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Roberto Camagni
Ma la riforma è sbilanciata: troppo potere ai Comuni. Penalizzati i piani di area vasta
6 Agosto 2005
La legge Lupi
Da una posizione tutt’altro che “radicale” una critica serrata alla legge, considerata inemendabile. Da Edilizia e territorio, n. 30 del 1° agosto 2005

La nuova legge sul governo del territorio, approvata dalla Camera il 28 giugno scorso, meriterebbe un’attenzione ben maggiore di quella che vi hanno dedicato sia la stampa generalista (quasi nulla) che il milieu politico e tecnico del Paese. La riscrittura dopo sessant’anni dei principi generali della pianificazione territoriale e urbanistica; l’attesa per una ridefinizione di temi di grande rilevanza economico-distributiva come il regime dei suoli e i nuovi stili di una pianificazione che si vuole flessibile e aperta al privato (oltre che alla società civile); le nuove esigenze che emergono in tutti i Paesi avanzati per una rinnovata attenzione alle risorse territoriali, nei loro aspetti fisici, paesistici, culturali-simbolici ed economici; tutto questo giustifica ampiamente la necessità di una lettura attenta della legge, e di un dibattito quanto più possibile allargato e a più voci.

A queste aspettative rilevanti la legge fornisce una risposta modesta e anzi, per molti aspetti, inadeguata. La legge prende le mosse da esigenze di modernizzazione condivise, affrontate anche da leggi regionali, e accoglie molti suggerimenti e strumentazioni tecniche emerse dal dibattito urbanistico negli ultimi anni, cui io stesso ho cercato di apportare qualche contributo: la necessità di integrare la progettualità privata nei piani di sviluppo urbani e territoriali; il ruolo cruciale della concorrenza fra soggetti privati e fra progetti; la possibilità (ad avviso di chi scrive, la necessità) che il piano strutturale sia intercomunale; l’utilità degli strumenti perequativi nel limitare gli effetti della discrezionalità pubblica al livello micro-territoriale, generando tendenziale indifferenza della proprietà, a patto che si operi entro ambiti territoriali relativamente omogenei; le potenzialità degli strumenti di compensazione urbanistica nella flessibilizzazione delle decisioni; la repressione degli abusi edilizi; l’uso di strumenti di redistribuzione intercomunale di una parte delle imposte comunali sulle nuove urbanizzazioni, al fine di disinnescare la propensione sviluppista dei Comuni (generata dalla crescente scarsità di risorse), e altro.

Tuttavia queste innovazioni rilevanti sono inserite in un quadro complessivo che, in alcuni casi, ne rende la pratica altamente rischiosa per l’interesse collettivo, e in altri ne vanifica totalmente l’utilizzazione. Alcuni basilari principi sono totalmente assenti e su tematiche rilevanti, anche se complesse, come il regime dei suoli, si propone una soluzione non chiara e sotto alcuni aspetti non accettabile. Affronterò in questa sede tre tematiche maggiori: l’assenza di veri principi, la pianificazione per atti negoziali e il primato del Comune nelle funzioni di governo del territorio.

Assenza di princìpi

Una legge di governo del territorio – pur accettando una interpretazione estensiva del termine, che lo avvicina alla governance territoriale, includendovi dunque non solo attività regolative e amministrative ma anche attività negoziali col privato e di programmazione negoziata fra enti pubblici – deve innanzitutto chiarire perché oggi si ritiene necessario procedere per leggi al governo del territorio stesso. La risposta dovrebbe essere contenuta in un principio generale che, in termini economici, potrebbe suonare così: il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro operare di rapporti di mercato a causa della presenza di effetti di rete, di esternalità e di beni pubblici (ben noti casi di fallimento del mercato), nonché dalla presenza di elementi di incertezza; esso richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa. Si potrebbe ribattere: una legge non è un trattato di economia territoriale; sta dunque ai giuristi trovare l’abito giusto per questo principio. Si potrebbe dire: è un principio pleonastico, già condiviso; ma sottolinearlo in un contesto culturale come quello italiano di crisi se non di delegittimazione della pianificazione può giovare alla pianificazione stessa.

