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Paolo Stefanato
Don Colmegna: unire il progresso all’assistenza
5 Luglio 2005
Milano
Un'idea "forte" di metropoli. Intervista all'ex responsabile della Caritas Ambrosiana. Da Dedalo, aprile 2005 (f.b.)

Don Virginio Colmegna è uno dei più autorevoli esponenti del mondo della solidarietà milanese, ex direttore della Caritas e oggi alla guida della Casa della Carità Angelo Ariani, un istituto di prima accoglienza che è anche un particolarissimo osservatorio di disagi e di richieste d’aiuto. Colmegna è un “teorico-pragmatico”, se si accetta l’ossimoro: osserva le dinamiche della città tenendo come sfondo l’Europa e i grandi flussi dell’immigrazione internazionale, e qui sta il teorico; il suo aspetto pragmatico emerge nella ricerca, anche quotidiana, di soluzioni, nella sua attività appassionata per unire forze diverse che possano generare nuovo sviluppo. Il “Nuovo Rinascimento” di Milano è un concetto che non nega, ma ammette di “essere ottimista soprattutto grazie alla ragione”. Perché? gli chiediamo.

“Viviamo di forti contrasti. Da una parte il disastro quotidiano della precarietà, che è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere, dall’altro, per fare un esempio, l’inaugurazione della nuova fiera”.

Ma il mondo dell’economia che si dota di strutture è un segno di progresso per tutti.

“Per questo ho una visione ottimista, e il tessuto sociale di Milano mi aiuta ad esserlo. Se ci sono atteggiamenti di pessimismo, questi non mi appartengono. Eppure ...” Eppure?

“La sofferenza maggiore emerge quando non si crea uno sviluppo integrato. Non devono esserci una città del progresso e una città assistenziale, separate. La crescita della città dev’essere una sola e deve provenire dall’interno della sua struttura di valori”.

A Milano lo sviluppo è integrato o no?

“Nell’America latina le città hanno le favelas alloro esterno. Milano, certo, ha una dialettica stretta tra centro e periferia. Ma le aree dimesse invocano iniziative di rivitalizzazione e danno l’immagine cruda dell’emarginazione”.

Qual è questa immagine?

“È fatta di cinquemila persone, italiane e straniere, che vivono per strada e che pernottano in quegli edifici fatiscenti. Sono luoghi di pericolo per la città”.

Questo pericolo come va contrastato?

“Il problema non si risolve solo dal punto di vista della sicurezza, dell’ordine pubblico” Come, allora? “L’ emigrazione non va aiutata solo come emergenza. Il problema è di carattere strutturale, torniamo al concetto dello sviluppo integrato”.

Ci spieghi meglio “Faccio un esempio. Milano ha reagito al primo sviluppo economico con lo sviluppo integrato dell’area metropolitana, che è stata allargata per accettare l’emigrazione dal Mezzogiorno. Adesso che arrivano grandi flussi dall’Est, che i romeni sono la prima nazionalità di immigrati, l’ottica dello sviluppo è in ritardo. La povertà richiede sviluppo, non assistenza”.

Una visione quindi di ampio respiro “È un fatto culturale. Ha una sua forte premessa in un ripensamento dell’urbanistica, passa dalla ricerca di soluzioni ai problemi della casa e da un riequilibrio delle diversità sociali. Che tristezza assistere alle beghe di condominio della Scala, quando aver pensato il teatro degli Arcimboldi in periferia è un importante fatto che va letto in chiave di partecipazione; e in questo senso ricollocarlo adeguatamente è essenziale.

Che cosa intende per ripensamento dell’urbanistica?

“Milano non è la città, ma l’intera area metropolitana, integrata con i Comuni che la circondano. Me lo lasci dire: chi lavora nella povertà è più avanti dei politici. Sesto è Milano, Bresso è Milano. E tutto il territorio deve procedere a una, non a due velocità, e nel suo motore deve avere come propellente la cultura dello sviluppo”.

Non è un’operazione facile, lo ammetta.

“L’alternativa è quella di una città assediata dalla paura, nella quale i cittadini vivono disorientati. Solo la fiducia dà la voglia di vivere a Milano. La città cresce se si sa creare fiducia nelle relazioni”.

Sicurezza, dunque “I vertici in prefettura vanno bene, ma la questione va oltre. Ma il problema è quello della dignità sociale”

Lo spieghi da uomo pragmatico. “La soluzione al problema dell’emigrazione, al di là delle diversità culturali, sta nell’alleanza tra un’ ospitalità seria e il sistema economico”.

In che senso.

“Il mondo delle imprese ha bisogno degli immigrati, che sono ormai una forza lavoro insostituibile. Solo una cultura ristretta e criminale favorisce il lavoro nero, che è un cancro dell’economia, mortificazione del lavoro e fonte di concorrenza sleale. Occorre una sana alleanza di sviluppo”.

