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Luigi Parpagliolo
Intorno alla legge in difesa delle bellezze naturali e del paesaggio (1931)
5 Giugno 2008
Paesaggio (e territorio, e ambiente)
In una relazione al comitato Touring sulla riforma della legge originaria di tutela del 1922, il direttore generale per le Belle Arti indica la chiave per una moderna protezione del paesaggio: il piano regolatore urbanistico. Da Le Vie d'Italia, febbraio 1931 (f.b.)

Mi sono assunto il compito di riferire, in questo Convegno, sulla legge in difesa delle bellezze naturali, che è in vigore da più di otto anni -e la cui applicazione mi è stata affidata per ragioni di ufficio. Voi ne conoscete le disposizioni, che sono ben poche in verità: tuttavia ho bisogno di richiamare alla vostra memoria - e ciò per chiarire quel che sto per esporre - l’articolo lo nella sua completa formulazione:

“Sono dichiarate soggette a particolare protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale e della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche”.

Si venne così a stabilire una netta distinzione fra le cose immobili, che hanno un’entità propria ben definita, e quindi identificabili nei loro particolari, e le bellezze panoramiche, o meglio il paesaggio, che sfugge ad una precisa identificazione e quindi mal si presta ad essere raggiunto dalla stessa norma legislativa, quanto meno dalla stessa norma legislativa dettata per le cose facilmente individuabili nei loro confini e nelle loro caratteristiche.

Se non si tien bene in mente questa sostanziale distinzione, non si può comprendere l’economia di tutta la legge e non si possono neppure comprendere le difficoltà - non poche e non lievi - che s’incontrano nella sua applicazione. Giacché è per le cose immobili aventi i caratteri voluti dal primo comma dell’articolo l°, e cioè per le bellezze naturali propriamente dette, che la legge impone le notificazioni, che devono essere trascritte agli uffici ipotecari affinché i terzi ne abbiano conoscenza; e quindi tutti, a cominciare dal proprietario, devono sapere che quel tale immobile è sottoposto alla tutela, che chiameremo artistica, per intenderci - mentre per tutelare le bellezze panoramiche essa non concede che un intervento volta per volta, caso per caso, quando nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori (non si parla di piani di ampliamento) possono danneggiare l’aspetto e lo stato di pieno godimento del paesaggio. Non è facile identificare gl’immobili che hanno carattere di bellezze naturali. L’Italia ha una superficie di 313 mila chilometri quadrati; e per la sua conformazione, principalmente montuosa; per le sue lunghe riviere sulle quali digradano ultime propaggini appenniniche, aspri promontori e verdi colline, spesso tagliate da valli e da burroni profondi; per la sua antichissima storia che ha impresso in ogni angolo, su ogni pietra, su ogni zolla la poesia dei ricordi, è ricca, come nessun altro paese di Europa, di singolarissimi aspetti, di curiosità geologiche, di cose interessantissime, poste in siti spesso remoti, viventi di una vita propria, concluse in confini determinati, che permettono di apprenderle in uno sguardo, di descriverle con pochi tratti, di misurarle talvolta.

La loro dovizia è tale che sgomenta chi ha il compito di difenderle dalle insidie degli uomini. Tuttavia in otto anni, e precisamente sino al 31 dicembre ultimo, abbiamo fatto 4662 notificazioni di notevole interesse pubblico, vincolando 728 immobili. Un altro centinaio è in corso; e si attende che siano restituite dai podestà o dagli uffici delle ipoteche. Non sono molte ma quando ci si renda conto delle difficoltà da superare, specialmente nella ricerca dei confini e dei numeri catastali di ciascun immobile, e degli scarsi mezzi posti a disposizione dell’ufficio, si dovrà riconoscere che del lavoro se n’è fatto, Si pensi anche che ogni notificazione dà diritto al privato di ricorrere contro di essa al Governo del Re, che i ricorsi sono stati e sono moltissimi, e che per accoglierli o respingerli è necessario sentire il Consiglio Superiore delle Belle Arti e il Consiglio di Stato. Il che impone una vigile attività amministrativa.

