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Salvatore Settis
Le rovine culturali
6 Giugno 2012
Beni culturali
Anche il terremoto e la sua gestione stanno dimostrando la crisi irreversibile del Mibac: una proposta di riforma. E una postilla. La Repubblica, 5 giugno 2012 (m.p.g.)

I beni culturali, "binomio malefico, un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote riforme verbali; un enorme scatolone vuoto entro ci avrebbe dovuto trovar posto, secondo l'aulico programma spadoliniano, l'identità storica e morale della Nazione, salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o penultimo dei Ministeri». Parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, che nel 1983 dedicò un libro e una mostra alla Protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico.

Quel concreto progetto, ispirato dalla semplice idea che prevenire è meglio che curare, stimava le spese (allora) in qualcosa come 2.700 miliardi di lire (5 miliardi di euro), ma cadde nel vuoto. Afflitti da amnesia cronica, i nostri governi fingono di ignorare che l’Italia è un Paese sismico, pronti a stracciarsi le vesti a ogni scossa o a inventarsi soluzioni placebo.

L’incapacità di prevenire i danni dei terremoti non si può certo attribuire all’attuale ministro Ornaghi, ma fa un certo effetto sapere che a coordinare gli interventi del suo ministero non sarà un Soprintendente ma un prefetto, e che dopo i primi ottimismi («numeriamo le pietre e ricostruiamo tutto», 21 maggio) si è passati alla disperazione («sospese le verifiche sui monumenti », 30 maggio). O che, dopo le lesioni alla Basilica del Santo a Padova e l’allarme sulla Cappella degli Scrovegni, le notizie “tranquillizzanti” vengano non da un Soprintendente, ma dal Comune, lo stesso che ha autorizzato a un passo dalla Cappella la costruzione di due alte torri residenziali, le cui fondamenta profonde accentueranno le infiltrazioni d’acqua, già presenti a pochi centimetri dagli affreschi di Giotto.

Ma la causa principale di queste e altre (peggiori) disfunzioni dei Beni culturali non è Ornaghi, bensì l’intrinseca debolezza di quel ministero. Inventato da (o per) Giovanni Spadolini nel 1975, si chiamò ministero per i Beni culturali e ambientali, dizione che restò in piedi fino al 1999, anche dopo il 1986 quando fu creato un separato ministero dell’Ambiente.

Per tredici anni, dunque, vi fu sulla carta un “ambiente” (competenza di un ministero) senza “beni ambientali” (competenza di un altro ministero), e per converso i “beni ambientali” senza “ambiente”. In questo contesto traballante, i Beni culturali furono il fanalino di coda di ogni governo, con ministri e sottosegretari spesso imbarazzanti; è su questa scia di marginalizzazione ormai strutturale che, forse senza intenzione ma certo senza attenzione, Ornaghi divenne il solo ministro decisamente non-tecnico in un governo “tecnico”.

Intanto, si gonfiava negli anni la struttura del ministero, moltiplicando burocraticamente le direzioni generali e aggiungendo le direzioni regionali. In compenso le soprintendenze, glorioso baluardo della tutela sul territorio, venivano minate e delegittimate (anche con pretestuosi commissariamenti), svuotate di personale, borseggiate di risorse, lasciate alla deriva.

Lo sfortunato ministero nacque dalla costola della Pubblica istruzione, dove a dire il vero stava molto bene: anche un ministro come Benedetto Croce, più interessato alla scuola, seppe varare la prima legge sulla tutela del paesaggio (1920).

Si può ancora salvare un ministero ormai agonizzante? Tre proposte diverse sono state fatte negli scorsi anni. Lettera morta è rimasta la prima (Argan - Chiarante), che voleva accorpare i Beni culturali con Università e ricerca, altro “derivato” della Pubblica istruzione. L'idea era di puntare sull’intersezione fra professionalità e campi del sapere, esaltando la ricerca sul campo (essenziale alla tutela), la didattica (per esempio del restauro) e il valore educativo del patrimonio culturale.

Passò invece la riforma Veltroni (1999), che ai Beni aggiunse le Attività culturali, intendendo per tali anche sport, spettacolo e turismo: infelice connubio, che comportò una nuova marginalizzazione del core business del ministero.

Resta in campo la terza proposta, che va anzi rilanciata con forza: formare un ministero forte e funzionale accorpando Beni culturali e Ambiente. Questo fu il progetto di Giovanni Urbani, teso a «una politica della tutela fondata sul rapporto fra beni culturali e ambientali» (1989). Io stesso l’ho riformulato, nel mio libro Paesaggio Costituzione cemento (2010) e altrove; e vi è tornato ora Gian Antonio Stella sul Corriere del 25 maggio, proponendo di aggiungere le competenze sul Turismo.

L’accorpamento ambiente-paesaggio-beni culturali è ovvio: lo mostrano vicende recenti, dalla discarica che minacciava Villa Adriana a quelle a ridosso del Real Sito di Carditello o di Pompei. Lo mostrano le cento fragilità del Paese, dal rischio sismico a quello idrogeologico, che richiedono interventi organici e coordinati di recupero e prevenzione.

