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Giancarlo Consonni
I bambini e la città
5 Dicembre 2007
Recensioni e segnalazioni
Ogni tanto riemergono dal PC testi che erano stati inseriti nella vecchia edizione del sito, e che per qualche ragione erano stati smarriti. Riemerge così la recensione al libro di Elisabetta Forni, La città di Batman. La inseriamo con la presentazione originaria del 2002

La recensione di Giancarlo Consonni mi ha fatto capire che è proprio bello il libro di Elisabetta Forni, La città di Batman . Bambini, conflitti, sicurezza urbana (Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 220, € 19,00). Intanto, à bella e utile la recensione, che ci riporta ai temi intrecciati bambino (e quindi uomo) e città, spazio pubblico e democrazia, individuaismo e sopaffazione. Temi di oggi. La recensione è stata pubblicata in "Lo straniero", a. VI, nn. 26/27, agosto-settembre 2002, pp. 166-169

1. La città di Batman, appena uscito da Bollati Boringhieri, è un libro che meriterebbe di essere discusso in ogni città e in ogni quartiere. I temi che solleva e le soluzioni che indica non possono essere ignorate da amministratori, urbanisti, architetti, sociologi, psicologi e operatori del sociale. E i dibattiti e i confronti sarebbero tanto più fecondi quanto più nutriti dalla presenza attiva dei diretti interessati: bambini, genitori, cittadini. Insomma: si tratterebbe di continuare nel concreto di ciascun contesto la ricerca che Elisabetta Forni, docente di sociologia al Politecnico di Torino, ha compiuto su due aree - l’una centrale e l’altra periferica - del capoluogo piemontese.

Colpisce l’equilibrio con cui il volume è costruito: il coinvolgimento di un’ampia letteratura, l’attenzione a quanto emerge nei media, l’interpretazione sapientemente verificata e ricalibrata sull’osservazione diretta e, appunto, la capacità di ascolto dei protagonisti, i bambini in primo luogo.

Ma diciamolo subito, a scanso di equivoci: il testo non è confinabile nella saggistica sull’infanzia. Il suo orizzonte si definisce fra due polarità: i bambini e la città e indaga sulla complessa trama che li lega. Affronta la condizione dei bambini perché è l’indicatore più sensibile per misurare l’urbanità di una città, parla di città perché è il modo migliore per parlare dei bambini. Come non condividere le convinzioni da cui la Forni prende le mosse: che «una città amica dei bambini è una città nella quale starebbero meglio tutti», che «mettere gli interessi dei bambini al centro delle preoccupazioni sociali significa umanizzare l’intera società»? Siamo però disponibili a scavare nelle ragioni che, con Michel Gregoire, portano l’autrice a sostenere che «se la città non fa spazio ( place) al bambino, distrugge l’uomo di domani»? Ma, soprattutto, siamo disposti a trarne le conseguenze? Questo è un libro che non si limita all’analisi: formula proposte orientate da riscontri sul campo.

Sulla condizione del bambino oggi, l’autrice va subito a un nodo cruciale: nella metropoli dell’Occidente opulento siamo di fronte a un bambino blindato: «blindato in casa, dentro l’automobile, a scuola, in palestra o nel giardinetto recintato, guardato a vista dall’adulto, non solo per proteggerlo ma anche perché non disturbi l’“ordine morale” corrente».

Sballottato da un luogo all’altro secondo un «modello segregazionista», il bambino metropolitano è alla fine uno sconosciuto, al punto che può essere visto come «una minaccia alla sicurezza». Anche perché capita che il bambino, sottratto alla scena urbana, vi ricompaia in gruppo con vistose intemperanze adolescenziali. Le quali non vengono però colte dalla società per quello che sono: segnali a cui adolescenti e giovani ricorrono per dire «anch’io esisto». Né viene indagata la causa prima: il mancato addestramento del bambino alla relazione con l’altro e con l’ignoto, la sua impreparazione a gestire il conflitto e a comporlo in modo non violento; in ultima analisi la sua difficoltà a conoscere e a praticare i diritti e i doveri che fanno cittadinanza.