Gl’immobili notificati non possono essere modificati senza il consenso del Ministero; e quindi per ogni lavoro, che su di essi si voglia fare, è necessario inviare il relativo progetto al Ministero medesimo che lo fa esaminare dal Consiglio Superiore delle Belle Arti. Ed è qui, su questo punto, anzi in questo momento, per dirla con un’antipatica frase burocratica, è in questo momento della pratica, che si determina il più vivo contrasto fra gli interessi pubblici e quelli privati. Mi permetterete di non scendere a particolari, anche per non essere troppo prolisso. Dirò solo quali sono le deficienze della legge, che in codesto contrasto dovrebbe dar man forte al Ministero e invece lo lascia inerme e indifeso. In due modi si può determinare il contrasto: modificando l’immobile notificato senza chiedere il consenso del Ministero o chiedendo il consenso per poi infischiarsene e fare il proprio comodo. Si modifica l’immobile, vanandone o distruggendone i caratteri essenziali che lo rendono di pubblico interesse, il che può farsi in mille modi facilmente immaginabili e si disubbidisce al Ministero, eseguendo integralmente quei progetti di lavori che, presentati all’ufficio per il suo esame e consenso, sono stati respinti o limitati.

Inquesti casi che può fare il Ministero? Può denunziare il contravventore all’autorità giudiziaria perchè sia punito con l’ammenda da L.300 a L.1000! (quando una benigna amnistia non lo abbia in precedenza lavato d’ogni colpa). Una pena, come vedete, ridicola: una specie di spaventa-passeri, che non preoccupa nessuno.

Si può, oltre questo, secondo l’articolo 6, ordinare la demolizione delle opere abusivamente eseguite; ma quali opere? Le costruzioni evidentemente, le opere, cioè, che si sovrappongono all’immobile e lo disarmonizzano. Ma non sono sempre le costruzioni che offendono un immobile dichiarato bellezza naturale; si può offenderlo aprendo nel suo seno una cava di pietra, una cava di pozzolana, di trachite, aprendo delle trincee, abbattendo degli alberi, spesso potandoli cosi eccessivamente da provocarne la morte si può offenderlo, insomma, in tanti e tanti altri modi consimili.

Mi sono prefisso di tenermi sulle generali, di non fare nomi né di località né di persone: ma sappiate che sotto le mie parole ci sono i fatti. Ora, di questi deplorevoli casi noi siamo costretti a constatare il danno e fare, se mai, delle vane proteste; poiché la legge non ci dà; il diritto di obbligare il proprietario dell’immobile a rimettere tutto in pristino, o, non potendosi più far questo, imporgli almeno di pagare una indennità equivalente al danno. Ci resta sempre, è vero, quella famosa ammenda da L.300 a L.1000; ma io ho il buon gusto di non provocarla mai ... È qui opportuno osservare che la legge parla di contravventori e di ammenda: il che vuol significare che le violazioni alle disposizioni di essa sono considerate contravvenzioni. Errore grave, contro il quale la Direzione Generale delle belle arti si è battuta invano: quando, come avvenne delle offese alle bellezze naturali, la volontà di frodare la legge è manifesta, ed è evidente la lesione del diritto pubblico, sono chiari ed inequivocabili gli estremi di un vero delitto, la cui sanzione non può certamente essere l’ammenda.

