È una distinzione giusta, che l’onorevole D’Alema non può ovviamente non fare. Ma la buona fede non è criterio sufficiente di giudizio nei confronti di nessuno. E, poi, è da dubitare che tutti coloro che aderirono a Salò fossero davvero "in buona fede"».

Mettendo in discussione l’esecuzione del duce, D’Alema ha demolito un caposaldo dell’opinione antifascista. Una concessione al "revisionismo"?

«Non voglio pensarlo. Il cosiddetto revisionismo è un fatto poco storiografico e molto politico, cioè con obiettivi politici».

A quale fine?

«Non tocca a me dirlo. Mi è difficile pensare che un uomo avveduto come D’Alema non abbia riflettuto in anticipo sulle conseguenze che potevano avere le sue parole».

A lei che effetto fa?

«Prima stupore, poi dispiacere».

Il dissenso dell´Anpi

«L´esecuzione di Benito Mussolini fu un atto di giustizia, deliberato ed eseguito nel corso della guerra di Liberazione nazionale dagli organi che erano anche istituzionalmente i legittimi rappresentanti del governo italiano nell´Italia occupata: il Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia e il Comando generale del Corpo volontari della Libertà». Con queste parole l´Anpi esprime il suo «fermo dissenso» da quanto affermato dal presidente dei Ds Massimo D´Alema nell´intervista del libro di Bruno Vespa.

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