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Pedro Pírez
La privatizzazione dell’espansione metropolitana a Buenos Aires
8 Agosto 2005
Megalopoli
Forme "ricche" e "povere" di privatizzazione dello spazio metropolitano e rinuncia dell'ente pubblico alle proprie prerogative. Un saggio ancora inedito, agosto 2005 (g.c.)

Premessa

La città è sottoposta alle sole regole di mercato. Il soggetto pubblico (lo Stato) ha ridotto sensibilmente il suo ruolo e si preoccupa solo di rendere più agevole le iniziative dei privati. Investitori con capitali ingenti si costruiscono le regole e determinano l’assetto della città. E’ così che la città cresce secondo una logica tutta privata e in ossequio alle sole regole di mercato. La città è oggetto stesso dello scambio (del negozio). Così non esiste più la città pubblica perché il mercato non produce beni pubblici. Esiste la città privata, quella dei ricchi con quartieri di lusso e dotati di tutti i servizi, una città chiusa e segregata abitata da una popolazione che ha una forte capacità di consumo. Esiste la città dei poveri, anch’essa privata, costruita per soddisfare direttamente le necessità e il bisogno di abitare. Lottizazioni abusive, occupazione dei suoli e autocostruzione definiscono gli insediamenti miserabili dove si insedia la popolazione povera. I servizi, spesso anche quelli essenziali, scarseggiano ma ci si arrangia e se qualcosa non te la danno te la prendi. Due città entrambe con la stessa logica tutta privata che si localizzano vicine perché ci sono sempre delle relazioni tra i ricchi e i poveri, non ultima la possibilità, per i poveri, di “prendersi” quello che non ti danno. Il resto della città, quello che c’è in mezzo è un limbo e non interessa a nessuno. Sparisce la città pubblica quella che con le sue contraddizioni e differenze era la base per l’integrazione sociale. Ognuno vive nel suo mondo e se può si costruisce la propria campana di vetro e la difende con la vigilanza, in mezzo è il territorio di nessuno.

Questa città esiste e sta ormai corrodendo una città che all’inizio del Novecento si era costruita con un lungimirante progetto pubblico: una griglia e i parchi che costituivano la regola per l’edificazione privata: Buenos Aires. La prima città dotata di una rete metropolitana in tutta l’America Latina. A partire dalla politica economica avviata dalla dittatura nella seconda metà degli anni Settanta per concludersi con le sciagurate riforme economiche di Menem è possibile ripercorrere un lucido progetto di privatizzazione del processo di costruzione della città. Il prof. Pedro Pírez dell’Università di San Martín di Buenos Aires, nell’articolo che abbiamo tradotto, e che trovate in fondo a queste righe, ripercorre con estrema sintesi questo processo e ci chiarisce il modo in cui oggi si sta costruendo la città Metropolitana di Buenos Aires.

Nell’articolo “Politiche pubbliche e sviluppo economico: le Green Belt Towns di Rexford G. Tugwell” (pubblicato su Eddyburg il 13 Luglio 2005) avevamo ricostruito l’importanza del soggetto pubblico nel determinare le politiche di sviluppo di un Paese. Il carattere integrato delle decisioni pubbliche era già allora la condizione essenziale per lo sviluppo. La politica agricola non poteva essere disgiunta dalla politica sulla migrazione dalla campagna verso le città.

L’articolo che segue ci mette davanti agli occhi un caso opposto, in cui il soggetto pubblico diventa uno dei soggetti coinvolti nella costruzione della città, riduce così il suo ruolo che diventa marginale sia nell’indirizzare le scelte urbane sia nella distribuzione della ricchezza.

L’Italia non è l’Argentina ma ci somiglia. Per questo leggendo l’articolo si ha come la sensazione di guardare il futuro, di vedere quello che ci aspetta e che oggi stiamo preparando.

Comprendiamo perché molti di noi sono titubanti di fronte alla retorica del mercato che per alcuni è la panacea di tutti i mali, del privato efficiente e innovatore contrapposto ad un pubblico che per principio non funziona, spreca risorse ed è antiquato. Comprendiamo perché vogliamo restare, nonostante tutto, a chiedere più mercato ma anche un nuovo ruolo del soggetto pubblico. Nuovo nel senso di più forte, con più capacità di comprendere i fenomeni, di interpretarne la complessità e di tracciare linee di indirizzo forti che aiutino anche i privati a sviluppare le loro potenzialità di crescita e ad affermare anche l’animal spirits necessario ad ogni imprenditore. Nuovo ruolo vuol dire più capacità di negoziare su posizioni forti e trasparenti per l’affermazione quanto più ampia possibile di principi generali e di benefici collettivi. Vuol dire anche capacità di prefigurare scenari futuri per mitigarne i rischi e cogliere le opportunità, tutto il contrario del giorno per giorno dove ci si limita a misurare gli ettari di verde ottenuti in cambio del prodotto immobiliare imposto dal promotore. Nuovo vuol dire anche saper dire di no. (g.c.)