Ai disastri sismici stiamo reagendo in modo assai improprio, ridistribuendone i costi sui cittadini con l’aumento della benzina (“tassa sulla disgrazia”) e ipotizzando un’assicurazione obbligatoria contro i terremoti. Bizzarro palliativo, che comporta la finale abdicazione dello Stato al suo compito costituzionale primario, la messa in sicurezza del territorio.

Il teatrino dell’“assicurazione obbligatoria” pretende di archiviare decenni di inadempienze dietro uno scaricabarile indegno di questo (e di qualsiasi) governo. Se lo Stato ha speso 137 miliardi di euro per i danni sismici negli ultimi 40 anni, quale compagnia privata di assicurazione coprirà cifre analoghe? E a quali costi per i cittadini? Che farà chi è troppo povero per pagare le alte tariffe che verrebbero richieste? E chi pagherà l’assicurazione degli edifici abusivi o fabbricati con materiali scadenti, il costruttore (colpevole) o il proprietario (spesso innocente)? Quale stato di polizia va instaurato per obbligare i riluttanti a pagare, anche se disoccupati, il dovuto balzello alle imprese private? 137 miliardi, dopo tutto, sono più o meno l’ammontare dell’evasione fiscale in un solo anno.

100 miliardi, ha dichiarato Passera pochi giorni fa, saranno spesi per le “grandi opere”: ma la prima e maggiore “grande opera” è la messa in sicurezza del territorio e del patrimonio culturale. O no?

La ventilata assicurazione obbligatoria contro i terremoti è una prova d’orchestra: se passa, la prossima mossa (inevitabile) sarà l’assicurazione obbligatoria sulla salute, cioè l’abolizione dell’assistenza sanitaria pubblica, la fine del diritto alla salute sancito dalla Costituzione (art. 32).

Ma proteggere la vita dei cittadini, il paesaggio e l’ambiente è un valore costituzionale primario e assoluto. Richiede un’Italia memore di se stessa e non ansiosa di svendersi a compagnie private.

Richiede un lavoro di prevenzione, necessariamente pubblica, che deve essere guidato da un forte ministero del Patrimonio, che unisca ambiente, paesaggio, beni culturali.

Anche il turismo, purché ci ricordiamo che non è per i turisti, ma per noi stessi, che la Costituzione ci impone la tutela della nostra storia e del nostro territorio.

Postilla

L’analisi di Salvatore Settis è, come sempre, drammaticamente puntuale e quasi del tutto condivisibile.

Sicuramente lo è per quanto riguarda la situazione di crisi ormai irreversibile del Mibac che la gestione del terremoto emiliano sta puntualmente sottolineando. Ormai completamente incardinati nella struttura della protezione civile, gli organi territoriali preposti alla tutela sono scomparsi, in questi giorni, dal territorio e l’attività del Direttore Regionale si riduce quasi esclusivamente alla sottoscrizione di ordini di demolizione.

Sembra quasi che l’esercizio della tutela sia considerato ostativo o comunque incompatibile con le più urgenti iniziative di primo soccorso e messa in sicurezza.

Ma se è ormai urgente una riforma del Ministero, la liaison suggerita con il turismo torna ad appiattire le finalità del nostro patrimonio culturale proprio su quell’aspetto mercantile che ha rappresentato una delle derive più evidenti di questi ultimi lustri.

Dietro la concessione di Settis (“anche il turismo”), si intravede il tentativo di respingere le critiche di sempre: non ci sono più risorse per mantenere decentemente l’insieme del nostro patrimonio culturale, inutile fare le anime belle. Tanto vale rassegnarsi cercando di sfruttare la coperta offerta dalle entrate turistiche. Che si tratti di una liaison dangereuse è ben noto allo stesso autore che sui rischi di un turismo rapace e dissipatore si è espresso sempre con chiarezza esemplare.

Ma la situazione è forse così grave che occorre chinarsi ad un compromesso. Forse, ma i dubbi restano e non solo sui pericoli che un turismo sregolato possa rappresentare su di un patrimonio così fragile come il nostro, ma sulla stessa efficacia per entrambi i settori di un legame contronatura.

Non si tratta tanto di demonizzare il turismo, ma mentre quest’ultimo rappresenta un’attività a pieno titolo economica (la prima industria mondiale), la tutela del patrimonio è e deve restare un servizio al cittadino pari ad altri quali istruzione e sanità. E per conseguenza essere governata da altre logiche che non siano quelle del profitto.

Piuttosto sarebbe necessario e urgentissimo che, in un rapporto chiaro ed equilibrato, un’industria turistica finalmente aggiornata nelle strutture e nella stessa cultura imprenditoriale, contribuisse con fondi finalmente adeguati alla salvaguardia di quel patrimonio e di quel paesaggio che ne costituiscono la prima risorsa. La discussione è aperta. (m.p.g.)

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