Questo principio generale dovrebbe poi essere coniugato in modo più fine, individuando i processi, attuali e prospettici, che maggiormente rischiano di condurre a riduzione di benessere e i principi attraverso i quali si intende affrontarli. Se vogliamo, questi processi individuano, per contrapposizione, gli obiettivi del governo del territorio, che nella legge sono totalmente assenti (salvo qualche indicazione casuale e sparsa), mentre erano presenti nella bozza di legge ancora nel dicembre 2004, anche se in forma laconica e incompleta. Essi devono al contrario essere chiariti ed esplicitati, perché proprio sul loro perseguimento si basa la giustificazione di una legge di principi. I più rilevanti obiettivi, meritevoli di interesse dello Stato – visto che sono stati fatti propri anche dall’Unione europea e inseriti nel progetto di Convenzione europea col titolo di «coesione territoriale» come ambito di sua competenza concorrente (shared competence: articolo I-14.2) – dovrebbero essere i seguenti:

1) limitare i consumi di suolo per nuove urbanizzazioni. Sembra oggi indispensabile che una legge nazionale imponga alle Regioni almeno di considerare il fenomeno, di monitorarlo e misurarlo, e di limitarlo. Il relativo principio regolatore dovrebbe essere un principio di efficienza nell’uso delle risorse, da cui seguirebbe, per la risorsa suolo, l’onere di giustificare interventi su territori non urbanizzati, il possibile utilizzo di sistemi di tassazione di urbanizzazioni greenfield e di connessi sussidi al riuso di brownfield (aree industriali dismesse o degradate) o greyfield (aree commerciali dismesse, sull’esempio americano e canadese). Dal principio seguirebbe un elemento ancor più importante: la necessaria introduzione di una quarta categoria di aree (al di là delle tre indicate nella legge: aree di pregio ambientale, aree agricole e aree urbanizzabili), che potremmo chiamare «aree di riserva per funzioni ecologiche e paesistiche», da normare a cura delle Regioni, a evitare il messaggio rischioso, presente nell’attuale testo, che la maggior parte del territorio cada nella categoria residuale dell’urbanizzabile (o che i Comuni virtuosi siano costretti ad allargare i vincoli sulle aree di pregio o ad assegnare alle attività agricole aree che dall’agricoltura sono abbandonate o che non vi sono adatte). Per la risorsa energetica, il principio spingerebbe nella direzione di un addensamento dell’urbanizzato lungo le linee di forza del trasporto pubblico;

2) frenare la frammentazione e la banalizzazione del territorio. Il relativo principio sarebbe un principio di rispetto di massa critica, che significa un deciso contrasto alla dispersione insediativa, i cui ingenti costi collettivi sono sotto gli occhi di tutti, alla frammentazione delle reti ecologiche e alla messa a rischio dell’assetto idro-geologico;

3) affrontare la crescente dualizzazione e polarizzazione della società, effetto dell’aumentata competizione globale, della perdurante crisi europea e dell’emergere di una città multietnica con forti squilibri nelle opportunità e nelle capacità reddituali. Principio ispiratore deve essere un principio di solidarietà, che implica una crescente attenzione alla coesione sociale e territoriale, alle condizioni di segregazione e di povertà urbana, nonché la definizione di quote minime di edilizia sociale nei nuovi progetti urbani (come nelle più recenti leggi urbanistiche e nelle direttive di molti Paesi avanzati);

4) limitare gli effetti ambientali negativi generati dall’urbanizzazione e dalla localizzazione di grandi funzioni urbane, commerciali o industriali (ad esempio sulla mobilità), attraverso un principio di internalizzazione delle esternalità e di correzione del mercato. Tale principio giustificherebbe la possibile differenziazione territoriale degli oneri connessi al permesso di costruire, secondo la tradizione americana degli «impact fee», nonché una loro elevazione rispetto ai modestissimi parametri attuali. Soprattutto tale principio si applicherebbe al livello intercomunale, favorendo i Comuni contermini in presenza di esternalità negative generate nel Comune vicino; solo così il giusto dettato della legge sulla formazione di consorzi fra Comuni e la possibile redistribuzione dell’Ici (articolo 12, comma 2b)e degli oneri connessi al permesso di costruire avrebbe qualche possibilità di dare risultati concreti.

Inutile dire che di tali principi, che costituiscono le grandi direttrici su cui ci si sta muovendo in tutta Europa, non vi è traccia nella legge e anzi, come detto, vi si possono trovare abbastanza esplicitamente indicazioni esattamente contrarie.

Negoziazione senza rete

Il secondo ambito di profonda insoddisfazione nei riguardi del dettato di legge concerne l’indicazione (articolo 5, comma 4) che «le funzioni amministrative sono esercitate… prioritariamente mediante atti negoziali in luogo di atti autoritativi». Da tempo – anche quando, fino a pochi anni or sono, l’«urbanistica contrattata» era da molti vituperata – si è ripetuto che associare il privato alle scelte di pianificazione avrebbe consentito di raggiungere tre risultati fondamentali: di superare i limiti di informazione, di progettualità e di interpretazione dei bisogni collettivi della pubblica amministrazione; di rendere le decisioni di piano più aderenti alle possibilità congiunturali di realizzabilità e di profittabilità per gli operatori; di realizzare un coordinamento ex-ante fra decisioni pubbliche e decisioni private, così da superare l’intrinseca incertezza connessa alle innovazioni territoriali e conseguentemente migliorare l’economicità delle opere, sia pubbliche che private. In questo senso, la negoziazione sarebbe finalizzata al miglioramento della qualità della pianificazione, non certo alla sua sostituzione con una serie di contratti.