(*) Pedro Pírez: Investigador del Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET) en el Centro de Estudios Desarrollo y Territorio (CEDeT) de la Escuela de Política y Gobierno de la Universidad Nacional de San Martín, Buenos Aires; Profesor Titular en la Facultad de Ciencias Sociales de la Universidad de Buenos Aires; Profesor de posgrado en la Universidad Torcuato Di Tella (Traduzione per Eddyburg di Giovanni Caudo]

Di che tipo di privatizzazione parliamo?

E’ ormai un luogo comune riferirsi alla privatizzazione delle nostre città a partire dai cambiamenti che negli ultimi dieci anni hanno interessato sia l’ambito internazionale (ristrutturazione economica e globalizzazione) sia ognuno dei paesi dell’America Latina.

Per comprendere di cosa si tratta è utile però ricordare che queste città, in generale, sono state già costruite in prevalenza da logiche private. Queste città sono state costruite fondamentalmente per mezzo di un processo guidato ed attuato da attori privati che l’hanno orientato, da un lato, verso interessi particolari, così da ricavare dei benefici da ogni fase dell’operazione (il suolo, la costruzione di alloggi, la costruzione di terziario o delle infrastrutture e servizi), e dall’altro lato, per perseguire degli interessi generali, dove questo termine è utilizzato per assicurare il funzionamento delle attività economiche e la crescita dell’occupazione.

Lo Stato è intervenuto introducendo tre condizioni allo sviluppo privato: evitare di subordinare la produzione della città agli interessi particolari del singolo imprenditore, in modo da non contraddire quello che chiamiamo interesse generale (la città come oggetto della negoziazione contro la città come ambito della negoziazione). Limitazioni per garantire l’occupazione e la capacità di accesso ai servizi. Limitazioni per affermare il principio di legittimità in senso ampio.

L’intervento statale dipende in ogni caso dagli attori coinvolti, dalle loro relazioni e contraddizioni. Il risultato è una produzione privata che è orientata all’integrazione sociale e territoriale sia delle attività economiche che della popolazione. Quando ci riferiamo alla privatizzazione possiamo riferirci al processo della produzione urbana (trasformazione del suolo e costruzione) e ai prodotti che sono il risultato di questa produzione.

La privatizzazione della produzione urbana comporta la subordinazione di questa alle decisioni degli attori che si muovono in ragione di una logica di accumulazione del capitale e che sono interessati ad ottenere in prima istanza il guadagno, e poi, in un secondo tempo e se ce ne sono le condizioni, legare la propria azione agli interessi generali, come ad esempio, l’interesse verso altri operatori economici o alla forza lavoro o alla popolazione in senso più generale.

La privatizzazione dei prodotti si riferisce alla capacità di perseguire l’inclusione territoriale e sociale e alla tendenza a lasciare fuori dalla possibilità di consumo segmenti importanti della popolazione. Questo effetto si lega, senza dubbio, con i processi di produzione, però è anche legato con le condizioni più generali della popolazione e di alcuni gruppi in particolare. I cambiamenti nella condizione sociale della popolazione dipendono dalle modificazioni nel mercato del lavoro e nella distribuzione sociale che lasciano fuori dalla possibilità di accesso al consumo dei beni urbani settori importanti della popolazione (disoccupati, precari, poveri, ecc…); cambiamenti che dipendono però anche dalle politiche statali che non si sono fatte carico di queste trasformazioni come anche dalla riduzione delle politiche di sostegno alla popolazione.

Tutto questo è parte di una particolare relazione mercato-Stato, dove il crescente predominio privato è associato a tre diverse situazioni:

a) lo stato riduce o indebolisce il suo intervento favorendo la produzione privata dello spazio urbano; b) lo stato modifica il senso del suo intervento che non è più orientato in ragione dell’ ”interesse generale” ma in favore di interessi economici particolari; c) l’emergere di uno squilibrio nella relazione mercato-Stato per la trasformazione degli investitori, come nel caso dei processi economici globali, in soggetti in grado di alterare il peso negoziale sia nei confronti dello Stato sia del resto degli attori sociali interessati.

2- L’espansione metropolitana di Buenos Aires.

2.1 I precedenti

Dall’inizio dell’espansione metropolitana di Buenos Aires, all’inizio del secolo XX, la costruzione della città si è differenziata in modo significativo tra centro e periferia (Pirez, 1994).

Nella capitale federale, Buenos Aires [i], la produzione della città ha seguito alcune politiche definite dal governo municipale [ii], fondamentalmente si trattava di un disegno di piano che stabilì una griglia estesa per tutta la città (1889-1904) e indirizzò, dall’inizio del secolo, una occupazione relativamente omogenea del territorio (Gorelik, 1984:24). Da questa dipendevano anche la localizzazione delle opere pubbliche che determinarono delle forti centralità [iii] e la costruzione da parte dei privati, sulla base dei regolamenti municipali, delle urbanizzazioni, in particolare energia elettrica e trasporti (ferrovie, tramvie e autobus) così come la produzione e la gestione da parte dello Stato della rete idrica e di quella fognaria. Su questa base la città è cresciuta integrando le parti di città prodotte dai privati, lasciando a carico degli occupanti il compito di completare lo spazio urbano tra il costruito (Dupuy, 1987; Pírez, 1994; Pírez, 1999a). Il centro della città ha una qualità urbana relativamente elevata: dotazione di servizi e norme sull’uso del suolo, che, nonostante talune limitazioni, realizzano la base essenziale per una città capace di integrazione sociale.

