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Patrick Doherty
Una Fenice che rinasce dal fango
10 Settembre 2005
Megalopoli
Una New Orleans anti-suburbana, comunità modello per gli USA "sostenibili" del nuovo millennio. Dal sito TomPaine Common Sense, 8 settembre 2005 (f.b.)

Titolo originale: A Phoenix from the Mud – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La cosa giusta sostenuta da David Brooks nel suo commento sul New York Times, Katrina’s Silver Lining” è che la devastazione di New Orleans offre un’occasione unica – a dire il vero, l’obbligo – di ricostruire questa città americana in modi che riducano la povertà urbana endemica.

Ma, quando descrive come ciò debba essere fatto, Brooks rivela il suo vero scopo. Questo rappresentante dell’American Enterprise Institute non è tanto interessato a cambiare la vita della povera gente, quanto lo è a consolidare quei miasmi suburbani essenziali al potere politico conservatore in America. Come? Brooks vuole inserire le persone residenti a New Orleans colpite dalla povertà, e ora sfollate, in vari suburbi middle-class sparsi per il paese:

“Nel mondo del post-Katrina, ciò significa dare alle persone che non desiderano tornare a New Orleans il modo di disperdersi in varie zone a ceto medio della nazione”.

Ovviamente, questo vuol dire collocarli nei suburbi, dove il loro costo della vita schizzerà alle stelle. In primo luogo, avranno bisogno di automobili. Per comprarsele, e comprare la benzina, avranno bisogno di lavori che offrano di più di quelli per cui sono, presumibilmente, qualificati ora. Se trovano lavoro, magari da Wal-Mart, avranno bisogno di assistenza familiare perché i parenti non abitano più nello stesso quartiere, e magari nemmeno nello stato. Naturalmente saliranno anche i costi per la casa, a meno che queste persone vengano ricollocate dentro a ghetti urbani: vanificando così l’intero programma.

Il fatto è, che la povera gente si muove verso i suburbi middle-class in tutti gli Stati Uniti, e la cosa non funziona. Man mano le giovani coppie agiate e i baby-boomers verso la pensione riscoprono la qualità dei quartieri ben progettati ad alta densità nei nostri centri urbani serviti da trasporti pubblici, essi spingono la popolazione più povera verso i suburbi di prima fascia. (Questo, a sua volta, spinge fuori la gente del cento medio, verso sobborghi più esterni, spesso nuovi, aumentando le distanze di pendolarismo, le tensioni nelle famiglie, quelle nei bilanci statali e negli ecosistemi locali). Questa dinamica, talvolta definita gentrification, altre volte rinnovo urbano, in effetti significa spostare povertà e criminalità verso i sobborghi, dove l’assenza di senso comunitario, di parentele, di connessione sociale, rende anche più difficile fronteggiarle. E, chiamatemi cinico, ma dubito fortemente che un programma di migrazione forzata imposto dal governo federale possa offrire occasioni e spazi tali da garantire il successo di questo esperimento.

C’è un metodo migliore, e più semplice da mettere in pratica. Invece di consolidare una sperimentazione che dura da cinquant’anni ed è fallita, col sobborgo a bassa densità, la ricostruzione della New Orleans metropolitana dovrebbe essere vista come l’occasione non solo per correggere i problemi causati dalla povertà umana e dalla vulnerabilità fisica della città, ma anche per segnare la strada a tutte le altre realtà metropolitane d’America.

Ciò comporta integrare tre concetti all’interno di un piano di riorganizzazione regionale negoziato coi residenti di New Orleans. Il primo concetto è la smart growth. Il secondo è un tipo di insediamento basato sul trasporto collettivo. Il terzo è una produzione di energia diffusa nel territorio. Smart growth significa progettare insediamenti a densità più elevate, per abitanti a redditi misti in modo da rafforzare le famiglie, costruire un senso comunitario e collocare i servizi di necessità quotidiana ad una distanza da casa facilmente percorribile a piedi. Sta accadendo in tutti gli Stati Uniti. L’insediamento pensato per il trasporto collettivo si basa sull’idea che le nuove costruzioni, o le ricostruzioni, si debbano organizzare attorno a trasporti di massa energeticamente efficienti, che aumentano la mobilità metropolitana, riducendo il tempo trascorso in auto (e la correlata dipendenza dal petrolio). Integrare questi due concetti significa una rete di comunità sane, legate da reti di trasporto efficiente e a prezzi ragionevoli, incrementare l’attività commerciale, le possibilità e le scelte in tutta l’area metropolitana.

L’ultima idea, della produzione energetica distribuita, è la più innovativa, ma al tempo stesso la più importante dal punto di vista strategico. La produzione energetica diffusa, l’uso di generatori locali più piccoli ad alta efficienza, è in contrasto con l’uso tradizionale di grossi generatori centralizzati, spesso inefficienti e inquinanti. Le tecnologie esistono, e molti edifici terziari nelle zone urbane, o fabbriche high-tech che hanno bisogno di energia altamente affidabile, li utilizzano. Addirittura, New York City ha deliberato che una certa percentuale dei nuovi impianti energetici debba essere distribuita, per ridurre il carico sui sistemi centralizzati man mano aumenta il consumo. L’effetto è di creare un sistema energetico metropolitano più solido, in grado di sostenere cadute locali in modo più efficiente, eliminando al contempo circa un terzo dell’inefficienza dovuta alle perdite durante la trasmissione. Coi prezzi energetici in salita e la minaccia certa di nuovi uragani, efficienza e affidabilità diventano essenziali.

La partecipazione locale, sino al livello di quartiere, sarà un fattore critico di questo processo. La ricostruzione post-bellica nei Balcani (in gran parte ignorata nel caso dell’Iraq) ha insegnato nel modo più tragico che senza partecipazione sociale gli sforzi per la ripresa possono prendere direzioni orribilmente sbagliate. Fra le cosiddette “ charrette” sviluppate nei processi di smart growth, e le metodologie di coinvolgimento comunitario delle agenzie umanitarie, i tre elementi per una New Orleans sostenibile possono essere plasmati su misura secondo bisogni, speranze e valori degli abitanti. All’interno di questo processo, il ruolo della politica locale, ora piuttosto scosso, si rafforzerebbe, e l’economia subirebbe un vero boom a causa del lavoro di ricostruzione.

Tutto sommato, abbiamo le conoscenze, capacità e tecnologie per collaborare con gli abitanti di New Orleans a trasformare la città, da simbolo dell’America peggiore, a quanto l’America potrebbe diventare. O meglio, avrebbe bisogno di diventare. Quello che non possiamo fare, è di ricostruire semplicemente l’ingiustizia urbana, e il disagio suburbano.

Nota: il testo originale al sito TomPaine Common Sense; su Eddyburg sono numerosissimi i contributi sul "caso" New Orleans dopo le distruzioni dell'agosto 2005, si veda almeno per confronto sui temi della ricostruzione, questo articolo di Drake Bennet dal Boston Globe (f.b.)

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