In realtà, i cosiddetti «atti autoritativi» avversati dalla legge sono in genere, in tutti i Paesi avanzati, non certo il frutto di un’autorità assoluta autoreferenziale, ma derivano da processi sia politici che tecnocratici che anche partecipativi e negoziali sottoposti a vaste garanzie e a obbligo di giustificazione tecnico-politica, mentre è proprio la negoziazione che ha bisogno di una giustificazione plurima preliminare: va giustificato l’interesse pubblico per la trasformazione (o nella trasformazione) del singolo sito, per il progetto e la funzione proposti, nonché la verifica delle condizioni di coerenza urbanistico-trasportistica, a evitare casualità nella scelta delle aree, banalità delle funzioni, eccessivo carico urbanistico e impatto insostenibile sulla mobilità. Purtroppo, proprio questi sembrano gli esiti di molta «urbanistica per progetti» in Italia.

Ma il problema di fondo è ancora un altro, e riguarda il modello di negoziazione senza rete e senza regole che si propone nella legge. Quali dovrebbero essere infatti gli obiettivi della pubblica amministrazione nella negoziazione? Chiaramente, coerenza del progetto urbano complessivo, di cui si è detto, e massimizzazione del vantaggio pubblico in termini di aree, verde e servizi. Come si affermava nei documenti dell’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) alcuni anni or sono – ma pare un secolo – si dovrebbe «creare la città pubblica attraverso i plusvalori della trasformazione della città privata». Orbene, quale forza contrattuale potrà avere una pubblica amministrazione che, come auspica la legge, rinuncia a operare in base ad «atti autoritativi» e soprattutto che viene privata del supporto normativo nazionale consistente nell’indicazione di quote minime di cessione di aree (poiché «perde efficacia» il Dm 1444/1968 sugli standard urbanistici)?

Nella legge si trascurano alcuni elementi importanti in proposito:

- l’esistenza di un’asimmetria informativa fra il settore privato e il settore pubblico sulle condizioni di costo e di profittabilità nella produzione edilizia,

- l’esistenza di una seconda asimmetria fra singoli Comuni, spesso piccoli e potenzialmente in concorrenza fra loro, e operatori immobiliari che operano su un ampio scacchiere territoriale;

- la circostanza che, come la storia recente ci ricorda, i grandi operatori immobiliari agiscono spesso in forma di oligopolio collusivo, limitando la concorrenza reciproca su singoli siti o progetti;

- e, infine, il fatto che nel nostro Paese vige una situazione di scarsissima trasparenza

sulle condizioni delle negoziazioni realizzate e soprattutto che nel settore pubblico sono assai scarse le professionalità necessarie per gestire al meglio questo tipo di processi negoziali.

Da tutto questo consegue che un modello contrattuale puro non garantisce affatto il perseguimento dell’interesse pubblico. In altri Paesi avanzati, allorché la negoziazione viene consentita per il raggiungimento di finalità particolari o per la rilevanza del progetto di trasformazione, al settore pubblico è assegnato comunque il vantaggio di un livello predefinito di cessioni di aree (per legge statale o federale), come punto di partenza per la vera contrattazione.

Uno strumento importante esiste per aumentare la forza contrattuale del Comune, la messa in concorrenza di progetti e di attori privati, ed esso è effettivamente citato dalla legge (articolo 8 comma 7). Purtroppo gli strumenti per realizzare «concorrenzialità» sul territorio – un obiettivo assai complicato per la presenza di un ineliminabile vantaggio del proprietario – non sono indicati neanche per sommi capi, e ciò costituirebbe un problema perché sull’intera materia della negoziazione e del partenariato col privato vi sono gli occhi puntati della Commissione europea e della Corte di giustizia, preoccupate giustamente per le possibilità di pratiche neo-corporative, elusive della concorrenza.