Dall’altra parte, la periferia metropolitana [iv] che, nella prima metà del secolo XX, è cresciuta a con l’espansione della classe media [v] e, che a partire dagli anni quaranta, cresce grazie ai settori popolari (in gran parte operai dell’industria). Una crescita senza infrastrutture che restano indietro rispetto all’espansione e, quasi, senza norme che ne regolino l’uso del suolo. In tutti i modi, il mercato del suolo, attraverso il cosiddetto “loteo popular” (Clichevsky, 1990) consentì una sistemazione legale alla popolazione che arrivava in città. Negli anni Quaranta, con la statalizzazione del servizio di trasporto pubblico, anche se le aree servite restavano ancora limitate, ma grazie alle tariffe basse e soprattutto al “permissivismo” nei confronti dei viaggiatori senza biglietto, si favorì una relativa integrazione, anche se con una bassa qualità urbana.

Il risultato fu una città che integrava, in modo legale, ma segregato e in modo molto diseguale, la popolazione di basso reddito.

Questo processo negli ultimi anni si è modificato.

La struttura metropolitana negli anni novanta.

In Argentina la politica economica coerente con il processo di ristrutturazione economica [vi] si è avviata con il governo militare che prese il potere con il golpe del 1976. Il modello industriale subì dei profondi cambiamenti che provocarono disoccupazione, e una forte accentuazione delle disparità economiche. Il Governo centrale ridusse il suo ruolo nelle politiche infrastrutturali di base (acqua e fognature, distribuzione elettrica), in quelle sociali come la salute e l’educazione, decentrandole in primo luogo ai governi provinciali e poi ai comuni. Si avviò così un processo generale di riduzione dello Stato [vii] con il conseguente abbassamento della protezione sociale.

Una politica che si è consolidata e ampliata durante il governo del presidente Menem negli anni Novanta, in un processo di ulteriore deregulation e di apertura all’economia globale.

Passiamo ad evidenziare ora l’aspetto più rilevante del nostro ragionamento. In un contesto di riforma e di riduzione dell’apparato statale, con riduzione delle funzioni e di risorse, avviene il trasferimento, decentramento, agli altri livelli dello Stato e verso le imprese private (privatizzazione).

Si è modificata la forma costitutiva dello Stato, con un peso molto minore nelle politiche pubbliche a favore della popolazione a basso reddito e, per contro, un crescente orientamento verso politiche di tipo finanziario in differenti campi (tra questi quello immobiliare). In quegli anni il capitale finanziario internazionale aumentò il proprio peso nell’economia del paese in modo consistente. Così come il predominio economico nel settore terziario (finanza e servizi) e l’aumento delle attività destinate all’esportazione (prodotti agricoli e energia). Le conseguenze sul mercato del lavoro furono: il consolidamento di una piccola quota di posti di lavoro altamente qualificati e con alta remunerazione (generalmente nel settore terziario); la riduzione dell’occupazione industriale; l’aumento delle disoccupazione e delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito con una conseguente polarizzazione sociale.

Si ebbe così l’emergere di una classe sociale medio-alta con alti redditi e una forte capacità di consumo e, come controparte, l’aumento di una popolazione a basso reddito sotto la linea della povertà e dell’indigenza. Aumentò il divario tra queste due classi e pian piano sparì la classe media tradizionale [viii].

Nel contesto metropolitano tutto questo comportò dei cambiamenti importanti. I soggetti che costruivano la città cambiarono radicalmente. Da un lato fecero la comparsa nuovi attori economicamente forti e con un vero potere di decisione sull’assetto della metropoli, soggetti con un diritto di “cittadinanza” di tipo speciale che potevano fare a meno di rispettare le regole e di subire il controllo sia dell’utente che dello Stato (Pírez, 2004a), in particolare nei servizi urbani (Pírez, 1994 y 1999a; Pírez et al., 2003) e nella trasformazione del suolo. Lo Stato pertanto si fece promotore degli interessi privati nella costruzione della città [ix]. Dall’altro lato, la popolazione di reddito più basso vide ridotta la capacità di promozione sociale a causa della riduzione dell’intervento dello Stato nella produzione di beni pubblici (case, servizi, aree pubbliche) [x]. La disoccupazione e la povertà spinsero questa parte della popolazione a realizzare direttamente i beni di cui aveva bisogno a testimonianza di una condizione di cittadinanza limitata “subciudadanía” (Kovarik, 2000). Si realizzò anche una trasformazione nella realizzazione di residenze per la classe media e medio-alta con l’avvio di un processo di suburbanizzazione attraverso la realizzazione di residence privati (“urbanizaciones cerradas”).

Nel complesso l’esito di queste trasformazioni fu la privatizzazione della città sia a seguito dell’azione dei ricchi ma anche di quella dei poveri. Per meglio comprendere questo processo possiamo ripercorrere quello che è successo nell’espansione metropolitana.

