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Lodo Meneghetti
Musica e periferie
29 Marzo 2004
Periferie
Lodovico Meneghetti interviene nella discussione inviandomi un suo testo: il secondo capitolo di Periphéreia kai Metrópolis. Una lezione semplice. Pubblicazione in “Quaderni di architettura”, a. XVIII, n. 23, dicembre 2002. “Ai nostri imprenditori di urbanistica e di edilizia non importa nulla dell’urbanistica, dell’architettura, del paesaggio, degli uomini. Si affidano alla comune insipienza o costrizione della domanda. È di nuovo la Cacotopia: la dissipazione privatistica di cui in Patrick Geddes poco meno che un secolo fa. Una parte consistente della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l'accantonare non solo qualsiasi piano ma ogni idea di città.” NB. – Le note, essenziali per la comprensione del testo, per un errore del convertitore non appaiono cliccando sui richiami. In attesa che l’errore venga riparato inserisco le note in fondo al testo.

Mi ha colpito una originale interpretazione musicale della nuova periferia milanese. Il ricorso alla musica nei discorsi sull’architettura e sull’arte che vanta non pochi autorevoli precedenti del Novecento (Ginzburg, Taut, Le Corbusier, Badovici, Ozenfant, Kandinsky…) è sempre più abituale fra architetti e urbanisti. Mi devo adeguare. “Lo spazio periferico e della dispersione” sarebbe ”qualcosa di più importante, di più coerente alla nostra società, al nostro sistema di valori, anche alle nostre aspirazioni, solo che lo si sappia cogliere. […] la periferia è come il passaggio dalla grande musica che tra Rinascimento e secolo scorso [XIX) si assesta nelle grandi forme dello ‘stile classico’ alla musica di Shönberg, Berg, Debussy […]. Dall’abbandono delle grandi forme compositive sono derivati alcuni fondamentali problemi” [1]. L’autore sta scrivendo del “dilagare metropolitano” [2], circa il quale fenomeno altrove mette in guardia da esprimere un giudizio, talora diveniente “esplicito rifiuto” infine impedimento “a cogliere il nuovo che è in marcia” [3]. Allora l’autore giudica, questo “nuovo” è un avanzamento, direi una rivoluzione se lo si paragona alla musica dei due viennesi (Debussy sembra appiccicato lì). Quanto ai problemi: non risolti, si direbbe. Il “passaggio”, mi pare, avviene altrimenti: sull’onda del Romanticismo, accensione del pieno sentimento sulla base della ratio nei secoli verificata. Schönberg secondo la critica condivisibile di Adorno appartiene al filone romantico, in lui la ragione dodecafonica vive nel permanere di quello spirito [4]. Proviene da Wagner e da Brahms; la vocazione rivoluzionaria risale a Bach. La dodecafonia, una piena rifondazione delle strutture musicali, da un lato è costruzione di un nuovo ordinamento, la mirabile rete di sostegno costituita dalla funzione prioritaria delle serie di dodici note; dall’altro, proprio grazie alla chiarezza dei vincoli, è invito, se colti nel loro cuore già pulsante di creatività, a libertà forse sconosciute sia alla musica esclusivamente tonale, sia alle forme dell’espressionismo più coraggiose (egli stesso, qui, precedente protagonista). Vincoli e libertà che riconducono alla potenza della revisione bachiana (l’equabilità nelle ventiquattro paritarie tonalità del Clavicembalo ben temperato). D’altronde i quartetti di Schönberg antecedenti o successivi al manifesto della dodecafonia stanno alla pari dei quartetti di Beethoven. Se per “grandi forme compiute” si intendono le sinfoniche, nemmeno queste mancano, sebbene non possa essere questo il solo punto dirimente.