In sintesi, non sembra che quello della costruzione della città pubblica sia un obiettivo della legge: una città che continui (o torni) a essere un grande luogo di socialità e una fonte di efficienza e di benessere collettivo. Si afferma che «l’entità dell’offerta di servizi» deve «garantirne comunque un livello minimo», ma ci si astiene dall’indicare quale esso sia o debba essere, nonostante la pretesa di essere legge di principi generali per tutto il territorio italiano; si indica la possibilità in tale materia di «un concorso dei soggetti privati» (un’affermazione accettabile), ma si apre la strada all’utilizzo di un concetto rischiosissimo, che ha già dato luogo a interpretazioni e pratiche ai limiti dell’aberrante: quello della commisurazione degli standard sulla base di «criteri prestazionali » (articolo 7, comma 1). In Lombardia l’introduzione concetto di standard qualitativi o prestazionali ha portato alla scomparsa di qualunque riferimento legislativo alla nozione di servizi pubblici, e al rinvio alle decisioni (negoziate) dei Comuni, con la conseguenza che in taluni casi si è inclusa fra gli standard la categoria degli alberghi. Come si è sottolineato precedentemente, si aprono vasti spazi per proposte dissennate, oltre alla possibilità di malversazioni o contenziosi senza fine.

Quanto alle indicazioni in merito al regime dei suoli, la legge non appare chiara come avrebbe potuto essere e a mio avviso – ma è materia da giuristi – utilizza un lessico non sempre appropriato. Da una parte, non si giustifica in alcun modo l’onerosità del «permesso di costruire» (articolo 11, comma 2) né le modalità di una sua commisurazione. Dall’altra, il compito di «disciplinare il regime dei suoli» è assegnato, anziché alla legge nazionale, agli strumenti operativi comunali (che a mio avviso possono al più avere effetti conformativi della proprietà dei singoli suoli, ma non del regime complessivo).

La lettura, in particolare su questi argomenti, è forse fuorviata dall’osservazione del recente «laboratorio ambrosiano», campo di sperimentazione anticipata della legge nazionale, in cui si è azzerata la necessità di ricorrere al piano e si è avviata un’urbanistica negoziata per singoli progetti. In tale laboratorio si è affermato che «gli investitori hanno la massima libertà di proposta» e «se la proposta è accolta, le regole specifiche del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e non preesistono ad essa» (Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Comune di Milano, 2001). Si resta nel novero di coloro i quali vorrebbero vedere le regole preesistere, e non seguire, alle pratiche caso per caso.

In passato si è contestata la pretesa degli urbanisti di «combattere» o «ridurre» la rendita fondiaria, affermando che essa è ineliminabile, non essendo che la controfaccia in termini di valore del vantaggio localizzativo e della relativa domanda da parte di famiglie e imprese; paradossalmente, il buon pianificatore genera e anzi massimizza la rendita, creando accessibilità, qualità urbana e qualità ambientale. Ma ho anche affermato, con gli economisti classici, che essa può e deve essere tassata in quanto reddito, e anzi «reddito non guadagnato»; in termini moderni, possiamo dire che le leggi e le pratiche urbanistiche non sono altro che un «gioco» di distribuzione della rendita fra pubblico e privato, in cui la quota del pubblico dipende da fattori politici e di etica collettiva.

Comune, soggetto primario

Un ultimo aspetto rilevante della legge mi preme qui sottolineare. Vi si afferma infatti che «il Comune è… il soggetto primario titolare delle funzioni di governo del territorio» (articolo 6, comma 1) e si corrobora l’affermazione con una serie di indicazioni che suffragano abbondantemente tale primazia. Il piano urbanistico comunale «ricomprende e coordina » le disposizioni dei piani di settore e del piano territoriale; può «proporre espressamente modificazioni ai piani territoriali»; recepisce solo «le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici». Ebbene si ritiene che, se il concetto di governo del territorio abbraccia anche la «pianificazione territoriale», «di area vasta» (articolo 2, comma 1), non vi è alcuna ragione di pensare che il Comune sia, per questa funzione, il soggetto primario. Purtroppo la Provincia e il piano territoriale di coordinamento sono stati inseriti nella legge grazie a un emendamento dell’ultima ora, e non ottengono alcuno spazio effettivo nella sua logica complessiva. Al contrario, pur nella necessità di una co-pianificazione e di un accordo interistituzionale, alla Provincia, o comunque a un ente con competenza sovracomunale, dovrebbe essere attribuito il compito specifico e di ultima istanza del governo del territorio sull’area vasta. Il principio di sussidiarietà, se correttamente inteso, porta proprio a questa conclusione: esso attribuisce competenze al livello istituzionale più basso adeguato (un aggettivo che spesso si dimentica), e dunque non certo ai Comuni per quegli interventi in cui intrinsecamente si manifestano effetti di rete, le economie di scala ed esternalità transborder. Per tutto quanto precede, non si ritiene che alla legge bastino alcune correzioni da apportare al Senato per farne uno strumento accettabile e adeguato alle esigenze di un Paese moderno.

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