La privatizzazione dell’espansione metropolitana

In questa analisi ci occuperemo della trasformazione del suolo e della realizzazione delle infrastrutture urbane nelle aree della periferia, senza fare riferimento a quanto è avvenuto nella città centrale.

3.1 La privatizzazione del suolo

Differenzieremo due situazioni: il suolo per le case delle famiglie a basso reddito e quello per le residenze dell’elite.

Il suolo dei poveri.

Nel corso degli anni Quaranta la popolazione con basso reddito si sistemava nei “lotti popolari” e nelle “città d’emergenza” o “ città della miseria” (villas miseria).

Queste ultime erano realizzate con l’occupazione illegale del suolo e con la costruzione di abitazioni precarie senza nessun tipo di urbanizzazione. Si formarono per la prima volta negli anni Trenta ed erano abitate dagli immigranti disoccupati (de la Torre, 1983), già nel 1956 vi abitavano 112.350 persone che rappresentevano l’1,9% della popolazione metropolitana (Yujnovsky, 1984). I “lotti popolari” permisero alla popolazione povera di accedere legalmente [xi] al suolo edificabile nella periferia messo a disposizione da promotori privati. Un suolo generalmente senza infrastrutture, spesso a rischio di inondazione, ma che si poteva pagare con quote mensili e che veniva occupato lentamente attraverso l’autocostruzione (Clichevsky, 1990:5; Prévot y Schneier, 1990:131).

Tutto questo fu possibile per la mancanza di regole e grazie ad un contesto sociale e del mercato del lavoro basato sulla redistribuzione economica.

Con il governo militare del 1976, queste condizioni mutarono. Da lì cominciarono i provvedimenti che diminuirono progressivamente la capacità del pubblico di orientare la costruzione della città. [xii]

Nel 1976 venne sospesa la suddivisione dei lotti e nel 1977 si promulgarono le regole per l’uso, la lottizzazione e l’urbanizzazione del suolo. Furono rese obbligatorie una dimensione minima dei lotti, una dotazione di base delle urbanizzazioni (Decreto legge 8912). L’effetto più importante fu la riduzione dei lotti e, pertanto, un forte incremento del costo del suolo (Clichevsky, 1999).

Queste norme si aggiunsero all’impatto delle politiche economiche che portarono ad un incremento della disoccupazione e ad una riduzione dei salari. La conseguenza fu la crisi e la scomparsa del submercato legale dei lotti popolari. La città cessò di offrisre suolo legale ai poveri e questi furono lasciati soli a risolverel le loro necessità e i loro bisogni. Negli anni Ottanta iniziò l’occupazione illegale del suolo pubblico e privato e la formazione degli “asentamientos” [xiii] (Izaguirre y Aristazabal, 1988; Merklen, 1991 y 2000). La popolazione esclusa dall’accesso alla terra si organizzò per occupare (illegalmente) la terra e lottizzarla in base ad una pianificazione preliminare che definiva le aree private e pubbliche. L’azione statale venne sostituita da una pianificazione popolare orientata al soddisfacimento diretto delle necessità e dei bisogni di chi si organizza, pianifica e costruisce.

Tutto questo incrementò il degrado delle zone popolari sia in termini formali (localizzazione illegale della terra, edifici privati e pubblici, lotti clandestini, …), sia in termini ambientali (aree soggette a inondazione e contaminate, senza infrastrutture e servizi, pessima accessibilità e senza alcuna connessione con le aree centrali, ecc…).

Nel decennio degli anni Ottanta si avviarono alcune politiche orientate fondamentalmente alla regolarizzazione del possesso (Clichevsky, 1999) che diedero delle risposte molto limitate e che non si fecero carico delle condizioni economiche della popolazione che vedeva aumentare i costi a suo carico: costo del suolo, imposte e tasse municipali, costo dei servizi urbani privatizzati.

L’assenza di procedure legali per risolvere il bisogno di suolo favorì il consolidamento di un mondo illegale che promosse l’espansione metropolitana attraverso la ricerca di terre da occupare o a prezzi accessibili alle basse disponibilità pubbliche. Alla fine degli anni Novanta oltre un milione di persone vivevano in condizioni di irregolarità e di precarietà ambientale [xiv] mentre continuava l’invasione di nuovi migranti (Clichevsky, 1999).

La residenza dei ricchi

Negli anni Novanta si è avviato un processo di sub-urbanizzazione della classe medio alta e media, che in un contesto di forte disoccupazione, povertà ed esclusione sociale, si è concretizzata in quelle che sono chiamate le “urbanizaciones cerradas” (urbanizzazione chiuse). In questo testo le analizziamo in quanto parte di una pianificazione privata nella produzione del suolo metropolitano associata con:

Cambiamenti nelle condizioni della domanda.

