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Comitato “Tra Scilla e Cariddi”. Tra Scilla e Cariddi
22 Marzo 2004
Il Ponte sullo Stretto
Un articolo del Comitato “Tra Scilla e Cariddi”, dal giornale online Ora Locale, n. 22, settembre-ottobre 2000.

C'è un mito moderno, tanto assurdo quanto potente, che occupa l'immaginario di molti, non soltanto siciliani e calabresi. E' il ponte sullo Stretto di Messina. Dall'Unità d'Italia sino al dopoguerra il progetto del ponte ha rappresentato il simbolo della congiunzione materiale della Sicilia al continente. Era l'epoca dell'isolamento, della dipendenza, del sottosviluppo acuiti dalla difficoltà dei trasporti e della mobilità. Oggi, benché il divario tra il Mezzogiorno ed il Nord del Paese permanga, la questione non è più drammatica come un tempo e, soprattutto, la mobilità di persone, cose ed informazioni non costituisce più un problema. Da Napoli a Palermo, ad esempio, con le navi veloci si impiegano quattro ore: nessun mezzo via terra, anche attraverso un ponte, consentirebbe un trasporto così veloce. I moderni e mastodontici portacontainer, quelle navi che approdano a Gioia Tauro per intenderci, contengono ciascuno una quantità di merci pari a quella trasportata da mille Tir. Viviamo in un'epoca in cui il trasporto su gomma, con i suoi effetti di inquinamento e di congestione, costituisce un serio problema. Il progetto del ponte è divenuto allora obsoleto. Non conviene economicamente, finirebbe per creare nuovi problemi, e per di più è un progetto insicuro, temerario in un'area fortemente sismica e attraversata da forti venti. Nonostante ciò il mito del ponte resiste, cancella quello secolare di Scilla e Cariddi, incurante della distruzione di uno scenario paesistico noto a tutto il mondo per la sua bellezza e particolarità, cieco agli irreversibili e catastrofici danni ambientali ed ecologici che una simile opera realizzerebbe.

Perché questo mito? Il ponte oggi è simbolo della Modernità. La grande opera faraonica, di acciaio e cemento, è percepita come un monumento al Progresso. Che sia utile oppure del tutto inutile poco importa: il suo valore è simbolico e serve a rimuovere sensi di inferiorità e complessi di colpa, serve a scalzare quel fastidioso sentimento di mancanza che rode l'anima dei meridionali. E' difficile, con argomenti razionali, contrastare queste sensazioni. Eppure in esse vi è, ancora una volta, l'essenza della disgrazia del Mezzogiorno: l'incapacità di fare i conti con se stessi, di ritrovare la propria autonomia e la propria soggettività liberata dalla dipendenza da una immagine negativa che sul Mezzogiorno è stata proiettata e che i meridionali hanno incorporato. Il mito del Ponte attecchisce e diviene contagioso così come, nelle società moderne, si diffonde la sindrome dell'autoinganno, che porta a predicare certe cose ed a farne altre, del tutto opposte, che induce a dire che tutto va bene, quando invece in coscienza si sente che tutto è un disastro e siamo sull'orlo di un baratro. Su questa debolezza dello spirito speculano interessi di parte, forti interessi lobbistici chiaramente individuabili, così come - probabilmente - interessi occulti ed illegali (si legga mafiosi) che nel ponte vedono un'altra grande occasione di arricchimento privato e di rapina. Ma poco importa all'anima semplice, colpita dall'exploit faraonico.

Mille argomenti razionali sostengono l'insensatezza del progetto. La precarietà del progetto ingegneristico, che non considera i rischi del contesto geologico, i venti, la sismicità; l'insostenibilità economica nel rapporto costi-benefici; l'assenza di qualsiasi seria valutazione di impatto ambientale e sociale; la mancata considerazione di alternative multimodali più efficaci ed efficienti per l'attraversamento dello stretto; il fatto che il ponte - data l'altezza dell'impalcato prevista dal progetto - non consentirebbe il passaggio alle navi di più recente costruzione che raggiungono i 100 metri di altezza (il che vanificherebbe l'importanza del porto di Gioia Tauro); ed ancora si potrebbero elencare molte altre osservazioni ostative che studiosi ed esperti di molte università italiane ed estere hanno esplicitato. Tutto ciò però evidentemente non basta. E' vero che l'informazione - monopolizzata dalla lobby del ponte - ha oscurato questi argomenti. Occorre diffondere una contro-informazione, che faccia giustizia alla realtà dei fatti. Ma forse la presa del mito è ancora più accecante del black-out mediatico.

