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Giovanni Caudo
L'emergenza casa a Roma
28 Ottobre 2005
Roma
Un quadro della drammatca situazione e alcune proposte per la ripresa di una politica della casa efficace

Una città grande come Novara, è questa la popolazione che nellacapitale è interessata dall’emergenza abitativa. Il dato si ricava dalla delibera «sulle politiche abitative e sull’emergenza abitativa nell’area comunale romana» approvata prima dell’estate dal Consiglio comunale di Roma. La delibera è un documento politicamente rilevante: indica le strategie dell’amministrazione per rispondere all’emergenza abitativa e ne analizza anche le ragioni. Quali sono le cause dell’emergenza abitativa? Diverse, secondo il documento: «il mancato funzionamento della legislazione nazionale sugli affitti, l’ingresso consistente di nuovi poveri (immigrazione), la diminuzione generale del reddito delle famiglie…, la crescita esponenziale dei valori immobiliari e conseguentemente degli affitti, la progressiva scomparsa delle case degli enti previdenziali destinati all’affitto».

Per l’edilizia romana sono stati anni importanti: 7.288 abitazioni completate tra il 1998 e il 2002, una media di 1.500 alloggi l’anno (dati dell’ufficio statistica del Comune). Il settore delle costruzioni è cresciuto del 4,1% nel 2001, del 2,5% nel 2003 e del 4,7% nel 2004, quest’ultimo dato è quasi quattro volte quello del prodotto interno lordo (dati regionali Ance). Dal 1999 al 2003 si è registrata una crescita costante in tutti i comparti produttivi: edilizia abitativa, non residenziale, opere pubbliche. Anni di vera e propria espansione del settore. Il mercato delle costruzioni ha funzionato bene, tanto da sostenere l’economia della capitale, che si è diversificata ma che trova ancora le sue fonti di finanziamento principali nel settore tradizionalmente forte della città: quello immobiliare.

Ha funzionato il mercato dell’affitto, i canoni sono aumentati mediamente del 91% (media nazionale del 49%, nelle grandi città dell’85%). Ha funzionato il mercato della compravendita che ha registrato incrementi mai visti. La diminuzione del costo dei mutui ha favorito l’accesso al credito ma la crescita dei prezzi degli immobili, oltre il 100% in soli sette anni, ha comportato l’aumento dell’indebitamento delle famiglie. Una rincorsa alla proprietà che a Roma nel decennio 1991-2001 ha visto aumentare del 10% le famiglie con casa in proprietà (da 596.849 a 656.599, dati Istat 2001).

Eppure, in quegli stessi anni cresceva un fabbisogno abitativo rimasto insoddisfatto, e oggi è emergenza sociale. Secondo alcuni un paradosso, normale legge di mercato secondo altri, sta di fatto che oggi a Roma ci sono circa 100 mila persone interessate, seppure in modo diverso, dall’emergenza abitativa. Sono aumentati i proprietari di case ma anche, in misura consistente, le famiglie che vivono in coabitazione, 21 mila, mentre le famiglie senzatetto sono 3.078 (dati dell’ufficio statistica del Comune).

Si è prodotta una polarizzazione: da un lato la rincorsa alla proprietà, dall’altro l’insostenibilità del canone di affitto. A Roma, nel 2004, il canone medio per un alloggio di 75 mq era di 1.075 euro (per una famiglia con due stipendi da impiegato significa oltre il 50% del reddito). Molte famiglie non ce la fanno e per risparmiare si spostano nei Comuni dell’intorno (nel decennio 1991-2001 i residenti della capitale sono diminuiti di 187.104, con un calo del 6,8%, quelli della provincia sono aumentati di 126.461 - dati Istat). Comuni come Ardea e Guidonia hanno registrato tassi di crescita che superano il 40%. La periferia residenziale della capitale si sposta ben oltre il limes. A confermare questa dinamica è lo stesso Comune di Roma che ha preferito comprare alloggi per l’affitto sociale nei comuni di Lavinio, di Anzio, di Pomezia. Il Comune, come i privati, per risparmiare compra casa in provincia.

Nelle analisi della delibera manca una riflessione sul funzionamento (o sul malfunzionamento) del mercato edilizio a Roma, sull’efficacia delle scelte urbanistiche e sulle conseguenze scaturite dall’affermazione delle sole regole di mercato. Quest’ultimo soddisfa la domanda prevalente, che è quella della casa in proprietà, e scarta non solo i fabbisogni delle fasce sociali più deboli ma, sempre più, anche quelli della classe media e di tutti quei soggetti che articolano la domanda abitativa (persone/famiglia, precari, giovani coppie...). Nel conto delle cause bisogna mettere l’arretramento delle politiche pubbliche sul versante dell’offerta che, per una città governata da dodici anni da giunte di centro-sinistra, è un dato significativo. È anche vero che il dato nazionale per il periodo 1984-2004 ha registrato una contrazione degli alloggi pubblici da circa 34 mila a 1.900 (dati Cresme-Anci).