La difesa poi del paesaggio. la quale non è e neppure assistita da questa mite pena contravvenzionale, è tutta imperniata nell’art. 4 della legge: in virtù di questo articolo, il Mi nistero, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori può prescrivere distanze, misure ed altre norme, necessarie perchè le nuove opere non danneggino l’aspetto e il pieno godimento delle bellezze panoramiche. Or nessun mezzo preventivo ha il Ministero per far giungere a tempo la sua azione tutelativa: esso deve attendere che gli sia indicata la nuova opera. Ma spesso quest’opera è così avanzata che le provvidenze da prendere (distanze, misure, altezze, ecc.) si trovano di fronte ad uno stato di fatto che ha già compromesso la vista del paesaggio. Ciò accade perchè, non vigendo per la difesa delle scene panoramiche il sistema delle notificazioni, il privato ignora o finge di ignorare che la sua opera, iniziata o che sta per iniziare, offende qualcosa che interessa il pubblico godimento anzi, egli ignora che quel luogo su cui egli svolge la propria attività è un luogo degno di essere protetto per la sua bellezza paesistica. Né è possibile immaginare che si possa adottare il sistema delle notificazioni poiché il paesaggio è una parte di territorio, i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco o estetico a causa delle disposizioni e delle linee, delle forme e dei colori, e nel suo insieme è costituito da migliaia di particelle (immobili) appartenenti ad altrettanti proprietari. Di guisa che l’ufficio si trova quasi sempre in grande imbarazzo. I casi in cui il suo intervento raggiunge la nuova opera allo stato di progetto sono rari mentre sono frequenti i casi in cui l’opera è già iniziata, quando non è quasi per metà compiuta. E allora non abbiamo altra risorsa che di far sospendere i lavori e chiedere il progetto, perchè sia esaminato dai nostri corpi tecnici. E di sospensioni, infatti siamo costretti ad ordinarne parecchie. Che cosa accade dopo, lo lascio immaginare a voi: raccomandazioni, proteste, aggiramenti, minacce di suicidi ... Certo il danno di un tale procedimento non è da negarsi: e potete credermi se vi dico che il primo a dolersene sono io. Ma quale altro è possibile? Abbiamo pensato a varii espedienti : per alcuni luoghi di maggiore responsabilità sono stati pregati gli uffici periferici di raccoglierne i nomi dei proprietari, i confini, i numeri catastali degli immobili compresi in una scena panoramica: naturalmente centinaia, ed abbiamo proceduto a centinaia di notificazioni. Esempio, la nuova via Manzoni a Napoli, la quale si svolge dal Corso Vittorio Emanuele lungo la cresta della collina di Posillipo e scopre a destra i Campi Flegrei, a sinistra Napoli ed il Vesuvio con Torre del Greco, Resina, Pompei, Castellammare, Sorrento, e, dietro la Punta Campanella, Capri: un paesaggio ammirabile di cui forse uno più bello, e direi più spirituale per i grandi ricordi storici che racchiude, non esiste al mondo. La speculazione aveva già cominciato a deturparlo in vari punti, ed era necessario correre alla difesa. Qualcuno venne a dirmi che con tutte quelle notificazioni avrei fatto insorgere Napoli, ma la insurrezione non scoppiò - e le costruzioni su quella incantevole via sono regolate dalla Sovrintendenza. Potrei parlarvi di altri luoghi in cui abbiamo all’Arte Medioevale e Moderna della Campania adoperato lo stesso sistema. Ma voi comprenderete che esso è faticosissimo; che non può ad esempio, essere applicato alla Riviera Ligure, ai territori in mezzo ai quali splendono come gemme i laghi Maggiore, di Como, del Garda Ed allora, abbiamo escogitato un altro espediente: l’emanazione di decreti ministeriali, decreti in forma di dichiarazioni, che potrei qualificare moniti, avvertimenti, da tenersi affissi per sei mesi all’albo pretorio dei Comuni interessati. Permettetemi di leggervi uno;di questi decreti: quello emanato per salvare Capri dalle frequenti deformazioni delle singolarissime caratteristiche del paesaggio caprese: “Considerato che il territorio dell’isola di Capri, famosa nel mondo per la bellezza del suo paesaggio, è tutto sottoposto alla legge 11 giugno 1922 n. 778, e che urge provvedere, affinché le scene panoramiche, che ivi sono universalmente ammirate, non siano ostruite o in qualunque modo offese da opere non in armonia coi luoghi o in assoluto contrasto col godimento di essi;

“visto l’art. 4 della legge anzidetta, che dà al Ministero della pubblica istruzione nei casi di nuove costruzioni e ricostruzioni le facoltà, ecc..;

“atteso che è fermo proposito del Ministero medesimo di servirsi nel modo più rigoroso delle facoltà: di cui sopra, affinché la tradizionale bellezza di Capri non sia ulteriormente manomessa; e d’altra parte è interesse degli abitanti dell’isola che di tale proposito siano pubblicamente informati, affinché la provvida e legittima azione governativa non sia da essi prevenuta con opere che, per essere eseguite in dispregio della legge, dovrebbero essere abbattute;

“Il Ministero della P. I. notifica:

“Art. 1 - Nel territorio dell’Isola di Capri non si possono sopraelevare muri; innalzare cancelli, piantare cortine di alberi, fare sbarramenti di roccia e sterri, o compiere qualunque altra opera che ostruisca, modifichi o deteriori in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che ivi si godono.

“Nello stesso territorio non si può eseguire nessuna costruzione, né modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna della Campania, alla quale dovranno essere presentati i relativi progetti.

