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Giorgio Todde
Filosofia delle costruzioni
1 Maggio 2005
Sardegna
Ho carpito allo scrittore sardo il dattiloscritto di un suo vecchio articolo, comparso l’anno scorso su la Nuova Sardegna. Mi è piaciuto molto; Giorgio mi ha mandato il file, così non ho avuto bisogno di scandirlo

In un’aula - antica e conservata - della facoltà di ingegneria un gruppetto riflessivo di studenti si è domandato se esiste un una filosofia delle costruzioni.

Esiste, dicevano, la filosofia del diritto, c’è una filosofia della scienza ed esiste, certo, anche una filosofia del costruire: ma non viene insegnata. Eppure un’azione così importante e complessa come progettare e costruire deve essere sostenuta da una filosofia e da un’etica. Sennò si vive in un aldilà, opaco, senza memoria e senza passato.

Finita la discussione che ha lasciato quasi tutti con idee più numerose ma più confuse, ho attraversato la città, Cagliari, per tornare a casa e sono passato dall’ordine del ragionamento al disordine della realtà.

Un’infinità di esempi dolorosi mi si presentavano lungo strada. Filosofia ed etica da queste parti hanno fatto un capitombolo… Guardavo i quartieri e riflettevo che non c’è stata né un’etica e neppure una filosofia che hanno sostenuto la crescita di Cagliari, orribilmente ingrandita dal dopoguerra ad oggi, priva, appunto, di una dottrina del costruire. Cresciuta con la violenza della necessità, perché servivano tetti sotto i quali rifugiare la gente che si inurbava dai paesi dell’isola. Perciò, nonostante la bellezza della posizione naturale, Cagliari è diventata una città brutta cresciuta nel disordine, come un tumore. La necessità, solo la brutale necessità per sessant’anni, ha guidato la nascita di quartieri nuovi e soffocanti. Era necessario costruire case e basta. Non c’era il tempo di fare filosofia.

Questa è la città oggi.

E il resto dell’isola?

Nelle campagne, nelle coste e sui monti non c’era la folla che premeva per avere un tetto, casomai era il contrario e la gente fuggiva dai paesi. Però c’era altro che spingeva verso la distruzione, qualcosa di forte quanto la necessità.

Oggi, si sa, l’isola è un inferno affaristico e come ogni inferno ha i suoi diavoli. E per colpa dei diavoli l’isola ha perso la memoria ed è diventata roba di dozzina, roba volgare. Tutto è mutato in peggio, tutto avvilito, il paesaggio, i colori. E siamo solo un milione e mezza in un enorme spazio.

Costruire, qualcuno ha scritto, significa collaborare con la terra.

Collaborare con la terra...

Ma quale collaborazione con la terra e con le acque c’è stata da queste parti? Qua abbiamo fatto e costruito contro la terra e contro le acque, contro natura. E la brutalità continua.

Dal cielo le cose, alle volte, si vedono con più chiarezza.

In una bella giornata trasparente, volando sopra le due grandi isole, anche il viaggiatore più distratto nota che la Corsica, vista dall’oblò, è quasi illesa, intatta mentre la nostra isola è dappertutto imbrattata, sfregiata da cemento, porti, agglomerati insensati sull’acqua e sui monti. Nelle giornate più terse si riconoscono anche i particolari più raccapriccianti. Altro che filosofia.

E il fascino del passato è divenuto solo una carta falsa, buona per bari e biscazzieri che raccontano un’isola che non esiste da un pezzo.

I nostri paesi.

I nostri paesi erano perfettamente in natura e “collaboravano” con la terra. Lentamente, da sé, sono riusciti nell’intento, dolorosamente contraddittorio, di svuotarsi degli abitanti e di moltiplicare le case. Paesi fantasma. Case brutte, estranee al paesaggio, estranee a chi le abita e crede di avere una casa solo perché ha eretto muri, case mai finite, ciascuna secondo un gusto che ha rotto con la tradizione e fa il verso ai modelli peggiori: costruite contro il paesaggio e contro il territorio. Tutto in uno sconsiderato caos alcolico, ovunque, in ogni luogo.

Avremmo dovuto non costruire ma ricostruire, considerare il passato modificandolo, inseguire il senso del costruire sotto le pietre e sotto i mattoni vecchi. Avremmo dovuto semplicemente imitare noi stessi e cambiare poco, oppure pochissimo. Avremmo dovuto tenere i piedi saldi sul passato e conservare, conservare. La filosofia l’avremmo trovata nelle nostre pietre se avessimo guardato in terra. Iniziare da quello che c’era.

Invece abbiamo creato un paesaggio nuovo e desolato, falsificato la nostra geografia umana. E anche per questo siamo un popolo melanconico e tragico: ci siamo sradicati da soli, ma soprattutto abbiamo perso definitivamente la memoria e non ricordiamo più chi siamo.

E pensare che una filosofia del costruire esisteva nell’isola, una filosofia povera, ma una filosofia. I paesi erano in equilibrio con la terra, erano costruiti con i materiali della terra su cui sorgevano e perciò assomigliavano alla terra, ne riproducevano i colori e perfino l’odore.

Il granito dove il granito era a portata di mano, il mattone di fango dove c’era la paglia e l’argilla, il tufo bianco, pietre splendenti, la trachite bruna, tegole e canne, muri di selce: materia riconoscibile e non estranea. Nulla… tutto scomparso.

Non era un grande sapere ma era un modo di costruire “naturale”, la nostra rappresentazione del mondo intorno. Noi l’avremmo dovuto ricomporre. E, invece, la trasmissione delle memorie si è sgretolata.

Che cosa abbia fatto a pezzi tutto questo non è chiaro.

Ignoranza e povertà, forse, hanno cancellato quello che avevamo il dovere di conservare. Una forma di succube inferiorità davanti a tutto ciò che arrivava dal mondo esterno. La non comprensione del patrimonio povero ma insostituibile. La pressione troppo forte del mondo “civilizzato”.

Quel gruppo di studenti d’ingegneria continuerà a riflettere e comprenderà, speriamo, la responsabilità di chi deve costruire in Natura, l’importanza del “non fare” e capirà che per non fare occorre forza e conoscenza di cosa ci portiamo dentro.

Non fare è un comandamento. E quando si agisce bisogna che l’azione, preceduta da un’idea, sia minima, oppure – ma questo è un compito riservato al genio – grande ma in collaborazione con la terra la quale è inanimata, certo, ma possiede una logica che, se la si offende, genera disastri. Sennò saremo noi i responsabili della creazione di un regno dei morti in terra.



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L'immagine è tratta da: yves.barnoux.free.fr/ sarde/litterature.htm

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