2. Un tempo questo addestramento aveva una sua palestra naturale nello spazio pubblico ed è su questo che il libro pone giustamente l’attenzione maggiore.

Da ambiti nei quali la comunità sviluppava i riti informali della socialità e del controllo sociale, la strada, la piazza e il parco negli ultimi decenni, ci avverte l’autrice, hanno visto sempre più messa in discussione la loro natura. Pubblici questi luoghi lo sono per lo più nominalmente, essendo in verità divenuti terra di conquista dei più forti. Dove l’auto ha la meglio sul pedone, il cane sul bambino, l’uso commerciale su altri usi e altri modi di stare nello spazio. La rete relazionale di cui sono state intessute le strade e le piazze è lacerata dalla tendenza a imporre nuove zonizzazioni, spesso sancite da recinti. Ma a indebolire oltremodo questa rete è la «sterilizzazione» dell’esperienza, colonizzata (e ammorbata) dal flusso veicolare, avvilita dal bombardamento pubblicitario e appiattita sulla dimensione monotematica del consumo. Si può dire che ormai lo stesso soggiornare negli spazi pubblici che esuli da motivazioni strumentali e che non aderisca al fordismo dei consumi sia fonte di sospetto.

Nel contempo, rimarca la Forni, lo spazio pubblico è sempre più descritto dai media come il luogo per antonomasia delle violenze dirette: il terreno di caccia degli individui e dei gruppi devianti. Poco importa che, soprattutto nei confronti dei bambini, la parte maggiore delle malversazioni e dei crimini venga espletata nella sfera del privato: è lo spazio pubblico ad essere indicato - in primo luogo a loro - come il territorio delle insidie e dei pericoli. Certo non mancano riscontri reali, ma una campagna martellante punta ad amplificarli a dismisura con l’obiettivo di accrescere il «panico morale», condizione per invocare e imporre la tolleranza zero.

A cambiare la natura degli spazi aperti pubblici concorre ora l’estendersi dell’installazione di telecamere: un pervasivo panopticon che ha l’effetto di sancire l’esautoramento dello sguardo collettivo e la deresponsabilizzazione di ciascuno dalla diretta, pacifica funzione di vigilanza a cui era tenuto in passato dalle relazioni comunitarie. Una simile risposta a giuste esigenze di sicurezza è tutt’altro che neutrale rispetto ai caratteri e ai modi d’uso degli spazi urbani: concorre anzi a una progressiva riduzione della complessità delle presenze per sfociare alla fine in forme più o meno palesi di militarizzazione dello spazio.

Ecco allora l’autrice rilanciare l’interrogazione sul binomio bambini/città. Un fatto caratteristico delle metropoli opulente è la progressiva limitazione dell’accesso allo spazio aperto pubblico da parte dei bambini (mentre per le metropoli del sottosviluppo quello spazio è al contrario il ricettacolo dell’abbandono). La scena urbana occidentale si è fortemente impoverita della loro presenza e questo non fa che accrescere la crisi dello spazio aperto pubblico in quanto incubatore primario di democrazia. È questo uno dei processi fondamentali attraverso cui, scrive Elisabetta Forni, la città «diventa l’altro da sé: portatore o creatore di mali reali o immaginari. Non è più un luogo da esplorare e nel quale apprendere attraverso l’esperienza, ma un mondo da cui difendersi se è il caso». Il libro ricostruisce così la spirale attraverso cui la città vede ridurre gli spazi di socialità e democraticità parallelamente alla crescita del tasso di «violenza strutturale» (i meccanismi vincenti) e di «violenza culturale» (la narrazione dei media).

Le interviste raccolte dall’autrice a Torino dimostrano come, per ragioni diverse, tanto in centro quanto in periferia ad essere comunque lacerato e residuale sia - per usare l’espressione di Franca Platania neuropsichiatra infantile - il «tessuto di fiducia» che caratterizzava e strutturava le strade e le piazze. Questa caduta delle relazioni comunitarie incide pesantemente sulle potenzialità stesse della città e dei suoi spazi aperti: la capacità «di mettere in relazione positiva identità personali, sociali ed etniche».

