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Giorgio Bocca
Il “caso” Malpensa, simbolo di assalto all’ambiente
20 Marzo 2004
Recensioni e segnalazioni
Dal libro di Giorgio Bocca, Piccolo Cesare (Feltrinelli, Milano 2002) inserisco qui lo stralcio del Cap. 12. Ma è un libro che va letto tutto.

Siamo troppi

L’assalto all’ambiente appartiene alla storia degli uomini più che alla modernità, all’antica ricerca animale del territorio, dello spazio vitale. Un giorno stavo contemplando lo scempio della Valdigna, l’alta Valle d’Aosta e me ne lamentavo, ma chi mi accompagnava disse: “Se tu ci sei venuto, perché non dovrebbero volerci venire anche gli altri?”. Siamo in troppi e vogliamo le stesse cose, gli spazi liberi e ampi. Nell’Ottocento la valle era percorsa da una strada ricalcata su quella romana che gli scalpellini delle legioni avevano aperta, a tratti, nella roccia, come ricorda “La pierre taillee” sotto La Salle. Poi è arrivata la ferrovia e poi l’autostrada, infine il traforo del Monte Bianco da poco riaperto dal ministro delle grandi opere Lunardi, che avendo scavato ventisette tunnel si lamenta di coloro che non li apprezzano. Il fondovalle è sparito sotto le vie ferrate o cementate che corrono parallele a pochi metri di intervallo. Courmayeur, il paese sotto il Monte Bianco, sta sotto una perenne coltre di smog, una serpe grigia lungo tutta la valle. Il viavai perpetuo di auto e di camion giganti non dà tregua, ma il ministro e i potentati economici che gli stanno alle spalle non hanno dato ascolto alle proteste popolari, inutili anche in Val di Susa contro le opere per l’alta velocità ferroviaria. Vince lo sviluppo autolesionista, la metastasi demenziale di un traffico che sposta acque minerali dalla Valtellina alla Calabria e viceversa dal Pollino a Monza, in un caotico carosello di latte, formaggi, vitelli, conserve di pomodoro che vanno e vengono in un moto perpetuo. Traffico su gomma, lo chiamano, e non c’è forza al mondo che possa limitarlo, sui valichi appenninici code interminabili di camion procedono come elefanti in cerca di pascoli. Il Ticino era uno dei pochi fiumi padani non inquinati, una via pulita che scendeva da Lugano al Po, ma gli piovono dentro i veleni degli aerei, il Sesia, fiume di acque pure, è minacciato da una quindicina di costruende centrali elettriche che lo lasceranno secco per nove mesi l’anno. Il Po è una gigantesca latrina dove tutti buttano i loro rifiuti, nel bacino del Lambro, cioè in mezza Lombardia, i veleni sono arrivati a quindici-venti metri di profondità, a Milano quasi tutti i bambini hanno una perenne irritazione ai bronchi, si vedono ciclisti circolare con la mascherina di protezione che non serve a niente, sugli asfalti c’è una patina di polveri micidiali che rendono inutili le giornate senz’auto.

Gli elenchi delle località afflitte da inquinamento riempiono migliaia di pagine, in intere province la qualità della vita è pessima.

Ci occupiamo qui di un solo esempio macroscopico, l’Hub della Malpensa, il megaeroporto internazionale: la vita in una novantina di comuni piemontesi e lombardi è stata violentata, ma sui giornali se ne parla raramente e gli oppositori considerati minoranze snob che non capiscono le leggi dello sviluppo.

Rombo continuo

Malpensa, un dramma della modernità. Impossibile risolverlo, difficile correggerlo. Ottantasette comuni piemontesi e lombardi privi di silenzio, privi del buio della notte, immersi in un perenne fragore di aerei, quattrocento al giorno che decollano, quattrocento che atterrano, dentro la perenne aurora boreale delle luci dell’Hub. Mi dice il dottor Boggio, sindaco di Varallo Pombia: “Per mettere assieme il parco del Ticino abbiamo dovuto convincere i contadini perché limitassero le loro colture, poi i cacciatori perché rispettassero la fauna e poi quelli che volevano costruirsi la villetta sulla riva del fiume e il popolo delle vacanze perché non sporcasse, e adesso che c’eravamo quasi riusciti è arrivata la grande Malpensa con le sue incessanti piogge di idrocarburi e di polveri e persino di “malaria da bagaglio” o “malaria aeroportuale”. Il guasto provocato da Malpensa riguarda l’intera vita civile in ottantasette comuni dell’Italia più avanzata, la buona amministrazione, la legge hanno lasciato il posto alla prepotenza e alle irresponsabilità.