A seguito delle modifiche economiche e del mercato del lavoro è cresciuta e si è rafforzata una classe medio alta con una forte capacità di consumo [xv]. Un gruppo sociale inserito a più stretto contatto con le attività legate al mercato internazionale (finanza, servizio all’impresa, ecc…) che ha sviluppato uno stile di vita in cui l’ostentazione del consumo si è tradotta in un elemento di identità. Due beni erano essenziali: l’automobile e la residenza. Allo stesso tempo la produzione pubblica della città, ulteriormente ridotta, si è allontanata sempre più dal soddisfare i bisogni.

Cambiamenti nella produzione della città.

Con la fine dei lotti popolari restavano delle riserve di suolo che in un primo momento furono destinati a “countries club”, ai cimiteri giardino (Prévot y Schneier, 1990:124) e a luoghi per la produzione di quartieri chiusi . Tutto questo in assenza di norme di carattere metropolitano e con i municipi che avevano delle limitazioni nell’applicare le poche norme esistenti come quelle della legge 8912 prima richiamata. Cambiano gli attori che producono il suolo, si professionalizzano e si concentrano, intervengono capitali e tecnologie straniere (Mignaqui y Szajnberg, 2003). Si sviluppa una grande campagna di marketing [xvi] che rafforza il prestigio della residenza suburbana chiusa come parte di uno stile accessibile solo a chi possiede un reddito alto. Le trasformazioni della rete viaria di accesso alla città di Buenos Aires, privatizzata agli inizi degli anni novanta, consentirono di collegare rapidamente il centro della città con la periferia più lontana, con il conseguente incremento dell’uso dell’automobile [xvii]. Il risultato sono stati dei quartieri chiusi e sottoposti a vigilanza che introducono una discontinuità nel tessuto urbano, frammentano lo spazio metropolitano, con confini che non possono essere attraversati salvo da chi è autorizzato (i proprietari e i suoi invitati). Questo territorio chiuso offre infrastrutture, servizi urbani (rete di elettricità, gas, telefono, internet, marciapiedi, illuminazione, manutenzione, aree verdi, vigilanza), aree commerciali e ricreative, uffici, scuole, centri di assistenza medica e per attività culturali. Si produce un frammento di città privata di alta qualità con un carattere esclusivo. Alla fine del secolo c’erano tra 300.000 e 500.000 persone che risiedevano in circa 400 interventi di questo tipo, più di 130 solo nel municipio di Pilar, dove ormai il 30% della superficie è ad accesso ristretto (Janoschka, 2003). Sono urbanizzazioni estese tra i 400 e i 1600 ettari che includono molti quartieri, con oltre 2.000 alloggi e con una popolazione potenziale, in quella più grande, di circa 200 mila persone (Janoschka, 2002 y Vidal-Koppmann, 2004) [xviii]. A guardare bene le modalità di produzione di questo territorio si percepisce un processo privato di pianificazione che introduce una razionalità forte all’interno dell’intervento, ma dimentica il resto della città nella quale si inserisce. Bisogna ricordare che manca una pianificazione territoriale di livello metropolitano che riconosca l’unità metropolitana come area unitaria. Si può supporre che la legge provinciale 8912 contenga questo carattere, ma si tratta in verità di una norma astratta fatta per la totalità dei Municipi della provincia per di più, nel corso di quest’anno, la si sta riformando per favorire ulteriormente questi processi (Mignaqui y Szajnberg, 2003). Di conseguenza, i municipi tendono a sciogliere i problemi in relazione ai loro interessi particolari, economici e politici. I municipi metropolitani periferici (come Pilar e Tigre), con una bassa occupazione del suolo, valutano come vantaggiose le proposte degli investitori privati e agevolano la realizzazione di questi progetti. Il risultato è l’allontanamento del ruolo del soggetto pubblico a favore del soggetto privato nella decisione della produzione immobiliare (Janoschka, 2004; Núñez et. al, 1998). Come dice uno di questi “… oggi il capitale privato ti permette di determinare regole e norme” (citato da Jacky e Triegerman, 2000).

Così l’urbanizzazione è il risultato di una pianificazione privata che si sostituisce alla inesistente o molto debole pianificazione pubblica. La città si produce attraverso una razionalizzazione tutta dentro alle regole di mercato e alle azioni dell’individuo. Questo implica una forte pianificazione interna alle singole componenti di ciascun intervento e del sistema di controllo per la sua realizzazione, allo scopo di aumentare la qualità del prodotto e la redditività.

Questa operazione si limita ai territori privati e quindi “… si tratta di pianficare accuratamente una città da zero” (Clarín 30/10/99). Come fa notare il titolare dell’impresa che sta realizzando Nordelta [xix], “la città si disegna tenendo in conto l’equilibrio tra spazio verde, acqua e aree urbane; il paesaggio, la forma delle strade, la localizzazione dei quartieri, delle scuole, delle università, dei club e delle zone commerciali…. Si da a tutto un’armonia estetica e urbanistica, con diverse densità di popolazione e una adeguata distribuzione del traffico”. In questo modo, continua il giornalista che lo intervista, si evitano i problemi della città e quindi le cause di uno sviluppo disordinato, l’aumento della popolazione a livelli impensati che produce inconvenienti come la congestione del traffico (Clarín 30/10/99).

