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Marco Damilano
Rivoluzione Capitale
15 Giugno 2005
Roma
“Caltagirone, Tronchetti Provera, Vaticano. Tutti coinvolti nel grande business di inizio millennio”. Un paragrafo romano nel libro “Urbanistica e poteri forti”, tutto da scrivere. Da l’Espresso del 9 giugno 2005

di Marco Damilano

Una nuova Fiera affacciata sull'aeroporto. Un polo tecnologico all'avanguardia. Quartieri residenziali attrezzati di verde, centri commerciali e impianti sportivi. E poi 300 chilometri di binari. Interi palazzi da abbattere e riedificare. Ottantasette mila ettari di verde, contro gli attuali 82 mila. È il grande sogno di Walter Veltroni: passare alla storia come il sindaco del Piano regolatore che ha cambiato il volto di Roma. È, anche, il grande affare di inizio secolo. Una pioggia di miliardi. Tra i 15 e i 20 miliardi di euro in 15 anni (230-40 mila miliardi di vecchie lire). Una torta gigantesca che taglia trasversalmente forze politiche e imprenditori. Subito dopo il fischio di inizio della lunga partita che da qui al 2004 porterà all'approvazione definitiva del Piano (con la firma del presidente della Repubblica), due settimane fa in giunta si sono scatenati appetiti e polemiche. Si capisce: l'ultimo piano regolatore, firmato da Luigi Piccinato, risale al 1962, esattamente quarant'anni fa. Non fu neppure discusso dal consiglio comunale: la proposta del gruppo tecnico costituito dal sindaco dell'epoca, il democristiano Salvatore Rebecchini, fu adottata dal commissario prefettizio e promulgata con legge nel '65. Per trovare un piano approvato dall'aula Giulio Cesare bisogna risalire a 100 anni fa, al 1909, al sindaco Ernesto Nathan. A seguire il lungo cammino del Piano c'è un tandem composto da un vecchio urbanista e un giovane politico. L'urbanista è il bolognese Giuseppe Campos Venuti, negli anni Settanta assessore al comune di Bologna, punto di riferimento di generazioni di tecnici della progettazione delle città, il papà del piano. Il politico è il giovane assessore al Territorio Roberto Morassut, diessino, pupillo di Veltroni, incaricato di gestire politicamente l'approvazione del Piano. Una scommessa da brivido. Nel suo ufficio a due passi dal Circo Massimo, nelle stanze in cui negli anni Ottanta un assessore democristiano usava mettere a tutto volume un disco di musica classica al momento di chiedere la tangente per disturbare eventuali registrazioni, Morassut dispiega la pianta della Capitale del futuro: "La vecchia Roma centralista si reggeva sull'equazione burocrazia più mattone. Una città fondata sugli impiegati: i ministeri offrivano il lavoro, i palazzinari la casa. Tutto questo non esiste più. La nostra idea strategica si chiama centralità. Nuovi progetti urbanistici che puntano a creare tanti centri in periferia. È una sfida che facciamo all'imprenditoria locale: alzate il livello, costruite infrastrutture, una città in cui sia facile muoversi e ci sia una maggiore qualità sociale". No ai quartieri dormitorio, sì a quartieri verdi dove si possa abitare, dunque. In più, c'è una gigantesca operazione di ristrutturazione edilizia che passa per l'abbattimento e la ricostruzione della cosiddetta "città compatta", fondata sul cemento armato: Tuscolano, Prenestino, Casilino, Tiburtino. "Non è più la rendita che guida, ma l'amministrazione che guida", aggiunge Morassut. "Un'idea dirigista", attacca il consigliere comunale Claudio Santini, uomo di punta di Forza Italia nella commissione urbanistica del Campidoglio. "In questo modo i Ds diventano i grandi regolatori del traffico di affari di Roma. Mettono le mani sulla città, per usare una citazione cinefila cara al sindaco". Certo, il Piano ha risvegliato dal torpore gli imprenditori romani. E non solo. A ogni centralità, a ogni nuovo quartiere, a ogni schizzo sulla mappa corrisponde una corposa rete di interessi. C'è il gruppo Caltagirone che si sta spostando rapidamente dal mattone al ferro. Della vecchia attività edilizia resta nel Piano il quartiere di Tor Pagnotta, la cui cubatura cala da quattro milioni e mezzo di metri cubi a un milione e mezzo. In compenso, però, il gruppo è impegnato con la società Vianini nella zona di Tor Vergata e nella rete della metropolitana. In più, partecipa con le Ferrovie dello