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Ulrich Beck
Ecco perché solo l’apertura verso "l’altro" può salvarci
28 Maggio 2012
Articoli del 2012
Il nuovo libro del sociologo tedesco sui rischi della xenofobia nella costruzione europea. La Repubblica, 28 maggio 2012 (m.p.g.)

Proprio la minaccia esistenziale causata dalla crisi finanziaria e dalla crisi dell’euro ha reso gli europei nuovamente consapevoli di non vivere in Germania o in Francia, ma in Europa. La gioventù europea esperisce per la prima volta il proprio "destino europeo": disponendo di una formazione migliore di quella di un tempo essa va incontro, carica di aspettative, al declino dei mercati del lavoro determinato dall’incombente minaccia di bancarotta degli stati e dalla crisi economica. Un europeo su cinque sotto i venticinque anni è senza lavoro.

Come il precariato accademico ha innalzato le barricate e fatto sentire la propria voce, così anche tutte le proteste dei giovani rivendicano soprattutto giustizia sociale. In Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, in Egitto, in Israele (a differenza della Gran Bretagna) queste proteste sono condotte in maniera non violenta, ma potente. L’Europa e la sua gioventù sono accomunate dalla rabbia nei confronti della politica che stanzia somme di denaro esorbitanti per salvare le banche e mette a repentaglio il futuro dei giovani. Ma se persino la speranza rappresentata dalla gioventù europea cade vittima della crisi dell’euro, quale futuro potrà mai esserci per un’Europa che diventa sempre più vecchia?

Di fatto la sociologia non se n’è proprio accorta; e ora come allora continua a operare e a elaborare le proprie riflessioni nella prospettiva di un nazionalismo metodologico. Considerando che in Europa le relazioni giuridiche e sociali sono vicendevolmente intrecciate e non possono più venire diversificate a livello nazionale, persino i conflitti nazionali scaturiti dalla disuguaglianza (come, ad esempio, nel caso della Germania) possono essere compresi solo tenendo conto della dimensione europea. Analizzando le situazioni dei singoli stati nazionali diventa pertanto imprescindibile fare riferimento all’Europa.

Vedo tre processi sovrapposti che determinano una nuova effettiva minaccia dell’Europa per l’Europa. Innanzitutto l’ostilità verso gli stranieri, poi l’antisemitismo e l’antiislamismo, infine l’ostilità verso la stessa Europa. Il primo fenomeno non è nuovo e si manifesta di continuo. Rispetto all’antisemitismo noi sociologi siamo abbastanza tranquilli fintantoché rimane circoscritto in determinate zone marginali. Nel frattempo il problema ha però assunto dimensioni esorbitanti nella forma dell’antiislamismo. Gli avversari dell’Islam sono infatti riusciti a presentare il loro rifiuto della dimensione religiosa di determinati gruppi emigrati in Europa come una sorta di atteggiamento illuministico. In Germania è ben noto il nome di Thilo Sarrazin, ma non è il solo. In situazioni di crisi le file degli xenofobi, degli antisemiti, degli antiislamici e degli antieuropei si ingrossano, si sovrappongono e si inaspriscono vicendevolmente. Così facendo tra la popolazione si fa via via più labile il sostegno all’Europa – fino ad assumere proporzioni che non mi sarei mai immaginato.

Ma oggi in Europa ci sono almeno altri due esempi di politica della violenza che occorrerebbe ricordare: il colonialismo e lo stalinismo, ai quali viene di fatto riconosciuto un peso diverso. La memoria della colonizzazione è presente in maniera assolutamente marginale nella costituzione dell’Unione europea. Finora non si è affatto messo in luce né il significato che i paesi colonizzati hanno avuto nel processo di formazione degli stati nazionali all’interno dell’Europa, né quale significato hanno avuto i paesi postcoloniali nella formazione dell’Unione europea. Rispetto all’olocausto e allo stalinismo le cose sono diverse. Tuttavia la memoria del colonialismo potrebbe verosimilmente esercitare un ruolo nell’atteggiamento dell’Unione europea di fronte agli eventi della primavera araba nei paesi nordafricani. Ci si dovrebbe domandare per quale ragione l’Europa non sfrutti la propria situazione particolare (ossia le sue tre memorie storiche) come fonte per nuovi orientamenti e progetti per il futuro.