“Art. 2 - La presente notificazione sarà a cura di S. E. l’Alto Commissario della Provincia di Napoli pubblicata all’albo pretorio del Comune di Capri per un tempo non minore di sei mesi”.

Un decreto consimile fu emanato anche per Taormina, celebre meta turistica internazionale e già deformata da grandi alberghi, alcuni di uno stile arabo normanno che fa paura, e azzannata in punti delicatissimi da ben sette cave di pietra che la stavano divorando. L’efficacia di questi due decreti io ho modo di constatare giorno per giorno; ed avrem mo intenzione di ripeterli per altri luoghi anche di maggiore estensione.

Non credo però che questo espediente, suggeritomi dalla necessità di difendere, in difetto di più efficaci disposizioni legislative; alcuni punti di grande sensibilità paesistica, possa essere applicato ai grandi agglomeramenti di abitanti, alle città, quali Genova, per esempio, o Napoli, o Milano, a quelle che sono in continuo accrescimento, costrette a sbandare fuori delle antiche cerchie e invadere i dintorni. La rete degli interessi è più fitta lì che altrove, le esigenze della vita, e della vita moderna, sono più imperiose, e tutte raggiunte dai tentacoli della speculazione; della quale anzi non è possibile fare a meno. Mentre in questi luoghi, fra questo coacervo di bisogni, di desideri, di avidità, che di giorno in giorno si ingrossa sempre di più e preme da tutte le parti, e dire che qui non si possono compiere opere che ostruiscano, modifichino e deteriorino in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che vi si godono, né eseguire costruzioni nuove, o modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione del Ministero, significherebbe mettere in pericolo quell’azione di tutela paesistica che ci sta a cuore e per il cui maggiore sviluppo siamo qui riuniti. D’altra parte, stare in sull’attenti in perpetuo, per avvistare il caso in cui sia obbligatorio il nostro intervento, è cosa, come potete comprendere, angosciosa, spesso non utile, sempre piena di sorprese e d’inquietudini. Si vuole costruire, mettiamo, lungo un lido su cui digradano verdi colline: località panoramica di primo ordine, degna della più alta speculazione, in una città ricca ma stretta fra il mare e il monte, e in continuo lievito di accrescimento. Si allestisce alla chetichella un sommario piano di ampliamento, si dimenticano i necessari accertamenti di legge, si trascura di avvertire i Ministeri interessati; ed ecco già creato sotterraneamente un trust di sfruttamento delle aree. I primi sbancamenti di antiche ville cominciano, si allivellano poggetti deliziosi, sorgono i primi casoni come per incanto. Chiediamo il piano di avviamento: non c’è. Preghiamo che si faccia subito: non si risponde. Insistiamo: si mena il can per l’aia. Intanto, le costruzioni avvampano. Ne sospendiamo alcune. E comincia la tragedia. Perché sospendete? Perché vogliamo vedere il progetto di costruzione, prestabilire le misure, le distanze, le altezze (art. 4). - Ma il progetto è stato approvato dalla Commissione Edilizia! - Non basta: la legge di tutela del paesaggio è indipendente dalle decisioni dei Comuni. - Ma insomma che cosa volete? -Vogliamo che su questo punto non si costruisca, che su questo altro l’edificio occupi una superficie minore, o non superi i due piani. - Ma questo è impossibile: abbiamo pagato l’area a 500 lire il metro quadrato! - Ma ciò non ci riguarda. Non vi riguarda? Espropriateci, pagateci il prezzo dell’area e fate quel che vi aggrada. - Lo Stato non ha questi obblighi: l’imposizione di una servitù di diritto pubblico non comporta indennizzi. - Ma questa servitù la imponete proprio ora? Se io l’avessi preveduta non avrei acquistato, o avrei acquistato a prezzo minore. - E allora? allora, egregi signori, ci si trova impigliati in una serie di compromessi, di transazioni, di mezze misure, che non risolvono nulla, quando non aggravano le condizioni di ambiente. In tutti i casi il beneficio della legge è frustrato, se non in tutto, almeno in parte; e il prestigio dell’autorità è in iscacco.

Quale il rimedio a questo stato di cose così penoso? Poiché, come abbiamo visto, non è possibile adottare il sistema preventivo delle notificazioni, né quello dei decreti uso Taormina e Capri, sembra che unico, previsto dalle nostre leggi, sia il sistema dei piani regolatori e di ampliamento, studiati seriamente prima che un decreto reale li renda esecutivi.