Cosa c’entrano con tutto ciò quelle periferie se non al contrario quanto a simbiosis fra ragione e sentimento? Chi sa ascoltare l’architettura, lo spazio umanizzato, la composizione urbana, il paesaggio, quando ha cercato di ascoltare anche quei pezzi di “città esplosa […] brutta” [5], non ha udito, sentito (recepito con tutti i sensi) musica. Svagavano nell’aria suoni fessi o muti, cosa ben diversa dal silenzio delle pause, indispensabile deuteragonista della composizione musicale. La musica è forse la suprema delle arti dal momento che raduna a sé tutte le altre, compresa l’architettura [6]. Come accostarvi tale periferia? Né reggerebbe un paragone fra spontaneismo di certi assetti residenziali neo-coreani, all’apparenza, e la musica popolare o la musica improvvisata. La prima è piena di convenzioni molto serie. Le improvvisazioni, sia la più frequente espressione nell’età barocca fino a metà del Settecento, sia un Mozart al clavicembalo (che poi le trascriveva), sia le cadenze (tutte tramandate in scrittura), sia la forma più significativa, il jazz dei due periodi d’oro, non avrebbero potuto sussistere senza le strutture, architettoniche direi, di riferimento. Peraltro questa città esplosa potrebbe essere così “perché qualcuno l’ha pensata” [7]. Quanto ai nuovi mostri del terziario finanziario e/o commerciale sparpagliati nella metropoli, non dovrebbe restare a noi architetti , non alla musica, che un rumoroso silenzio di protesta per tanta protervia. Sempre altrove l’autore attribuisce alle “lottizzazioni della città diffusa” caratteri di “discontinuità, eterogeneità, apertura, assenza di narratività, di una logica narrativa e dispositiva” [8]: un mondo opposto a quello del progettista Schönberg, rigore ed espressione in uno, ma anche a quello di tutti gli altri grandi compositori. Sicché solo per benevolenza, penso, altri concede che la necessaria “educazione [degli studenti] alla dimensione sinfonica, alla complessità del progetto possa corrispondere “l’ascolto della musica schönberghiana che forse si può rintracciare nella periferia” [9]. Diverso dall’impossibile rintracciamento per inesistenza della cosa nella realtà è la possibile scoperta di un incitamento al progetto attraverso difficili percorsi mentali spirituali corporei nell’ascolto. Si dà il caso, davvero interessante sul piano della trasmissione per vie misteriose di messaggi non inviati per vie normali, che parecchi anni prima facessi ascoltare agli studenti il terzo quartetto di Schönberg (1927, dodecafonico) mentre ci si accingeva a progettare “nuovi spazi locali” in comuni dell’hinterland. Cosa ne venne, da Schönberg? Non so nulla di risultati diretti. So di un piccolo deposito di sensazioni in alcuni studenti, so delle discussioni non banali con loro: giovani che forse avrebbero conquistato in seguito la maturità degli allievi del maestro viennese, ai quali egli si rivolge con grande rispetto nella prefazione al corposissimo Manuale di armonia, poche pagine di un grande insegnante ed educatore [10].