Rispetto alla Germania, ora come ora, posso solo pronosticare un amore inarrestabile per lo status quo. Siamo senz’altro uno dei paesi industrializzati più dinamici del mondo, e tra quelli più vincolati al mercato globale. Con la riunificazione si è però evidentemente esaurito ogni bisogno di cambiamento. Si fa strada, nell’agire e nel pensare, un atteggiamento di totale disimpegno. Persino in ambito scientifico le teorie che da tempo trattano della fluidificazione e dello sgretolamento dei rapporti sociali vengono recepite in maniera molto marginale. Le figure chiave tra gli intellettuali, la politica e la sfera pubblica nutrono un disinteresse incredibile di fronte a ciò che sta accadendo in ambito politico e intellettuale nelle altre regioni del mondo. Ma questa Germania disorientata, che ora come ora geme, tartaglia e pencola nella nebbia, non è caduta dal cielo. Elaborando la teoria della modernizzazione riflessiva e della società globale del rischio siamo riusciti a individuare un fenomeno che è diventato ormai di esperienza comune: la marcia trionfale della modernità radicalizzata genera una serie di effetti collaterali che demoliscono i fondamenti e le coordinate delle istituzioni e delle singole esistenze private, tramutandoli in elementi politici.

Improvvisamente si fanno urgenti questioni come queste: a che cosa serve l’Europa? La crisi finanziaria mina alla base la democrazia? Ma pure: che cos’è la famiglia? Dal canto mio ho tentato di distinguere tra il "cosmopolitismo", inteso come una teoria normativa e politica, e la "cosmopolitizzazione" come sviluppo de facto sociale. La cosmopolitizzazione, nelle varie forme in cui si realizza, può ad esempio essere descritta a partire dal caso del capitalismo fondato sull’outsourcing. In quel caso non si tratta infatti solo di una variante della globalizzazione, ma di una forma di cosmopolitizzazione in cui i lavoratori dei paesi ricchi, europei, si percepiscono come intercambiabili ed entrano in relazione diretta con l’"altro globale". Questa relazione non è né un’interazione né uno scambio comunicativo, bensì una messa in discussione dell’interesse esistenziale dei lavoratori per un posto di lavoro sicuro. Da ciò deriva, seppur detto in maniera un po’ diretta, un’ostilità economica che riveste un’importanza quotidiana per gli atteggiamenti xenofobi, antisemiti, antiislamici e persino antieuropei. Questa ostilità economica è una forma di cosmopolitizzazione priva di interazione e di comunicazione. Essa non ha nulla a che spartire con il cosmopolitismo filosofico, anzi, ne è l’esatto opposto. Nondimeno si tratta di una relazione nuova, molto concreta, in cui l’"altro globale" è pienamente presente in Europa, al di là di ogni frontiera, ed è al centro della nostra vita. Basandomi sulla distinzione tra cosmopolitismo e cosmopolitizzazione avevo creduto di poter dar vita a una discussione su tali forme di sviluppo, soprattutto in Germania, essendo il cosmopolitismo una delle grandi tradizioni tedesche. Nei secoli XVIII e XIX grandi pensatori – Kant, Heine, Goethe, Schiller e altri – discutevano del modo in cui il cosmopolitismo, il patriottismo e il nazionalismo potessero realmente rapportarsi l’uno all’altro. Mi ero figurato che la grande tradizione culturale tedesca, continuamente celebrata, potesse offrire lo spunto per ripensare l’Europa e la percezione di sé come nazione nell’epoca globale in una maniera nuova e sorprendente. Devo però constatare che la Germania è completamente sorda a questo dibattito, che viene invece condotto in maniera assai vivace in molte altre lingue.

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