Ed eccoci giunti casi al punto centrale di questa mia non lieta disamina.

Non è qui il caso di dire quale sia l’importanza di un piano regolatore dal lato della viabilità, dell’igiene, dell’estetica e anche dell’educazione cittadina. Sono cose note, e nelle quali voi tutti qui presenti siete maestri. E neppure credo di dovervi rassegnare le disposizioni di legge che lo riguardano, e le discussioni cui esse han dato e danno argomento nella dottrina giuridica, specialmente in occasione della divisata riforma di espropriazione per pubblica utilità. Penso che nessuno di voi creda ancora che un piano regolatore debba consistere unicamente nel “tracciare delle linee (leggo la definizione che ne dà la legge del 1865) da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato dove occorreva rimediare alle viziose disposizioni degli edifici”. Molta acqua è passata da allora sotto i ponti, troppi bisogni son nati, troppe esigenze, allora neppur sospettate, oggi premono imperiosamente: e l’edilizia pubblica, allora semplicista e di origine prettamente francese, è ora una scienza che ha trovato e trova quotidianamente nelle antiche città italiane materia di studio e di originale applicazione. Al tempo in cui fu approvata la legge sulle espropriazioni per pubblica utilità, due bisogni cittadini preoccupavano i governanti: quello della salubrità e quello del traffico; e l’art. 86 di quella legge lo dice chiaramente. A provvedere a questi due bisogni doveva tendere il piano regolatore. Il quale, perciò, nella pratica, si riduceva a un piano di allineamento, e quindi a un tracciamento di linee a qualunque costo pur di raggiungere quei due intenti. E dati questi principi non è da meravigliarsi che in un vecchio piano regolatore di Roma, a furia di tracciare linee, gl’ingegneri incaricati non si fossero accorti che buttavano giù la bella chiesa del Priorato di Malta sull’Aventino.

Ora, nonostante che la legge sia la medesima, si va più cauti, o almeno ci si sente avvolti in un’atmosfera in cui giungono, senza bisogno di radio, preoccupazioni e moniti, proteste e consigli, che rendono pensosa quella beata innocenza, per cui un piano regolatore si riduceva al famoso segno di matita colorata. Non fu ascoltato quindici anni or sono Gabriele D’Annunzio, che insorse per difendere Bologna, “minacciata di sacrilegio da uomini mercantili ben più aspri di quelli che frequentavano la bellissima loggia vicina”, ma oggi, che una pericolosa irrequietezza edile ha invaso le amministrazioni delle città italiane, non è più possibile non comprendere l’alto significato di queste parole di Marcello Piacentini, dell’ architetto che più lavora in Italia, da Messina a Brescia, e al quale certo non si può negare esperienza e modernità: “Le nostre cento città sono dei valori come non esistono altri, ricchezze cui nessun’altra può paragonarsi. Sono la nostra storia ed il nostro orgoglio. Sono la immagine esatta della nostra razza o dei nostri ideali. Attraverso ad esse il mondo apprende la nostra civiltà. In esse riconosciamo noi stessi e la varia e molteplice espressione dei nostri temperamenti regionali. Come le fisionomie dei membri di una stessa famiglia, esse si compongono in un atteggiamento di reciproco affetto e di mutua comprensione. Ebbene, questo tesoro unico ed inestimabile dev’essere da noi gelosamente conservato. Quante cure non abbiamo per minuti oggetti: per pianete o reliquie celate nelle sagrestie delle chiese, per quadri che custodiamo riverenti nelle gallerie, mentre le città sono molto spesso abbandonate a sé stesse, facile preda di faccendieri e d’incompetenti reggitori! Prenda maggiormente il Governo sotto le sue cure speciali le città italiane: esse costituiscono la più bella ricchezza nazionale. Esse sono, tutte insieme, la Patria. E la civiltà fascista deve salvarne il passato e curarne lo sviluppo avvenire”.