A che tipo di impresa pensa? “All’impresa in generale, indipendentemente dai settori, a quella dove c’è necessità di manodopera anche non specializzata. Penso all’edilizia, innanzitutto. Ai servizi. Ma anche all’assistenza domestica a domicilio, quella destinata agli anziani non autosufficienti”.

L’occupazione in questi settori è già in gran parte straniera.

“Sì, ma la città deve dotarsi di un registro culturale diverso. Il trend di crescita di Milano, non solo quello dell’occupazione, è sostenuto solo dagli extracomunitari. In altre parole, la popolazione aumenta perchè aumentano gli immigrati. Gli italiani tra gli 1 e i 15 anni sono meno numerosi di quelli dai 65 in su. Occorre un’iniezione di futuro. Possiamo parlare di Nuovo Rinascimento solo se c’è dialogo, rispetto, se si adottano i codici di quella che molti ormai chiamano “filosofia del meticciato”. A cominciare dalla scuola, che sempre più è frequentata da ragazzi nati qui da genitori stranieri, quindi da nuovi cittadini che si formano in Italia. Occorrono regole, capacità di gestione. Vanno creati strumenti di difesa dai conflitti e dalle rotture. Va aumentata la capacità di gestione. Insisto: una positiva visione di sviluppo. Le faccio un esempio...”.

Quale?

“L’ esperienza della Casa di prima accoglienza che dirigo è cominciata pochi mesi fa ed è piena di energia. Qui vicino c’è un asilo. C’era diffidenza nei confronti del nostro insediamento e fu chiesto di costruire un muro che tenesse ben separate le due realtà. Adesso no: i bambini vengono alle feste da noi. Abbiamo creato una struttura aperta alla partecipazione del quartiere, all’associazionismo, l’abbiamo fatta diventare una risorsa per tutti, non ha creato nessun problema. Anzi: la gente ormai sa che se si imposta male anche architettonicamente una struttura si abbassa il valore delle case circostanti. Tutto questo è un esempio per “fare rinascimento”.

Non sarà un fortunato caso isolato? “Lo sviluppo esiste se si ha anche il senso del limite. Prendiamo il problema degli zingari: nel contesto di un’area metropolitana va sterilizzato lo scontro pubblico e vanno applicate regole europee. Non possiamo metterli in campi di concentramento, fare sgomberi con la forza. Il problema torna: non scompare, torna. Come per i rifiuti: un libro intitolato Vite di scarto paragona gli emigrati a scorie umane da accogliere, ma che la gente vorrebbe che non ci fossero. Lo sviluppo è un nuovo modo di interpretare il pensiero urbano e la partecipazione”.

Non è mica facile “La sfida è attivare la responsabilità sociale dell’impresa, in una logica non individualista. L’impresa è un bene pubblico, va regolata in una logica di partecipazione. Si parte dall’assistenza, si passa all’ospitalità, ma l’obiettivo sono le occasioni lavorative. Lo sviluppo non può prescindere dalla crescita di dimensioni della persona”.

Le sembra che Milano risponda a queste sollecitazioni?

“Milano è aperta, anche se talvolta si sollevano polemiche sull’immigrazione. Ma la città ha forti tradizioni sociali diverse, cattolica, socialista, c’è un sottofondo di mecenatismo buono. La mia è una visione ottimista, ma non ingenua”.

Ci sono anche i pessimisti però “Sono quelli che hanno l’angoscia del vivere in città e che scappano alla fine della settimana. Stanno qui solo con l’affanno del lavoro. Occorrerebbe nei loro confronti Quasi un’azione pedagogica, perché per far vivere la città è necessario riversarvi energie positive. Milano non dev’essere la capitale del disagio”.

Come immagina Milano tra dieci anni?

“Dipende tutto dai prossimi tre. Le scelte importanti vanno fatte subito, senza rinvii. Il mutamento passa da una diversa concezione degli stranieri: non “utili invasori”, ma persone che prendono responsabilità nello sviluppo della città, con senso di appartenenza. Vanno riconvertite le fasce abbandonate, se no la città si carica di conflittualità e di paura”.

Che scelte occorre fare? “Creare un’area metropolitana, con un governo metropolitano, investendo in infrastrutture e trasporti per recuperare il senso della vicinanza e creare legami. Intervenire in fretta sulle aree degradate, sulle cascine, le industrie dismesse. Affrontare il problema dell’abitare e del lavoro. Milano deve collegarsi all’Europa, e usare bene i fondi messi a disposizione dalle politiche sociali degli ultimi anni. Se si creano le condizioni per sviluppo e vivibilità, le occasioni crescono e si moltiplicano”.

“Sono ottimista. Ottimista per volontà”.

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