Cancellare Malpensa, tornare ai tempi del “fiume azzurro” silente e pulito, alle “amate sponde” risorgimentali non è cosa possibile, sarà un miracolo arrestare la metastasi dello sviluppo caotico che ora dal Ticino si sta allargando alla nuova Fiera in costruzione dalle parti di Pero, a pochi chilometri da Milano. Ma il dogma dello sviluppo continuo arriva dal governo europeo, la signora De Palacio, ministro dei Trasporti, ha già sentenziato che i limiti agli Hub sono inaccettabili, che gli Hub hanno come unica regola e misura le richieste di trasporto europee, già accettate dal più grande degli Hub, il Charles De Gaulle di Parigi, che di movimenti di aeromobili ne ha il triplo di Malpensa, più di duemila al giorno.

Dicono il sindaco di Varallo Pombia e gli altri ottantasei che provano ancora a mettere la sciarpa tricolore e a marciare sull’aeroporto per fermare i lavori della terza pista: “Solo dieci anni fa non sapevamo neppure o quasi che a Malpensa ci fosse un aeroporto”. Ma neanche coloro che l’hanno costruito, l’Hub, sapevano bene cosa ne sarebbe nato, un mostro che ha violato l’impatto ambientale, che è passato sopra tutti i divieti governativi. Dire oggi che Malpensa è stata imposta dai grandi poteri economici è dire solo una parte della verità. Sono stati gli dèi di questo tempo a imporla, il dio denaro, la corsa continua che fa delle autostrade lombardo-piemontesi delle piste convulse, frenetiche, cui partecipano tutti. Malpensa è il prodotto di una società omogenea nella sua imprevidenza, compatta nella sua follia. Fra i sostenitori di Malpensa si contano anche i sindacati, anche la Cgil: devono difendere i loro occupati, anche se siamo in una regione di piena occupazione, anche se è prevedibile che le occupazioni “basse” di Malpensa per le pulizie e per altri lavori manuali finiranno agli immigrati.

Vale per Malpensa la cattiva informazione o la “disinformazia” che è di tutto l’attuale modo di vivere e delle sue rapide mutazioni. La pubblica opinione sa niente e pochissimo degli scontri e dei nodi degli interessi retrostanti. Per esempio che l’alleanza fra la Klm e l’Alitalia partiva proprio dal superaeroporto, impossibile vicino ad Amsterdam, cioè dal bisogno degli olandesi di avere i grandi flussi di un Hub già esistente, il flusso continuo di quanti arrivano nel nodo logistico e di quanti ne partono. L’aeroporto gigante come supermercato nella tradizione delle grandi fiere europee, una calamita di commerci e di speculazioni. E su questi interessi reali, concreti, si sono poi sovrapposti quelli virtuali ma non meno decisivi della megalomania patriottica, per cui anche alte cariche dello stato, o almeno gli scribi al loro servizio, esortano i concittadini alla terza o alla quarta pista come conquiste della civiltà e della patria. I grandi e grandissimi interessi passano sopra i diritti e le difese di quanti negli ottantasette comuni ci vivono. Il modo è quello tradizionale del fatto compiuto: prima si dà mano alle opere preparatorie, alle infrastrutture indispensabili, strade, svincoli, collegamenti dell’energia e quant’altro, e quando l’intero paesaggio si è conformato alla grande opera non resta che costruirla. Così sarà della terza pista: una volta fatti i disboscamenti, gli sbanchi del terreno, e il sistema di attracco degli aerei, diciamo i pontili fra gli aerei e la stazione di attesa e di smistamento, chi oserebbe opporsi al completamento dell’opera, chi potrebbe sostenere che è meglio buttar via l’investimento già fatto? Lo sviluppo non si cura della vita degli uomini, figurarsi del loro costume, delle loro istituzioni. Se uno dei cittadini di qui vuole fabbricarsi un canile nel giardino deve rispettare le discipline municipali mentre i grandi poteri, alla faccia dei divieti anche provinciali e regionali, fanno dei movimenti di terra per milioni di metri cubi. E anche se tutti sanno che le leggi sono variabili fra chi sta sopra e chi sta sotto, non è un bel modo di dar forza a una democrazia già di per se fragile.