Salvare il passato e curare lo sviluppo avvenire: parole d’oro che dovrebbero essere epigrafe di ogni piano regolatore. Ma salvare il passato non significa per noi perpetuare nei fetidi vicoli oscuri il drappeggio dei cenci alle finestre; e quando dei troppo corrivi demolitori, in mancanza di argomenti, e credendo di fare effetto sugl’ingenui, lanciano contro di noi la stupida accusa di misoneisti, amanti della vecchia sporcizia, abbiamo ben ragione di protestare. Salvare il passato significa ben altro per noi: significa non distruggere, senza una inderogabile assoluta necessità, gli edifici che l’antichità ci ha tramandati intatti, e soprattutto non disambientarli, perchè allora tanto varrebbe distruggerli; ed in quanto a curare lo sviluppo avvenire delle città non significa irrompere fuori le mura per lottizzare ville monumentali, abbattere pinete, sbancare colline; poiché questo non è sviluppo, è devastazione.

Da ciò la necessità, riconosciuta universalmente, e del resto dalla nostra legislazione prevista, di sentire sui piani regolatori i pareri, non solo dei corpi tecnici superiori, ma anche del Consiglio Superiore delle Belle Arti che è, in materia d’arte, un corpo tecnico anch’esso. Donde la conseguenza che nessun piano regolatore possa dirsi approvato senza che il parere di tale Consiglio sia stato sentito. Non sono cose peregrine queste ch’io dico, lo so, ma sono necessarie, perchè io pervenga, su questo punto, a una conclusione, che è frutto di lunga esperienza.

La procedura per giungere all’approvazione di un piano regolatore è quanto mai complicata; e appunto perchè cosi complicata, invece di dare la massima garanzia nell’esame di tutte le questioni tecniche, sanitarie, economiche, artistiche, monumentali; riduce spesso cotesto esame a una parvenza formale senza sostanza. Si crede, in buona fede, che tutto sia esaminato, discusso approfondito, sulla base del piano già studiato dall’ufficio tecnico del Comune; ma in realtà non ostante i pareri dei corpi superiori consultivi, è sempre questo che prevale nelle linee-base originarie. E non può essere diversamente.

Gli organi, attraverso cui passa un piano regolatore, sono: il Genio Civile ed il Consiglio Superiore dei Lavori pubblici per la parte tecnica; la Giunta provinciale amministrativa, il Ministero dell’Interno e il Consiglio di Stato per la parte giuridica e amministrativa; la Commissione provinciale sanitaria per gli aspetti igienici; la Soprintendenza ai Monumenti e il Consiglio Superiore delle Belle Arti nei riguardi artistici. “Bisognerebbe - disse S. E. il Ministro dei LL. PP. recentemente - che non funzionassero tutti questi congegni o ci fosse il partito preso di voler dichiarare guerra ad oltranza al passato e di voler alzare i gagliardetti dell’avvenire più o meno futuristico, per non sentire sufficientemente tutelato il patrimonio artistico e storico della Nazione”. Ebbene, Signori, io non dico che non funzionino codesti congegni: funzionano certamente, ma spesse volte come tante ruote che girano a vuoto. E i primi a dolersene sono gli eminenti uomini chiamati a cotali funzioni. Quali le cause? Non le cause, ma la causa: è una sola. Essa consiste nel fatto che tanti elevati corpi tecnici sono chiamati ad esaminare delle carte non delle cose; a esaminare, uno dopo l’altro, dei bei tracciati sulla carta, tenendo per guida la relazione dell’ufficio compilatore del piano, non a giudicare di questo sulla faccia dei luoghi. Sono rari i casi in cui un corpo tecnico superiore si sposta per un esame di questo genere; ma quand’anche i casi fossero frequentissimi, il risultato è sempre infelice. Poiché non una breve visita dei luoghi può dare la visione esatta delle conseguenze di un piano regolatore; e d’altra parte se la visita dovrà prolungarsi per tanto tempo quanto è necessario per uno studio particolareggiato del piano stesso, le difficoltà della lunga permanenza di un corpo tecnico superiore in una città diversa dalla propria sede diventano insormontabili.