La sparizione dei bambini dalla strada e dalle piazze appare allora chiaro in tutta la sua portata: è un indice inequivocabile della diminuita abitabilità dei luoghi e insieme della caduta di urbanità.

Se si tiene conto che - a dispetto dell’inquinamento - i bambini intervistati esprimono ancora una predilezione a giocare negli spazi aperti, si può cogliere come sia riduttiva la liquidazione operata da diversi urbanisti e architetti circa il ruolo socializzante di tali spazi, ormai soppiantati, a loro dire, dai mall commerciali.

A parte i dubbi, avanzati dalla stessa Forni, circa le forme di socialità possibili nelle città-mercato, è comunque evidente lo squarcio che si è aperto nel paesaggio contemporaneo, privato ormai del «collante» degli spazi aperti pubblici. Lo squarcio non è che lo specchio fedele della frantumazione che ha investito il corpo sociale nell’era dell’individualismo esasperato.

Tutto questo ha appunto una ricaduta sulla democrazia. Mentre la scena televisiva si offre come teatro dell’arroganza e della dismisura, il venir meno della «progressiva appropriazione fisica dello spazio» quale «parte integrante e costitutiva della crescita infantile e della socializzazione» è fra i fattori di crisi della società e di impoverimento della politica. E i due fenomeni sono interdipendenti, se non addirittura legati da un andamento a forbice.

3. Quanto alle vie d’uscita, l’autrice prende innanzitutto posizione nel dibattito disciplinare. Si schiera a favore di «ogni azione che sovverta la logica individualistica e privatistica di benessere e di qualità della vita» e polemizza contro le posizioni che troppo frettolosamente liquidano la questione della ricostruzione di una rete locale di rapporti sociali come «ciarpame comunitario» (Saskia Sassen).

Il libro dà quindi spazio alle osservazioni dei diretti interessati e degli operatori sul campo. Di particolare interesse è quanto emerge dalle testimonianze raccolte nel quartiere di Pietra Alta. Fra i tratti distintivi di questa zona periferica viene in primo piano non tanto la mancanza di spazi pubblici e collettivi quanto piuttosto l’«invivibilità» e l’«inospitalità» di quelli esistenti. Sul fronte dei rapporti sociali è significativa la segnalazione ribadita di una «diffidenza e ostilità reciproca», oltre alla condivisa sensazione di sentirsi penalizzati dalla presenza nelle vicinanze di un campo nomadi. Tutti fatti che nell’insieme consolidano fra gli abitanti del quartiere la sensazione di essere stati abbandonati dalle istituzioni pubbliche.

Ma, significativamente, su tutto spicca una descrizione della periferia come connotata da una «desolata mancanza di animazione».

Infine le proposte. In primo luogo il ruolo assegnato alla ricostruzione di una memoria collettiva transgenerazionale. Un riferimento è il progetto «Grande Museo» attuato dalla città di Stoccolma e che ha visto la mobilitazione di molti soggetti sociali nel dare corpo a una memoria attiva. Nel corso stesso della sua ricerca, Elisabetta Forni avvia, ovviamente con ben altri mezzi ed estensione, una ricostruzione che si muove in quel solco e che arriva in taluni casi a tracciare una “biografia” dei luoghi urbani: caratteri, vissuto, rappresentazione.

Il volume allarga quindi l’orizzonte a esperienze di riqualificazione dello spazio pubblico in varie direzioni, rivisitate non senza proporne l’armonizzazione: accessibilità, diversificazione, sicurezza dei percorsi, architettura dei luoghi, sensibilizzazione della popolazione adulta e, infine, promozione di una qualificata presenza di “tutori” e animatori negli spazi pubblici a difesa della presenza dei bambini.

Insomma La città di Batman ci dice che guardare ai bambini e alla loro possibilità di essere creativamente presenti nello spazio pubblico è un modo per capire la città: il suo essere una risorsa insostituibile nella costruzione e nella preservazione della convivenza civile. E che non è più rinviabile una mobilitazione di intelligenze e di energie inventive per la sua rifondazione.

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