Se questo è il quadro, non si tratta di emergenza ma di un vero e proprio «male» al quale è urgente porre rimedio. In che modo? Nella delibera si dispiegano diversi interventi e si prefigura una strategia che dovrebbe consentire, nel medio periodo, di approntare soluzioni per circa 13 mila famiglie. Gli obiettivi dell’amministrazione sembrano essere: l’acquisizione di immobili dal mercato ma a valori scontati; l’utilizzo di incentivi, economici e/o urbanistici, in modo da regolare l’intervento privato e favorire l’immissione di alloggi in affitto a canone concordato. A questi si aggiungono gli interventi di sostegno alle famiglie con redditi medio-bassi (buoni casa, sgravi Ici, buoni di assistenza).

Resta da affrontare la questione di fondo: la disponibilità di immobili pubblici da immettere sul mercato per realizzare case a basso costo. La risposta all’emergenza casa non può infatti risolversi nel solo sostegno economico: è necessario aprire una stagione nuova di politiche urbanistiche per la casa. Per fare questo è necessario disporre del suolo. Ma oggi il Comune ha già un patrimonio di aree comunali rilevante, circa 4.300 ha, acquisito con la legge 167 del 1962 tra primo e secondo Peep. Si potrebbe utilizzare il suolo che oggi risulta inutilizzato o spesso sprecato per farlo incrociare con la differenziazione della domanda di fabbisogno abitativo.

I vantaggi di poter disporre di aree pubbliche sono notevoli. È possibile avviare la costruzione di alloggi senza dover indebitare il Comune; non c’è bisogno di coinvolgere i privati per realizzare forme di compensazione; le aree sono situate in contesti già urbanizzati. Ci sono poi vantaggi sociali: lo spostamento di fasce deboli, come gli anziani, avverrebbe all’interno di un contesto già consolidato favorendo il benessere e la qualità della vita.

Una simulazione condotta in tre quartieri di edilizia pubblica (Serpentara, Valmelaina, Torsapienza) dal Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma Tre ha evidenziato una disponibilità immediata di suolo per 128 mila mq. Nessuna di queste aree è oggi utilizzata per soddisfare gli standard. Si tratta di un vero e proprio spreco di suolo. Su queste aree si possono realizzare tra 600 e 900 nuovi alloggi.

Dovendo ammortizzare solo i costi di costruzione, che per un alloggio di circa 60 mq si aggirano intorno ai 40 mila euro (il costo è depurato dall’incidenza del costo dell’area), si ottiene un canone mensile di 331 euro per quindici anni o di 284 per venti anni (calcolo effettuato su un mutuo ordinario offerto da un istituto bancario nazionale al tasso fisso del 5,72%). Mancano i dati esatti delle aree utilizzabili negli altri quartieri e quindi del numero di alloggi: una stima di massima ne calcola circa 5.000.

Si potrebbero avviare da subito interventi pilota nei quali sperimentare forme di gestione che coinvolgano organizzazioni del terzo settore e no profit. Nei paesi ad economia di mercato questi soggetti sono presenti in modo consistente nella produzione di beni pubblici, mentre da noi sono quasi del tutto assenti. Interventi in questa direzione sarebbero importanti dal punto di vista quantitativo ma ancora di più da quello qualitativo. Segnerebbero una vera svolta nelle politiche urbanistiche della città liberando nuove risorse ed opportunità e orienterebbero ancora di più l’attenzione verso la città esistente. Si raccoglierebbe la sfida di ripensare un territorio che si è fatto metropoli senza passare per la città.

È quello che sta già avvenendo in altri paesi europei, dove il recupero dei grandi quartieri pubblici degli anni ’60 e ’70 è oggi l’occasione per una nuova politica pubblica della casa. Un progetto di ristrutturazione urbanistica dei quartieri pubblici che prevede la localizzazione di nuove funzioni e l’inserimento di nuovi soggetti in risposta alle nuove domande di abitare. Crediamo che Roma sia la città dove questo tipo di interventi può conseguire i risultati migliori, occorre solo che la politica assuma questo scenario di lavoro come prioritario

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