Sono state raccontate riguardo a Malpensa alcune favole dello sviluppo continuo. Una era quella del glorioso avvenire del trasporto aereo. Certo non era prevedibile la tragedia americana di Manhattan e le sue disastrose conseguenze ma il problema centrale dei grandi numeri e del poco spazio esiste e le soluzioni previste non sembrano prive di rischi e di danni. Se già ora attorno a un Hub come Malpensa la vita sta diventando difficile e a volte insopportabile, che cosa accadrà quando saranno in servizio i superaerei da ottocento o mille posti? Quali fragori, quale inquinamento produrranno in una zona che era quella del fiume azzurro e dei laghi? Per ora nell’economia locale chi ci ha guadagnato sono solo alcuni grandi alberghi e ristoranti cui vengono avviati i viaggiatori in sosta obbligata, non l’occupazione di una provincia ricca e avanzata. Pochi, pochissimi in queste fortunate contrade ambiscono a pulire le toilette e a trasportare valigie, ed è paradossale che a sostegno dell’Hub si sia usato il problema dell’occupazione in una delle plaghe in cui tale problema non esiste.

Quelli dei grandi interessi fanno presto a liberarsi dell’impatto ambientale: salgono in macchina e vanno dove il rumore c’è, ma non è così micidiale. Perché trattasi di un rumore senza tregua, preparato e seguito dall’angoscia del rumore che sta per arrivare, ogni cinque o dieci minuti, e se ritarda pensi al peggio. Andar via? Ma dove? Come? Per quasi tutti gli abitanti degli ottantasette comuni questa è una “residenza di necessità”, si son fatti la casa, hanno il lavoro da queste parti e chi mai potrebbe pensare o pagare un esodo di massa?

Al trasporto aereo va bene e la signora De Palacio, eurocrate, fa il suo mestiere affermando il dogma dello sviluppo continuo, ma se venisse da queste parti lacustri e pedemontane scoprirebbe che qui lo sviluppo continuo è già arrivato al suo invalicabile confine, che qui di sviluppo continuo la gente si ammala, che qui ci sono le massime concentrazioni di cefalee, di nevrosi, che gli allergici sono un esercito e i consumi di ansiolitici al massimo; che il trentatre percento della popolazione sta male, in stato di ansia, con sonni interrotti, con fischi e sibili nelle orecchie, con crescente incapacità di percepire le parole. Malanni superiori di sette volte a quelli della media, malanni fastidiosissimi e forse anticamere di malattie più gravi. Ma i grandi interessi non disarmano, a ogni comitato di protesta ne oppongono uno di appoggio, a ogni indagine sanitaria una predicazione opposta come: “È probabile che le donne dell’area più limitrofa a Malpensa esagerino i loro disturbi per dare maggior voce alle loro lamentele”.

I grandi interessi fanno parte, e parte dirigente, di uno sviluppo che per altri aspetti ha il consenso della maggioranza, per cui denunciarne le pecche sembra quasi una bestemmia. E che avendo dovunque voce in capitolo, poteri di censura e di persuasione riesce a spuntarla comunque. La gente lo sta scoprendo sulla propria pelle: le centraline di controllo degli inquinamenti sono gestite dalla burocrazia megalomane che ha voluto la grande Malpensa, l’informazione ne ha fatto una bandiera da difendere a ogni costo, quando il governo europeo impose delle giuste dilazioni all’apertura dei voli i media insorsero come se ci fosse stato un complotto ai nostri danni. Ma non possono negare che i grandi numeri di chi consuma e il poco spazio a disposizione restringono i confini del mondo.