Dunque l'appello alla ragione ed al calcolo non basta.

Occorre rivalutare emozioni forti, richiamarsi al senso dei luoghi, ad una sensibilità e ad una estetica meridiane, prima che l'abitudine al brutto le seppellisca definitivamente. Occorre restituire dignità universale al significato emotivo che l'area dello Stretto di Messina ha avuto nei secoli, per chi qui vive e per tutti coloro - lontano da qui - che hanno vissuto questo significato nei racconti, nelle storie, in miti, che a ben vedere sono molto più realistici ed umani di quello del ponte. Possiamo cancellare, con l'exploit del ponte, la memoria iscritta nelle acque dello Stretto e farne un anonimo tratto di mare, una duplice baia - separata da un nastro trasportatore avvolto in una nuvola di benzene - su cui si rispecchierà soltanto ciò che di concreto appare dietro il mito del Progresso: un mondo di merci a rapida obsoloscenza, un mondo "usa e getta", un mondo sporco che consuma se stesso? Rifiutare il progetto non vuol dire soltanto opporsi alla distruzione di un luogo vitale, nel senso pieno ed esistenziale di questa parola. Significa prospettare, con alternative praticabili già da ora, una società meridionale sostenibile ed autosostenuta, che riconosce nei suoi luoghi e nella sua storia, nel suo carattere particolare ed al contempo denso di universalità, la risorsa per uno sviluppo altro. Significa prospettare una società che ponga al centro delle proprie energie il senso del rispetto, della misura e del limite. Una società che sia capace di coniugare ragione ed emozione.

Su queste riflessioni, nel 1987, si formò il comitato "Tra Scilla e Cariddi". L'iniziativa venne da singoli intellettuali, tra cui Alberto Ziparo e Osvaldo Pieroni, da associazioni ambientaliste come Legambiente, con Lidia Liotta, e il WWF, con Beatrice Barillaro, dall'allora Rifondazione Comunista, con Rosa Tavella e Michelangelo Tripodi, dai Verdi e da altre associazioni come il CRIC, con Piero Polimeni, Torre di Babele, ecc. Anche Ora locale aderì al comitato. L'appello alle Nazioni Unite per la salvaguardia dell'area dello Stretto, quale patrimonio naturale e culturale dell'umanità, costituì una sorta di manifesto contro il progetto del ponte, che venne sottoscritto da centinaia di intellettuali, associazioni, esponenti politici, cittadini. Tra coloro che sottoscrissero figurano i nomi di Serge Latouche, di Dario Fo, di Citto Maselli e di decine di docenti universitari.

Il libro di Osvaldo Pieroni, cui gli interventi presentati in questo numero si riferiscono, deriva dalla esperienza del comitato "Tra Scilla e Cariddi". Da qui il titolo. In esso viene ripercorsa la storia del progetto del ponte e vengono esposte le ragioni della opposizione. Il libro è però anche una storia d'amore, di un rapporto esistenziale con la terra di Calabria e con lo Stretto, in cui personale e politico si fondono. La vicenda del ponte è poi occasione per una riflessione di più ampio respiro sulla storia e sulle prospettive del Mezzogiorno, in particolare della Calabria. A questo libro farà tra breve seguito un saggio collettivo, curato da Alberto Ziparo e Virginio Bettini, con il contributo di studiosi di sette università italiane, che costituisce una vera e propria valutazione di impatto ambientale e sociale del progetto del ponte e ne mostra - dallo stesso punto di vista della scienza e della tecnica - l'insostenibilità. Sia nel caso del libro di Pieroni, che in quest'ultimo si vedrà che parlare del ponte sullo Stretto ed impegnarsi in una battaglia affinché il progetto venga accantonato vuol dire oggi riflettere su chi siamo e gettare le basi per il futuro non soltanto della Calabria e del Mezzogiorno d'Italia, ma dell'intera area mediterranea.

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