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Francesco Erbani
BENI CULTURALI UN GRANDE AFFARE PRIVATO
24 Marzo 2004
Beni culturali
parla Chiarante che si è dimesso dal Consiglio nazionale Spese tagliate, strutture scientifiche impoverite, i consulenti ignorati: questa la politica del ministero FRANCESCO ERBANI

«E' stata un' esperienza logorante». Quattro anni ai vertici del Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali, dove prese il posto di Federico Zeri, sono comunque stressanti. Ma l' ultimo in particolare, alle prese con Giuliano Urbani e Vittorio Sgarbi, hanno esaurito la pazienza anche di un uomo pacato come Giuseppe Chiarante. Che, presa carta e penna, ha mandato una lettera di dimissioni dalla carica di vicepresidente (presidente è il ministro). I motivi sono tanti. Ma ne risaltano due. Primo: il Consiglio non è più un Consiglio, perché non è stato consultato in occasione di importanti leggi che riguardano il nostro patrimonio artistico, culturale e ambientale. Secondo: la politica del ministro (e del governo) tende a impoverire le strutture tecnicoscientifiche dell' amministrazione e ad affidare compiti rilevanti all' esterno. Cioè ai privati.

«Se non mi fossi dimesso sarei stato connivente con il totale svuotamento del Consiglio. E questo non era sopportabile», aggiunge l' ex senatore del Pci, fondatore di un' associazione che porta il nome di uno dei grandi dell' archeologia novecentesca, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Chiarante è impegnato da anni nella salvaguardia del nostro patrimonio, in nome della quale non ha risparmiato critiche anche nei confronti del centrosinistra. E ora cosa succederà? «Ho rimesso il mandato di vicepresidente, ma resto nel Consiglio. D' altronde ho ricevuto la solidarietà di moltissimi consiglieri, persino di quelli indicati da Forza Italia».

Anche loro contro il ministro?

«Non condividono il fatto che venga esautorato il principale organo di consulenza tecnica del ministero, un organo elettivo formato dai rappresentanti di archeologi, architetti, storici dell' arte, interni ed esterni al ministero, da soprintendenti come La Regina e Martines, da studiosi di diritto e da esponenti delle associazioni ambientaliste».

Segnali di protesta?

«Circola l' ipotesi di un' autoconvocazione. E' prevista dalla legge. Staremo a vedere».

Ma quali sono le leggi sulle quali non siete stati consultati?

«Tutte quelle che riguardano i beni culturali. La legge che riforma la normativa di tutela. La cosiddetta leggeobiettivo di Lunardi, che consente ristrutturazioni e anche demolizioni di edifici salvando solo sagoma e volume. Una tragedia per molti centri storici».

E quali altri provvedimenti?

«Gli articoli della finanziaria che affidavano ai privati la gestione dei musei. Chiesi che venisse convocato il Consiglio. Ma al loro rifiuto firmai un appello con tutte le associazioni ambientaliste contro quel diniego. Sgarbi reagì dicendo che non avrebbe più riunito il Consiglio se non ci fossimo dimessi Vittorio Emiliani ed io».

E come andò a finire?

«Quel testo venne parzialmente modificato. Resta ambiguo, ma almeno è stato eliminato il punto che assegna ai privati la completa gestione».

Vi hanno consultati sull' istituzione della Patrimonio S.p.A., che dovrebbe gestire e anche alienare i beni dello Stato, compresi quelli culturali, oppure usarli come garanzia ipotecaria?

«Neanche per idea. Sulla vendita dei beni abbiamo mantenuto sempre una posizione restrittiva. Con il governo di centrosinistra ci siamo battuti perché il Foro Italico a Roma non venisse ceduto. E alla fine il ministro Melandri l' ha spuntata, ottenendo che solo lo Stadio, pesantemente manipolato dopo la guerra, fosse dichiarato vendibile». Ora si aprirà il complesso trasferimento di molte funzioni alle Regioni. Anche su questo vi hanno tenuti all' oscuro? «A una mia lettera ha risposto il capo di gabinetto del ministro: la questione è politica, non tecnica. E' un assurdo. A dir la verità Sgarbi è sembrato più disponibile. Ma Urbani ha chiuso il discorso».

A questo punto, però, si profila un problema politico. Qual è la politica del ministro Urbani?

«Urbani ha una visione quasi sacerdotale della tutela, ma sulla gestione vorrebbe affidare quante più cose ai privati».

Segue una logica mercantile? E' questo che vuol dire?

«Mi limiterei a parlare di economicismo. Ma la sua scelta è direttamente collegata ai drastici tagli nella spesa. Nel decennio scorso sono stati incrementati i fondi di 300 miliardi l' anno. Negli ultimi tempi si è arrivati a 400. Poca cosa, intendiamoci. Ma il governo ha reciso anche questi».

Si sente dire che i musei debbano diventare redditizi.

«Ci ridono dietro persino gli americani. Il Metropolitan si finanzia per il 33 per cento con gli incassi. Poi intervengono fondazioni private e soldi pubblici. Ho letto uno studio americano in cui si calcola che chi va a visitare il Moma, dorme in media una o due notti a New York, mangia al ristorante, compreso quello del museo, paga i mezzi pubblici o un garage, fa acquisti. E' così che si può stabilire il beneficio economico di un museo, che normalmente persegue altri fini».

Sarebbe inutile elencarli.

«Guardi che questa ossessione sulla redditività porta a concentrarsi solo sui musei, trascurando che il patrimonio italiano è diffuso ovunque. Nei centri storici, per esempio. Infatti i tagli penalizzano soprattutto le Soprintendenze territoriali, che devono spaccare il capello in quattro, arrovellandosi con procedure che farebbero inorridire qualunque uomo d' azienda».

Diventa lei un aziendalista?

«Ma lo sa che se in una Soprintendenza finiscono i soldi per le pulizie non si possono usare quelli destinati alla benzina e viceversa? I capitoli di bilancio sono rigidissimi. E questo fa lievitare i residui passivi, cioè i soldi non spesi. Un paradosso. E non sono nei guai solo le Soprintendenze: l' Istituto centrale per il restauro ha dovuto ridurre al minimo le missioni».

Ma questo indirizzo non mortifica anche la tutela?

«Certamente. Questo ministero separa nettamente tutela, da una parte, valorizzazione e gestione dall' altra. Ma un restauro che cos' è? Solo tutela? O non è anche valorizzazione?»

Sgarbi la pensa come Urbani?

«In molti casi no. Sgarbi è sensibile alla tutela. Ne ha una visione persino conservatrice. Condivido molte sue posizioni, altre no. Ma lui è attento ai singoli interventi, non alle questioni strutturali, quelle più proprie del ministero».

Per esempio?

«Gli avrò chiesto mille volte di occuparsi delle scuole di restauro. E' possibile che chi frequenta un corso all' Istituto di Patologia del libro o all' Istituto centrale per il restauro, due perle del nostro sistema, prenda un diploma che ha lo stesso valore di quello ottenuto presso una qualunque scuola privata?».

Il ruolo del ministero si è indebolito?

«Indubbiamente. Prendiamo il caso delle conferenze di servizi, che si occupano di opere pubbliche. Prima il parere dei Beni culturali era vincolante. Poi, ancora con il centrosinistra, questo potere si è attenuato e in molti casi decideva la Presidenza del Consiglio. Io non sono mai stato d' accordo. Ma tant' è. Ora la conferenza di servizi è solo un organo istruttorio. Chi decide è il Cipe, dove prevalgono ragioni economiche. E lì può davvero accadere di tutto».

Repubblica, 31 maggio 2002

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