Stato nella società Grandi Stazioni alla costruzione della nuova stazione Tiburtina, che con l'alta velocità dovrebbe diventare la più importante della capitale, e alla gestione di Roma Termini, dove dovrebbe nascere un mega-parcheggio sopraelevato. Un feeling con la giunta Veltroni che, dicono i maligni, sarebbe all'origine dell'arrivo alla direzione de "Il Messaggero" di Paolo Gambescia, amico del sindaco. Ci sono poi nuovi imprenditori, aggressivi, decisi a non farsi scappare l'occasione: il gruppo Lanaro dei fratelli Toti (di Pierluigi si è parlato come possibile nuovo presidente della Roma, al posto di Franco Sensi) si è aggiudicato la nuova Fiera a Ponte Galeria, un milione e mezzo di metri cubi, progettato dall'architetto Masino Valle, che comprende le strutture fieristiche, gli alberghi e un parco fluviale sul Tevere, oltre alla Bufalotta. Questo quartiere in zona nord è stato al centro di alterne vicende alla fine dei ruggenti anni Ottanta, quando fu acquistato da un fantomatico mister Bond australiano, poi fallito. Adesso si presenta come una potenziale Milano due in salsa romana, ed è stata ribattezzata con enfasi "la porta di Roma". Il progetto, disegnato in modo avvenieristico, prevede boulevard e campi sportivi. Ci sono poi i milanesi del gruppo Pirelli-Telecom di Marco Tronchetti Provera. Proprietari del terreno Romanina, la zona dove negli anni Ottanta si era progettato di costruire il nuovo stadio da 100 mila posti. E dove ora il Comune sogna la nascita di un polo di ricerca, con lo spostamento del centro studi Donato Menichella di Bankitalia, del Centro nazionale ricerche, dell'Enea e dell'agenzia aerospaziale. In un'altra zona di proprietà Pirelli, il quartiere Acilia, vicino Ostia, il Comune proverà a trasferire, d'accordo con l'Università Roma Tre, alcune strutture per gli studenti. Ci sono poi le proprietà dello Stato e degli enti pubblici. Il quartiere di Pietralata, dove dovrebbero traslocare un pugno di ministeri (Agricoltura, Ambiente), l'Istat e la provincia di Roma, l'Ostiense dove si sposteranno gli uffici del Comune (il cosiddetto Campidoglio 2), le tre università. C'è infine, naturalmente, il Vaticano. Che dispone di proprietà diffuse sul territorio, a macchia di leopardo. Appartengono soprattutto a Propaganda Fidae, sotto la responsabilità del cardinale Crescenzio Sepe, già uomo-chiave del Giubileo, una vecchia conoscenza degli amministratori romani. Il problema più spinoso si chiama Cesano: zona extraterritoriale, ricolma di antenne nocive per la salute degli abitanti, già al centro di un clamoroso braccio di ferro con lo Stato italiano. Senza troppi clamori, Veltroni sta spingendo per trovare una soluzione alternativa alle antenne: un patto con il Vaticano per eliminare il problema. Accordo difficile. Un ginepraio di interessi in cui non è facile districarsi. E infatti, a piano appena presentato, è cominciata la bagarre. Il primo scontro è interno alla maggioranza: tra Veltroni che vuole accelerare e una parte della Margherita (i popolari del vicesindaco Enrico Gasbarra) che frena. Ma anche all'interno di An si confrontano anime diverse: grazie a una leggina regionale approvata dal centro-sinistra, la competenza sul via libera al Piano doveva passare a partire da quest'anno alla provincia (governata da un uomo di An Silvano Moffa). Ma la regione Lazio, cioè Francesco Storace, ha fatto finta di niente e non intende mollare. In gioco c'è la possibilità di condizionare il Comune alla vigilia della prossima campagna elettorale. E anche la candidatura a sindaco del centro-destra, che potrebbe essere contesa proprio da Moffa e Storace. E Forza Italia? Nel giro dei costruttori, gente poco ideologica e molto attenta al pratico, si riconosce che la giunta Veltroni ha rimesso in moto l'occupazione e "l'indotto". Così, all'opposizione, non resta che strepitare contro "la mancanza di trasparenza" del Comune che non fa conoscere i dettagli del Piano. Ma la vera differenza potrebbe farla Palazzo Chigi. Silvio Berlusconi promise un anno fa un finanziamento straordinario di 13 mila miliardi di lire per Roma se avesse vinto il suo candidato Antonio Tajani. Ora Veltroni lo incalza. Se convince anche il Cavaliere può davvero cambiare Roma.

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