Città “diffusa”… Aggettivo insufficiente per indicare sia negatività sia positività. Se si aggiungono le definizioni citate e altre note, per esempio “confusa”, tutte convergono verso l’immagine di uno spappolamento, letteralmente, come in medicina, un processo di alterazione delle strutture di un tessuto prodotto da gravi lesioni, una perdita di consistenza riducentesi a poltiglia, come “il tessuto perduto della coscienza” [11] di urbanisti e architetti. Emerge la realtà del circondario milanese nella mezza corona settentrionale, e di altre agglomerazioni ravvicinate quali la Brianza, Busto Arsizio con Legnano e Gallarate, ecc. [12].Ma una metropoli diffusa potrebbe consistere in tutt’altra organizzazione e forma del territorio. Definendole policentriche vi si attribuisce un titolo di assoluta positività. Esse persistono, dure a morire, anche nel milanese, rappresentate grosso modo dalla semi-corona opposta alla precedente: eredità residuale, modesto e vacillante lascito da un ben più grande patrimonio non gravemente intaccato fino al secondo dopoguerra. Troppi urbanisti italiani, usando l’aggettivo “diffusa” puro e semplice in senso positivo riguardo al “dilagare metropolitano” e nascondendone i risvolti affatto preoccupanti, esprimono la portata della svolta culturale: perdita di ogni legame con la storia sia del territorio lombardo e milanese sia delle teorie e sperimentazioni corse in un secolo e mezzo di sviluppo del pensiero sociale e urbanistico. Quando essi un po’ piegati a sociologi avvisano del pericolo insito in prese di posizioni culturali ritenute elitarie (osare giudicare persino il bello e il brutto) a fronte di fenomeni insediativi metropolitani tipo le lottizzazioni residenziali piccolo-borghesi o i Monte Bianco del terziario e i centri commerciali dell’ultima generazione (i finti paesetti), e dei relativi comportamenti, sanno bene qual è l’oggetto in discussione: quella poltiglia invasiva e pervasiva a flussi e a salti come una lava o come i baccelloni del vecchio film di fantascienza Una cosa dall’altro mondo. Può darsi che le popolazioni residenti o frequentanti siano soddisfatte o, meglio, credano di esserlo. Quanto si sa, fuori da sociologismi e badando ai fatti, di cultura, sentimento e scelte socio-politiche degli attuali ceti maggioritari, quanto soprattutto riguardo ad ambiente, natura, architettura, arte e così via, non ammette inganni. In tanti casi di penosità, vista da fuori, dello stare, lavorare, muoversi, consumare, svagarsi ci sarebbero state rivolte se non si fosse verificato una sorta di mutamento antropologico: adatto ad accondiscendere a un modello sociale e territoriale conveniente non a quei ceti, né ad atri meno favoriti, ma alla classe occupante l’intero fronte della mancata contesa sociale: produzione, distribuzione, consumo, territorio, cultura. Che poi ai meteci vengano sparse appaganti briciole non è una contraddizione, è l’ultimo tornar di conto. Sarebbe dunque sorprendente che l’abitante medio di territori privi delle dotazioni e delle qualità che non troppo tempo fa l’urbanistica e l’architettura italiane ritenevano loro compito progettare e ambivano realizzare (l’esempio proveniva da altri paesi), persona inoltre tutta diversa da “l’uomo della metropoli” del terzo decennio del XX secolo secondo Willy Hellpach [13], non fosse o non pensasse di essere contento della sua debolezza. Fra l’altro gli si è insegnato l’odio contro la città compatta, il cuore a cui è pur costretto a rivolgersi continuamente. Gli abitanti delle Lewittowns, certamente campioni di americano conformismo, secondo il sociologo Herbert Gans, ricercatore né troppo grave né troppo indulgente, espressero consenso, come certi inglesi, allo “stile suburbano” [14]. Lo fecero però dopo aver verificato le dotazioni, la congruenza dell’offerta rispetto non solo o non tanto alle risorse familiari bensì a una serie di istanze, inusuali agli italiani, corrispondenti a linee-desiderio da giudicare sapendo il diverso rapporto fra la città esistente e i nuovi insediamenti nello spazio regionale vuoto. William Lewitt e i suoi specialisti li progettavano con qualche cura, tipi di case a uno a due piani soltanto, giardinetto, servizi della comunità civili e commerciali (non troppo generosi…) [15]. Così l’habitat dei Lewittowners che noi “gente di gusto” [16] non possiamo non criticare se non denigrare (i tre “stili” di case poi… [17]) è migliore dell’habitat dell’hinterland milanese. Dove , incredibile dictu, per trovare un quartiere realizzato in base a un progetto urbanistico e architettonico di qualità si va all’arcaico quartiere Ina-casa di Cesate, non per caso presentato al Ciam di Aix-en-Provence nel 1952: quartiere che i cantori del nuovo che avanza riterranno patetico [18].

