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Claudio Magris
Da Adorno a Brecht, portò in Italia la cultura tedesca
15 Agosto 2005
Altre persone
Un'altra pagina de "i migliori anni della nostra vita" che se ne va: uno dei non molti italiani 'anomali' di cui avremmo ancora tanto bisogno...Da il Corriere della sera del 28 luglio 2005. Con una postilla (m.p.g.)

Una volta, anni fa, Cesare Cases mi disse che non amava il «Freund Hein», come i tedeschi chiamano scherzosamente e scaramanticamente la morte, forse perché il culto della morte — Viva la muerte — era intrinseco a quella cultura della decadenza e dell'irrazionale in cui egli, come il suo amato Thomas Mann, vedeva sfociare e degradarsi la grande civiltà borghese, in un imbarbarimento del mondo che egli, come Mann, cercava di esorcizzare e di combattere in nome di un umanesimo illuminista e marxista. Però quella volta aggiunse che — nella febbrile smania di fare, produrre, parlare e organizzare che stava prendendo il mondo, soffocando ogni pausa e ogni riflessione — la morte riacquistava valore e significato, perché era un limite umano e ricordava che, dopo tutto, pure il perverso e frenetico attivismo che ci possiede come un ballo di San Vito non può durare, grazie a Dio, in eterno, e si placa anch'esso nell'eterno riposo implorato nella preghiera per i defunti.

Cesare Cases è non solo un grande germanista, bensì anche un protagonista della cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo, che — per ironia, intelligenza troppo acuta, randagia autosufficienza ebraica — ha scelto una posizione laterale, seppure ben profilata, nella parata permanente della società culturale. È impossibile, nell'emozione che la notizia della sua morte provoca in chi gli è amico da più di quarant'anni, tracciare un bilancio adeguato della sua personalità e della sua opera, di rilevanza fondamentale nella storia culturale, letteraria e politica del nostro Paese. La sua appartenenza a una famiglia ebraica — che non lo ha mai condizionato né ristretto in alcuna identità sottolineata e difensiva, ma è stata da lui vissuta semplicemente, affettuosamente e liberamente come una componente importante, ma non determinante — gli ha fatto conoscere presto, con le leggi razziali fasciste, il groviglio di barbarie che si annida nella nostra società, come rivela la sua splendida e frammentaria autobiografia. Marxista convinto e lucido, Cases ha vissuto con passione, e insieme con distacco, tutta l'avventura del marxismo italiano e delle forze che lottavano per un'altra Italia e un altro assetto del mondo, ma ha anche colto con straordinaria precocità l'involuzione e l'autonegazione del socialismo reale ed è stato uno dei primi a denunciare, in un memorabile saggio di cinquant'anni fa, l'anchilosata tirannide della Repubblica democratica tedesca, Paese — egli scriveva allora — in cui metà degli abitanti è occupata a spiare l'altra metà (e che dunque si capisce debba andare in malora).

A Cases si deve la penetrazione della grande cultura e letteratura tedesca, soprattutto hegeliana e marxista, in Italia, ma anche la sua anticipata critica, come indicano tanti suoi eccellenti saggi su Lukács, Brecht, Benjamin e altri. In questo senso ha avuto un ruolo centrale nell'opera della casa editrice Einaudi, che oggi è costume sbeffeggiare, ma che è stata una o la colonna portante della cultura italiana per tanti decenni. Come ogni cultura realmente egemone e dominante, la casa editrice Einaudi ha avuto i suoi grandissimi meriti storici che nessun livore può diminuire, le sue colpe e prepotenze aristocratiche che vanno spregiudicatamente criticate, ma senza il risentimento plebeo di chi non si dà pace di essere stato escluso, in quei grandi anni, da quel cantiere in cui, fra tante geniali e ardite scoperte e alcuni anche pesanti errori, si creava la cultura italiana, così come, in un altro senso, ma in un'analoga simbiosi di meriti e chiusure, l'aveva creata La Critica di Benedetto Croce. Naturalmente è più facile riconoscere tutto questo per chi è stato a suo tempo fraternamente accolto, magari giovanissimo, in quei mercoledì einaudiani in cui nascevano tante cose, che non per chi, magari ingiustamente, è stato bocciato agli esami d'ammissione.

Cases era un lievito di quegli incontri, di quel crogiuolo culturale. Se la sua visione del mondo era segnata dalle filosofie della totalità — Hegel, Marx — il suo acutissimo senso della crisi moderna, della sua stessa indole (sorniona, a volte pigra e assonnata, ma sempre vigile e fulminea nei giudizi) lo portava al frammento, al saggio breve piuttosto che al libro esaustivo (non ne ha scritti mai), all'introduzione piuttosto che alla monografia. C'era in lui una forte tensione intellettuale fra un marxismo classico, che voleva farsi superatore ma soprattutto erede della tradizione grande borghese e avversava dunque le stridule fratture trasgressive delle avanguardie, e una saltuaria fascinazione per quelle rotture culturali e politiche, che negavano tale tradizioni. Tutto ciò si riflette nei suoi saggi — di letteratura tedesca, di politica, di patrie lettere — come nelle oscillazioni delle sue simpatie politiche fra comunismo e sinistra extraparlamentare. La sua cultura più vera resta comunque quella classica, il sogno di saldare grande civiltà borghese e marxismo, come il suo Mann, di cui è stato un grande interprete. Il suo epistolario con Sebastiano Timpanaro, grande dialogo di due marxisti in cui Cases difende le ragioni della «decadenza», è, come ha scritto Maria Fancelli, il documento di un'altra Italia, di una cultura oggi obsoleta, in cui, come in ogni vera cultura, sono in gioco le cose ultime.

Beffardo e caustico, talora oltre la giusta misura, non era esente, nel suo sarcasmo, da alcune cadute in una sgradevole volgarità intellettuale, ma si riscattava in un'ironia illuminista che celava una pudica intensità di affetti. Fortini lo vedeva come un Mefistofele geniale e canzonatorio; a me ogni tanto sembrava uno di quegli ebrei orientali sballottati dalla storia, dovunque fuori posto e dovunque a casa nel mondo, perplessi fra il desiderio di cambiare quest'ultimo e una rassegnazione spinoziana alla necessità del tutto

Postilla



Alcuni lustri fa, ho avuto il privilegio di assistere ad alcune lezioni di Cesare Cases, per curiosità nei confronti del personaggio, più che per affinità di interessi: ma Cases si ascoltava e si leggeva "a prescindere", perchè come solo i grandissimi sanno fare, riusciva a parlare dei grandi temi politici ed intellettuali dell'oggi e di sempre a partire magari da una pagina di Teophil Spoerri. "Testimone secondario" come amava definirsi, un 'non allineato' per eccellenza, feroce fino al sarcasmo contro le mode culturali (gli strutturalisti francesi, fra gli altri), di ironia leggendaria, ma spietato soprattutto verso se stesso. In quelle lezioni ne ho ammirato, soprattutto, lo sfolgorio intellettuale espresso in aforismi fulminanti (come non accostargli, immediatamente, gli amatissimi Adorno e Karl Kraus) e una sorta di disincanto malinconico nei confronti dei nostri tempi che nulla di senile aveva in sè e che, a distanza di anni, suona piuttosto come monito precorritore.

In un'intervista per i suoi 80 anni, ad Antonio Gnoli che lo interrogava sulla diversità fra 'destra' e 'sinistra' rispondeva:

"chiedersi oggi se esiste un pensiero di destra o di sinistra, mi pare impresa vana. Se non altro perchè dubito che ci sia un pensiero." (m.p.g.)

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