Questo processo mostra un orientamento culturale che produce due discontinuità rispetto alla città tradizionale: a) la produzione di una parte della città è “la città”. Una parte si presenta come il tutto, nascondendo che è solo dentro una città reale che queste parti possono trovare le condizioni (lavoro, infrastrutture, servizi generali) per la loro esistenza, anche se in modo “autonomo”; b) il disordine urbano prodotto dalla produzione pubblica della città, si riduce solo per la vita dei gruppi a più alto reddito. Spariscono ad esempio gli abusi della popolazione di basso reddito per trovare una sistemazione.

Di conseguenza il resto della città, la città reale che sostiene queste forme di urbanizzazione chiusa, può essere ridotta ad una specie di limbo.

Siamo all’inizio di una pianificazione che nega la pianificazione urbana pubblica, che disconosce la possibilità di introdurre una razionalità globale, differente da quella del mercato. La città è pensata sempre più come risultato della somma di operazioni private e degli interstizi tra queste. Le operazioni private che si realizzano in un ambiente “caotico” pieno di contraddizioni e di “svantaggi”. Un ambiente che non si percepisce come luogo di un azione di miglioramento.

Se procediamo un po’ oltre possiamo descrivere le componenti essenziali di questa pianificazione:

un sistema di norme che scaturisce da un documento privato (contratto di compra-vendita) e che si impone come clausola di adesione. Una rigorosa norma urbana: di zonizzazione, uso del suolo e norme di edificazione. Luoghi per la residenza e per le attività. I primi differenziati a seconda delle possibilità economiche hanno differenti dotazioni di terra e, quindi, di prezzo [xx]; i secondi invece differiscono per tipo di attività e di uso. Norme di comportamento sociale, ai quali devono aderire chi accetta di stare in queste urbanizzazioni. Regolamento etico e di convivenza che funziona come una sorta di diritto di ammissione (o di esclusione). Le conseguenze dell’uso di uno strumento di mercato che produce però configuraioni sociali e che tende a consolidare l’identità del progetto.

Ampia offerta di infrastrutture e servizi di alta qualità rapportati alla popolazione che soddisfano tutto il necessario senza bisogno di uscire fuori dal confine, tranne che per andare a lavorare.

Subordinare alla rendita la crescita della città, tanto per l’espansione metropolitana con l’uso sconsiderato del suolo, come anche per l’urbanizzazione arbitraria del suolo occupato a seguito della lottizzazione delle aree senza alcun controllo pubblico né uno studio sugli impatti che si realizzano sulla città esistente.

Incremento della tassazione a carico dei residenti per poter sostenere la realizzazione e la manutenzione delle infrastrutture e dei servizi. Una sorta di imposta privata che funziona anche come strumento per differenziare economicamente il territorio, in prima istanza con il fuori e dopo per realizzare delle differenze anche all’interno.

Le sanzioni per il mancato rispetto delle norme con multe decise dall’amministrazione privata che gestisce l’insediamento.

Un sistema decisionale che suddivide la popolazione e ne configura (amministrativamente) un ruolo marginale mentre favorisce il ruolo del proprietario dell’investimento (governo privato-di impresa).

Insomma si riproduce nella produzione della città la logica del mercato globale: concorrenza disordinata a fronte di una forte razionalità (pianificazione) in ogni singola unità individuale, orientata a raggiungere le migliori condizioni di commercializzazione e la qualità solo per alcuni.

3.2 La privatizzazione delle infrastrutture della città

Fin dagli anni Quaranta i servizi urbani dell’Area metropolitana di Buenos Aires sono a carico di imprese pubbliche del Governo Federale (Pírez, 1999a). Dalla fine degli anni Ottanta, il degrado di queste imprese era tale (in gran parte dovuto alla cattiva gestione del periodo della dittatura) che mostrava una basso livello di servizio, problemi finanziari e impossibilità ad investire, cattiva qualità e, in alcuni casi, corruzione nelle relazioni con i sindacati. Ricordiamo che questa gestione, permissiva con il consumo clandestino della popolazione a basso reddito, evitò in molti casi l’esclusione di questa popolazione dall’accesso ai servizi.

La crisi delle imprese in associazione con il deficit dei conti statali e con l’inflazione furono le cause per l’avvio della privatizzazione. Una privatizzazione realizzata velocemente all’inizio degli anni Novanta, trasferendo [xxi] alle imprese private la gestione del servizio delle infrastrutture (telefono, elettricità e gas naturale, acqua e fogne), i trasporti ferroviari di superficie e la metropolitana (gli autobus già lo erano) e la infrastruttura viaria di accesso alla città. La privatizzazione modificò gli attori e le relazioni, lo Stato si escluse come soggetto redistributore, ridotto ad assicurare il compimento delle relazioni di mercato e delle sue conseguenze inique. Il cittadino diventò un cliente di fronte all’azienda. I diritti del consumatore si ridussero: solo il cliente ha il diritto di usare il prodotto in base al prezzo che paga.