Una parte consistente, penso maggioritaria, della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l’accantonare Come in altri campi, ai signori Lewitt nostrani, ai nostri imprenditori di urbanistica e di edilizia non importa nulla dell’urbanistica, dell’architettura, del paesaggio, degli uomini. Si affidano alla comune insipienza o costrizione della domanda. È di nuovo la “ Cacotopia: la dissipazione privatistica” di cui in Patrick Geddes [19] poco meno che un secolo fa. Una parte consistente della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l'accantonare non solo qualsiasi piano ma ogni idea di città. Come in una guardinga tautologia l’urbanistica è la stessa realtà fisica della città e del territorio, quali sono e mutano grazie al mercato e alle forze economiche più dinamiche. È “la mera cultura dell’esistente” [20]. Gli imprenditori privati, ben poco simili agli inassistiti omologhi americani, sono essi gli urbanisti autentici del fare sostenuti dagli urbanisti del dire (tale per esempio la sostanza del documento programmatico fornito alla giunta comunale di Milano l’anno scorso). Gli uni e gli altri ora hanno disponibile un nuovo perfetto manuale, il libro di Massimiliano Fuksas, Caos sublime: una laudatio della deregulation, del magma informe quale unico contesto territoriale ammissibile, delle baraccopoli abusive, della Tokio cresciuta senza piano [21]. Tali atteggiamenti sono del tutto diversi dalla oggettività e serietà della ricerca scientifica. Caratteri che riconosco allo studio citato Il territorio che cambia. Ambienti…, tra l’altro dotato di efficaci foto aeree. Tuttavia s’impone una critica di fondo: è talmente malthusiano nell’evitare valutazioni di merito, consistendo essenzialmente in una “descrizione” benché apprezzata dal commentatore come creativa se la definisce “ricerca fertile del ‘nuovo’ che investe lo spazio urbano dell’area milanese” [22], da sfiorare talvolta soglie pericolose, a mio parere, circa la destinazione alla formazione scientifica e artistica degli studenti: vedo per esempio la pubblicazione di fotografie di quei mostri edilizi, come il Procaccini Center di via Messina o la sede della Bnl in via Lorenteggio, a Milano, senza alcun commento sull’architettura [23]. Se anche quest’ultima la si ritiene sempre oggettiva, fenomeno naturale indiscusso, un “nuovo” derivante inevitabilmente da nuovi processi, rapporti e procedure economici sociali politici (nella sfera del pensiero filosofico una miscellanea di necessità e casualità, una specie di determinismo necessaristico, cioè Stalin che dà la mano al capitale e alla chiesa), si dovrebbe abolire nella scuola ogni ragionamento dialettico sulla costituzione dello spazio e sull’architettura anche nella sua interiorità, oltre che sulle questioni strutturali che la sottendono e le sovrastrutturali che la sovrintendono.

Tanto vale chiuderla, la scuola.

Note

[1] B. Secchi, Progettarela periferia e la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.

2 Ivi.

3 B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.

4 Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna ( Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.

5 G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.

6 “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.

7 G. Consonni, cit.

8 B. Secchi, cit., p.267.

9 G. Consonni, cit.

10 Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia ( Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.

Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.

11 H. James, La tigre nella giungla ( The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.

12 Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nella periferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.

13 Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli ( Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.

14 J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi ( The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.

15 Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., ( The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970, pp. 303-309.

16 J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.

17 Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.

18 Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.

19 P. Geddes, Città in evoluzione ( Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.

20 Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.

21 Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.

22 B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.

23 Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.

[1] B. Secchi, Progettarele periferie la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.

[2] Ivi.

[3] B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.

[4] Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna (Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.

[5] G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.

[6] “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.

[7] G. Consonni, cit.

[8] B. Secchi, cit., p.267.

[9] G. Consonni, cit.

[10] Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia (Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.

Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.

[11] H. James, La tigre nella giungla (The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.

[12] Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nellaperiferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.

[13] Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli (Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.

[14] J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi (The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.

[15] Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., (The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970,pp. 303-309.

[16]J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.

[17] Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.

[18] Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.

[19] P. Geddes, Città in evoluzione (Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.

[20] Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.

[21] Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.

[22] B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.

[23] Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.

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