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Vittorio Emiliani
Se Brera diventa privata
20 Agosto 2012
Beni culturali
La trasformazione in Fondazione della pinacoteca milanese è un passaggio pericoloso su cui il mondo culturale dovrebbe aprire almeno una discussione. L’Unità, 20 agosto 2012 (m.p.g.)

Anni fa per Ferragosto impazzava la speculazione di Borse più folle. Oggi il governo dei “tecnici” nella pancia del Decreto Salvaitalia decide di varare la privatizzazione di uno dei maggiori Musei italiani – la Pinacoteca statale di Brera – aprendo con essa le porte alla privatizzazione proposta da Giuliano Urbani ministro berlusconiano e contro cui insorsero i direttori di tutti i maggiori musei del mondo. Nel torrido agosto 2012 quasi nessuno commenta la clamorosa notizia. Non c’è un ex ministro, un ex sottosegretario, un responsabile culturale di qualche partito importante, nessuna associazione (temo) che alzi un grido di allarme e di dolore. O almeno un vagito.

Che il ministro per i Beni culturali, il Magnifico Ornaghi, fosse persino più latitante del mellifluo Bondi lo sapevamo. Ma che lasciasse al più potente collega Corrado Passera il compito di dare il via alla maxi-privatizzazione tutta “politica” di Brera non era prevedibile. Fra l’altro il disegno di legge (al cui articolo 8 si prevede la privatizzazione di Brera) è stato “concertato” da Monti coi ministri dell’Economia, dello Sviluppo economico, della Giustizia, delle Politiche agricole, della Cooperazione e del Turismo, assente il solo Ornaghi (forse l’hanno lasciato dormire…).

Si crea infatti la “Fondazione la Grande Brera” col compito di “valorizzare” e gestire “secondo criteri di efficienza economica” il museo creato da Napoleone e dal figliastro Eugenio di Beauharneis razziando opere di grande pregio in tutta Italia (Piero delle Francesca a Urbino, Raffaello a Città di Castello, Barocci a Ravenna, ecc.). Il decreto stabilisce “il conferimento in uso alla Fondazione mediante assegnazione al relativo fondo di dotazione, della collezione della Pinacoteca di Brera e dell’immobile che la ospita” (un sontuoso palazzo del Piermarini dal quale tempestivamente il commissario Mario Resca ha cacciato la più antica Accademia di Belle Arti). Nella Fondazione di diritto privato “La Grande Brera” entreranno rappresentanti dei privati e degli Enti locali. Saranno loro a nominare i tecnici? Pensiamo proprio di sì. Quale primo atto si potrebbe aprire nel cortile piermariniano un bel ristorante tipico meneghino con risòtt e luganeghìn. Quale miglior valorizzazione?

Ma è costituzionale affidare ad una Fondazione privata un patrimonio pubblico ingentissimo, anche per qualità, arricchito da donatori privati (soprattutto nel ‘900) illusi di rendere ancor più grande la principale Pinacoteca statale di Milano e della Lombardia? Noi pensiamo proprio di no e ci meravigliamo che nessuno, sin qui, insorga e se ne indigni. E poi, cosa vuol dire uniformarsi nella gestione ai “criteri dell’efficienza economica”? Che i direttori dei musei italiani sono tutti degli incapaci perché non sanno trasformarli in “macchine da soldi”? Qui bisogna avvertire il ministro Passera (Ornaghi lasciamolo dormire) che i suoi super-ragionieri non sanno nulla della redditività dei musei: non sanno, ad esempio, che lo Stato francese copre ogni anno per il 60 % il passivo del Grand Louvre, dotato di servizi come un ipermercato (forse loro, in vacanza premio, lo credevano in attivo), o che il Metropolitan Museum di New York copre con le entrate proprie soltanto la metà dei costi. Vuol dire che a Brera si faranno mostre decisamente commerciali (magari Caravaggio ch’el tira tant), manifestazioni d’alta moda e simili, presentazioni di auto (se Marchionne ne produrrà ancora in Italia) e non più ricerca, mostre di ricerca, studi e indagini scientifiche? Vuol dire che, invece di far entrare gratis, come avviene, civilmente da noi, circa la metà degli utenti (anziani, giovani, scolaresche, studiosi, ecc.), si esigerà da tutti – al pari dei Musei Vaticani - un salato biglietto d’ingresso? “I beni culturali sono il nostro petrolio”, lo sentenziò l’on. Pedini Mario, ministro dei Beni Culturali, di cui si ricorda soltanto che faceva parte della Loggia P 2.

Al di là dell’ironia, la decisione del governo Monti, lungi dall’essere “tecnica” (come quella di vendere un po’ di gioielli pubblici), realizza in pieno le linee della politica che Berlusconi-Tremonti con la “Patrimonio Spa” e col discusso Museo Egizio di Torino ebbero soltanto modo di abbozzare. Ora essa viene varata col gran pavese. In nome, fate largo, dello Sviluppo. Tutti zitti?

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