Sono argomenti, lo so, terra terra; ma purtroppo certi fatti, che ci sembrano inesplicabili, hanno appunto queste umili cause. Ma ce n’è una meno umile: ed è la mancanza di un esame totalitario ed unitario di tutte le questioni edilizie, che si connettono a un piano regolatore, esame da farsi in un sol tempo e in contradizione con tutti gli interessi di un giuoco. Mettere in discussione il lavoro di un ufficio, che è costato mesi e mesi di fatiche, metterlo in discussione a gradi, sottoponendolo ora ad un corpo tecnico, ora ad un altro, è la cosa più illogica e inconcludente. Illogica, perchè ogni corpo tecnico, che voglia fare sul serio, deve rifare alla sua volta lo studio integrale del piano, e quindi vi porterà in aggiunta i propri criteri che spesso non si armonizzano coi criteri dell’altro corpo tecnico che lo esaminerà dopo; inconcludente, perchè, a voler far bene, sarebbe necessario sviluppare codesti criteri, spesso contraddittori, sulla carta a correzione del piano in esame, apportando così una complicazione tale che, per evitarla, si cercano tutti i mezzi per eluderla.

Questo c’insegna la pratica: e questo ho voluto dire, per giungere alla conseguenza che, sino a quando l’esame dei piani regolatori non sarà fatto da un corpo tecnico unico, in cui siano rappresentati tutti gl’interessi da tutelare, l’interesse economico, monumentale, paesistico, di viabilità, d’igiene - posti questi interessi sulla stessa base d’importanza - si avranno sempre a deplorare inconvenienti, tanto più gravi in quanto, dopo la approvazione del piano, sono irrimediabili. Si chiede, insomma, quel che il Capo del Governo volle per Roma. Vero è che nulla vieta ai Podestà di nominare delle Commissioni speciali, come quella di Roma, per l’esame dei piani regolatori delle rispettive città; ma, a prescindere che esse, di natura discrezionale del podestà, non evitano l’esame dei corpi superiori tecnici, di cui abbiamo discorso, nessuno vorrà negarmi che codeste Commissioni, se fossero prestabilite per legge, avrebbero ben altra autorità e sarebbero assai meglio costituite e più rispondenti ai varii interessi in giuoco. Sono convinto che, presto o tardi, si dovrà giungere a ciò.

Ma intanto l’Ufficio che ha, come quello a me affidato, la grave incombenza di applicare la legge in difesa del paesaggio italiano, non può non preoccuparsi di questo stato di cose in fatto di piani regolatori. Esso si trova spesso di fronte a precostituite posizioni di diritto, che non è possibile smontare. Una di queste posizioni formidabili è, come ho già detto, la presa di possesso delle aree. Si ha un bel dire: applicate rigorosamente la legge, e fate che un edificio, destinato a essere di cinque o sei piani per compensare il prezzo elevatissimo dell’area, sia ridotto a due, oppure che là dove erano stabilite costruzioni intensive sorgano invece dei villini, o non venga costruito affatto. Le opposizioni, fondate su uno stato di diritto qual’è quello che nasce da un piano regolatore approvato, sono assai più gravi di quel che non si pensi. E poiché è innegabile in esse un certo contenuto di moralità e di economia sociale, è assai difficile far prevalere la nostra azione fondata su d’un principio di estetica. Io mi sto studiando di evitare queste opposizioni o di ridurle al minimo, facendo studiare, là dove ancora è possibile, dei piani regolatori paesistici, nei quali siano già preventivate (mi si perdoni questa parola prettamente commerciale) le provvidenze in favore delle bellezze panoramiche della città. Un primo tentativo stiamo facendo a Genova, dove sono stati inviati dalla Direzione Generale delle Belle Arti due giovani architetti, che lavorano a tale scopo d’accordo col Comune e sotto la direzione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna del Piemonte e della Liguria. Siamo in viva attesa. Ma intanto mi giungono voci di contrasti derivanti dal regolamento edilizio. Anche questa del regolamenti edilizi è questione grave che sarei tentato di trattare dinanzi a Voi. Ma il discorso sarebbe troppo lungo; ed ho già la sensazione di avervi stancati. Sarà piuttosto opportuno toccare brevemente qualche altro punto assai delicato della difesa del paesaggio; e poi chiedervi venia. Esso sta nella mancanza di coesione fra le varie Amministrazioni dello Stato, in tal guisa che spesso una agisce in senso contradittorio all’altra, punto sospettando il danno che ne deriva all’interesse pubblico. Ne abbiamo dato da tempo l’allarme, insistendo in vario modo sul fatto che i maggiori pregiudizi nei riguardi della conservazione delle bellezze naturali si sono verificati e si verificheranno, assai più che per il capriccio e l’avidità di lucro dei privati, per la esecuzione di grandiose opere pubbliche progettate e concretate con la sola preoccupazione del punto di vista tecnico ed economico, e trascurando completamente le esigenze della bellezza del paesaggio. Alludo non soltanto alle opere di spettanza diretta dello Stato o di altri enti pubblici (quali, ad esempio, le strade ordinarie, le bonifiche, le sistemazioni dei bacini montani, ecc. ecc.) ma altresì quelle lasciate alla iniziativa di persone o di enti previsti, ma sottoposte per il loro grande interesse politico-sociale a concessione o ad autorizzazione amministrativa (si pensi soprattutto alla materia delle concessioni di acque pubbliche e di aree demaniali). Pure qualcosa la nostra insistenza ha ottenuto: ed è da mettere all’attivo nel bilancio di questi otto anni in cui la legge paesistica è in vigore.