I finti rimedi

Gran parte della Lombardia è inquinata ma abbiamo inventato i finti rimedi di cui i giornali riempiono i loro fogli: le mascherine che salvano i polmoni, i pattini a rotelle contro i motoscooter, le domeniche senza auto. La confessione del disastro ecologico, avvenuto e forse non riparabile, trasformata in un rito festoso e consolatorio. La gente tiene ferma l’automobile, esce in bicicletta o in monopattino, i più esibizionisti in carrozzella, guarda felice le strade vuote come a Ferragosto, porta i bambini ai giardinetti e si dice: “Tutto qui? Sarebbero questi i grandi sacrifici, le punizioni economiche, le dure discipline per uscire dall’effetto serra?”. Festanti e virtuosi. Il presidente della regione Lombardia Formigoni, che ha l’austerità di un pastore mormone, promette al suo popolo la salvezza grazie ai sacrifici. Un po’ come negli anni remoti in cui le parrocchie organizzavano raccolte di stagnole di cioccolatini da mandare alle missioni. Le cattive o pessime notizie dell’assalto all’ambiente vengono coperte dalle immagini della festa virtuosa, delle belle famiglie lombarde che respirano con sollievo l’aria avvelenata come negli altri giorni di libero traffico. I giornali sono pieni di notizie sul benefico evento e la gente pensa che se gli dedicano tanta attenzione vuol dire che è una cosa seria, un rimedio efficace. Ormai la funzione preminente dell’informazione è di inventare o partecipare alle menzogne di cui il sistema si gonfia e si droga. Tutti fingono di ignorare che il provvedimento delle auto ferme è perfettamente inutile: primo perché il giorno dopo si torna ai limiti massimi di inquinamento, secondo perché non sono le auto le principali responsabili, fanno di peggio il riscaldamento a gasolio e le polverine che si depositano sugli asfalti.

Dietro la cortina delle menzogne intrecciate, sono le stesse autorità che ordinano i finti rimedi a peggiorare la situazione. Da noi in Italia la riduzione dei gas venefici prevista dall’accordo di Kyoto del sei percento è annullata da nuovi consumi e da nuovi impianti, il presidente della regione è uno dei più accesi sostenitori dell’Hub di Malpensa dai cui aerei piovono idrocarburi nel cielo della Lombardia che “era così bello quando era bello”.

Facciamo i nostri blocchi automobilistici fingendo di non sapere che in un anno le automobili della provincia milanese sono aumentate di centomila e se vogliamo parlare più in grande che è in corso la motorizzazione di un miliardo e quattrocento milioni di cinesi e che gli Usa rifiutano ogni riduzione. Ma i blocchi del traffico nell’informazione per immagini sono benefici per la purezza dell’aria ma per l’inquietudine della gente: le auto sono davvero ferme, le strade sono davvero vuote, una certa eguaglianza fra i cittadini è ristabilita, obbediscono al divieto ricchi e poveri, ordinati e strafottenti, i vigili urbani che fermano e multano i trasgressori sono l’immagine di un’autorità restaurata e la minoranza che trasgredisce conferma la maggioranza che obbedisce.

Le autorità non sanno se l’autodistruzione del mondo è prossima o lontana e perché mai dovrebbero saperlo se lo ignorano anche gli uomini di scienza? Nei giorni di Chernobyl andai a intervistare nella sua casa di campagna sul Lago di Como un famoso professore del Politecnico; lo trovai in cerata e stivaloni di gomma contro le ceneri radioattive in arrivo dall’Ucraina, come quelli che vanno in giro con le mascherine o fumano le sigarette cori il filtro. Come; i milioni di persone che hanno creduto di salvarsi dalla mucca pazza, epidemia immaginaria, mangiando pesce al mercurio. Si è saputo che pesci pescati al Polo Sud, lontano migliaia di chilometri da ogni fonte inquinante, avevano in pancia le sostanze velenose che ormai circolano in tutti gli oceani del mondo. Ci sono alghe che di veleni industriali muoiono, pesci nobili che scompaiono come gli storioni del Po, ma ci sono anche i siluri, arrivati nel fiume al seguito di qualche nave, che raggiungono pesi e misure giganteschi. E i turisti austriaci ne vanno matti, amano la loro carne grassa.

Con i falsi rimedi le autorità costituite obbediscono al riflesso condizionato dell’ordine, non si pronunciano sull’apocalisse annunciata ma vogliono che sia disciplinata, che si vada per passi successivi, ordinati, alla camera a gas finale. Esattamente come voleva Adolf Eichmann, organizzatore dell’Olocausto.

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