Le conseguenze. I servizi finirono si essere pubblici e di essere considerati dei diritti per diventare delle attività economiche regolate solo sulla base di principi concorrenziali. Si sono trasformati in una relazione commerciale di tipo privato. E’ migliorata la qualità, l’efficienza, ma con l’incremento delle tariffe si è esclusa dall’accesso ai servizi la popolazione di reddito più basso [xxii]. Le imprese di servizi, nella maggior parte di origine internazionale, sono diventati degli attori con un forte peso economico e politico. La carenza di un quadro di regole e di sistemi di controllo ha contribuito a tutto questo. In alcuni casi si sono anche sommate le pressioni dei paesi di origine delle imprese.

I principali effetti di questo processo. L’accentuazione del processo di concentrazione e di esclusione economica e sociale.

Le norme hanno prodotto condizioni di rischio basso o nullo per le imprese e gli hanno consentito di realizzare tassi di redditività esorbitanti (Aspiazu y Schorr, 2003:21). L’indicizzazione basata sull’inflazione degli Stati Uniti, proibita dalla legge di convertibilità, la dollarizzazione e le successive rinegoziazioni hanno reso possibile l’aumento delle tariffe molto al di sopra dell’inflazione [xxiii]. In alcuni servizi, come il gas e l’elettricità, le tariffe residenziali per i singoli proprietari sono uamentate molto di più di quelle dei grandi consumatori industriali (Aspiazu y Schorr, 2003:19). L’incremento delle tariffe, la cancellazione del sussidio, e l’aumento dei controlli sempre più restrittivi rispetto alla gestione statale, sono le concause che hanno messo la popolazione di basso reddito sempre più in difficoltà nell’accesso a questi servizi (Pírez, 2000). Questa condizione non ha riguardato solo gli utenti privati ma ha alterato le condizioni per lo sviluppo delle attività produttive “condizionando negativamente la competitività di numerose imprese –in particolare le piccole e medie imprese impegnate nella elaborazione di beni commerciabili- e la distribuzione del reddito” (Aspiazu y Schorr, 2003:38).

Per le aziende tutto questo si è tradotto in guadagni spropositati [xxiv].

Aspetti importanti della pianificazione urbana diventarono di competenze delle aziende. Si trasferì alle imprese la capacità di definire la politica e soprattutto la pianificazione dei servizi, assumendo un ruolo chiave nella configurazione urbana (Pírez, Gitelman y Bonnafé, 1999). Ogni impresa prende decisioni sulla base delle necessità di mercato: quale territorio occupare, quale processo sviluppare e in che ordine farlo. Si servono popolazione e territorio e si realizzano le operazioni che possono dare una più alta e veloce redditività (per esempio si realizza l’espansione della rete dell’acqua ma non delle fogne o il trattamento dell’acqua sporca). Lo Stato non assolve più il ruolo di pianificatore. La possibilità di ampliare il servizio è data solo dal mercato, dalla relazione tra le imprese concessionarie e l’utente, tutto questo presuppone un potere di decisione tutto privato. La conseguenza è che dipendono da queste decisioni delle imprese tanto il mercato del suolo come la qualità della vita urbana.

La privatizzazione della relazione con l’utente.

Questo processo è evidente nel rapporto negoziale che si stabilisce tra le imprese e l’utente clandestino. Un rapporto che si sviluppa senza alcun intervento da parte dell’autorità di governo e in modo discrezionale potendo convenire soluzioni differenti per situazioni che sono simili (Martínez, Navarro y Pírez, 1998). L’intervento del governo si ha solamente quando emerge un conflitto politico (Pírez, 2002). Questo è il nuovo ruolo dello Stato regolatore: esercitare il potere di polizia sull’impresa aggiudicataria del servizio, realizzando uno scenario in cui il cittadino è diventato cliente ed è sottomesso al potere dell’impresa in una relazione di tipo asimmetrico.

Asimmetria che risulta molto chiara osservando la politica della distribuzione dell’elettricità nella popolazione a basso reddito che non riesce a fare fronte ai costi. Le imprese preferiscono non tagliare il servizio a causa dei costi e poi perchè si suppone che il servizio sarebbe comunque sostituito da una connessione clandestina. Di conseguenza negoziano con l’utente, individuale o collettivo, differenti forme di pagamento, senza l’intervento di nessuna autorità statale. Così le aziende coprono nell’immediato parte del fatturato ma indebitano l’utente che mese dopo mese incrementa il proprio debito, senza che si sappia né come né quando potrà farsi carico di questo debito [xxv].

Qualche conclusione

Il processo di costruzione della periferia metropolitana di Buenos Aires si è modificato a causa delle politiche collegate alla ristrutturazione economica, e a seguito dell’incremento della privatizzazione nel doppio senso che abbiamo sopra richiamato.

Da un lato, come condizione generale, si è ampliata la disuguaglianza economica con un forte aumento della concentrazione del reddito e l’incremento della povertà.