Avveniva, infatti, che nelle concessioni di aree demaniali, i Comandanti delle Direzioni Marittime e delle Capitanerie di Porto permettessero il sorgere sulle spiagge di troppi stabilimenti balneari di cemento armato, di caffè, di Kursaal, che ingombravano sconciamente bellissime passeggiate littoranee e ostruivano la vista del mare. Ebbene abbiamo ottenuto da S. E. il Ministro Ciano una circolare del 10 agosto 1927 che impone di chiedere il parere delle Sovrintendenze ai monumenti nei casi di concessioni di aree demaniali per costruzioni di carattere stabile. Contiene codesta circolare limitazioni e condizioni, che potevano essere trascurate; ma ad ogni modo è sempre qualcosa che avvicina a quella collaborazione delle Amministrazioni interessate, che fu sempre nei nostri voti. Una simile circolare ottenemmo da S. E. Giuriati, già Ministro dei Lavori Pubblici, a proposito delle derivazioni d’acque in rapporto specialmente agl’impianti idro-elettrici. Varrebbe la pena di leggerla, ma non è breve. Dico soltanto che è diretta ai Provveditori alle opere pubbliche, agli Ingegneri capo del Genio Civile, a S. E. l’Alto Commissario per la città di Napoli e provincia, e per conoscenza al Presidente del Magistrato delle acque e all’Ispettore per la Maremma Toscana. Si dispone con essa che nelle ordinanze per l’istruttoria di domande di derivazioni di acque pubbliche sia, di regola, inserito l’inciso che l’ordinanza debba essere comunicata in copia alla locale Soprintendenza ai monumenti, affinché questa, conosciute le caratteristiche essenziali dei progetti e la data per le visite locali, possa, ove lo creda, prendere visioni degli atti depositati e intervenire agli accertamenti sopraluogo. Come vedete, siamo ben lontani dal giorno in cui la nostra azione era considerata con diffidenza e tale da evitarsi in tutti i modi. Non abbiamo potuto ancora ottenere nulla di simile dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste; ma credo che già ci siamo vicini. Intanto la Milizia Forestale non ci ostacola, anzi devo dire che in molti casi ci ha favoriti dimostrando di comprenderci. Si tratta ora di giungere ad una piena cooperazione. Ed io non dispero di giungervi.

Non ho bisogno d’intrattenermi su questi due punti importanti della tutela paesistica: acque e boschi; poiché persone più competenti di me hanno assunto l’impegno di portare in questo convegno il prezioso contributo della loro esperienza. Dico solo che negli ultimi cinque anni lo sfruttamento intensivo del nostro paesaggio ci ha molto preoccupati.

[...]

E qui fo punto - chiedendovi scusa se troppo ho abusato della vostra pazienza. Sarei ben felice - e certamente voi con me - se da questo Convegno fossero per derivare delle pratiche utilità. Le discussioni serene e amichevoli, animate dal solo spirito di bene, sono le sole, che possano condurre a ciò.

Ordine del giorno votato all’unanimità in seguito alla discussione della relazione Parpagliolo:

Il Comitato Nazionale per la difesa dei monumenti e del paesaggio, riunito dal Touring Club nella sua sede il 1° febbraio 1931, fa voti che la legge 11 giugno 1922 N. 778 sia resa più rispondente all’altissimo fine della protezione della singolare bellezza paesistica d’Italia, e quindi modificata in quelle disposizioni che durante gli otto anni in cui è in vigore; si sono manifestate inefficaci”.

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