In modo più specifico è aumentata la partecipazione del capitale privato. Questo ampliamento è stato prodotto dalla partecipazione di grandi attori economici con relazioni internazionali (capitale, management, tecnologia, finanziamento) che organizza operazioni ad alta redditività. La produzione urbana (suolo, edifici e servizi) tende ad organizzarsi in modo da favorire il processo economico di ciascuna operazione, contribuendo al processo di concentrazione economica sopra richiamato. La sistemazione della città si è liberata dallo sforzo di ogni famiglia o dei gruppi sociali. Non ci sono più spazi per i poveri. La periferia metropolitana si è segmentata ed è sempre più segregata. Aumentano le differenze tra i diversi ambienti costruiti e si approfondiscono le distanze sociali.

Lo spazio dell’espansione metropolitana risulta segnato dalla presenza dominate di due logiche “non statali”: quella dei settori sociali esclusi dal mercato formale e che si orientano alla soddisfazione diretta dei bisogni; e la produzione privata capitalista per i gruppi di reddito più alto. La conseguenza è una chiara differenziazione in particolare con il resto della periferia. Il territorio prodotto con la logica della necessità, nonostante gli intenti di una organizzazione formale e di una urbanizzazione regolare (lotti, strade, zone per uso pubblico, ecc…) ha una bassa qualità, e si inserisce spesso in contesti residuali dove è anche difficile portare le infrastrutture e i servizi necessari per il suo funzionamento.

Gli ambiti più propri della produzione capitalista, le “urbanizzazioni chiuse” sembrano riprodurre quello che Fishman (1987) chiamò “bourgeois utopias”: alta qualità dell’habitat, segregazione basata sull’identità sociale per proteggere la famiglia separandola dai pericoli della vita urbana e dagli altri, particolarmente dai poveri, e vivendo a contatto con la natura. Della città resta la percezione di una condizione che consente a queste urbanizzazioni di funzionare. Il suo funzionamento si concretizza nelle connessioni per l’accesso ai luoghi del lavoro e di consumo qualificato, connesisoni garantite dalle aziende privatizzate (strade di accesso, ferrovie in particolare). Per il resto la città sembra non esistere. Questa qualificazione implicita di una terra di nessuno è, paradossalmente, coerente con l’occupazione (illegale) del suolo per le famiglie di basso reddito che si costruiscono lì la loro sistemazione di infima qualità.

In entrambe le situazioni il resto della città sembra essere lasciato libero alle conseguenze di uno o dell’altro degli attori sociali ed economici che lo occupano (riproducendo le relazioni del mercato). Le aziende che forniscono i servizi operano e consolidano così la loro capacità di decidere la configurazione metropolitana, rafforzando il loro orientamento privato alla ricerca di sempre maggiori redditività. I settori popolari, tentando di vincere queste ostilità e per superare il loro isolamento, si comportano seguendo la stessa logica della necessità realizzando i servizi in quello che è il “resto” della città. [xxvi]

Tutto questo produce un effetto che è paradossale. Il risultato è un’espansione metropolitana che tende a localizzare in prossimità l’uno con l’altro gli insediamenti precari e quelli chiusi delle classi più agiate. La periferia metropolitana sembra conformarsi come un insieme di insediamenti decentralizzati omogenei al loro interno ed eterogenei all’esterno. Questo presuppone un duplice movimento: perdita dell’eterogeneità della città tradizionale che rendeva possibile il contatto tra gruppi differenti (come conseguenza della segregazione e della chiusura), e l’emergenza di una nuova eterogeneità (forti differenze da un punto di vista sociale ed economico) in una sorta di articolazione per frammenti, quello che possiamo chiamare “microframmentazione” (Pírez, 2004b:123). I due estremi della piramide sociale che occupano la periferia si collocano molto vicini nello spazio. Questo consente che si stabiliscano delle relazioni tra queste: servizi senza qualità, trattamento dei residui solidi e altro, come, perché no, i delitti. Non è l’eterogeneità dell’integrazione, è il contrario, l’eterogeneità dell’esclusione.

Un’ultima riflessione. La capacità di consumo della popolazione dipende dal mercato del lavoro e dalla relazione della distribuzione economica, sono elementi fondamentali per definire il senso dell’inclusione o dell’esclusione del prodotto urbano. L’esclusione presuppone una società che non dà garanzia a nessuno dei suoi membri un equilibrio tra reddito e costo della sua riproduzione. Da qui, ad esempio, l’incremento delle tariffe del servizio privatizzato non ha lo stesso effetto su una città dove tutti hanno un mercato del lavoro che gli assicura un reddito sufficiente, rispetto ad una città (come è il caso di Buenso Aires) dove invece la maggior parte della popolazione non ha queste condizioni. E’ anche per questo che l’obbligo di migliorare la qualità del suolo imposta nel 1977, quando non c’erano le condizioni per affrontare la maggiorazione dei costi, ha avuto come risultato, paradossale, di eliminare il mercato formale del suolo per la popolazione più povera.

Insomma le trasformazioni che hanno interessato la società argentina nell’Area Metropolitana di Buenos Aires, dalla metà degli anni Settanta, hanno incrementato il ruolo del privato, sia nella produzione sia nel prodotto, dando luogo ad una città diseguale, accentratrice e segregata.

Nota: in allegato un file PDF scaricabile con la traduzione completa di note e Bibliografia (g.c.)

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