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Libia e guerra umanitaria. Le tesi e il contesto
24 Marzo 2011
Articoli del 2011
Le opinioni di Adriano Sofri, Gino Strada e Michael Walzer, un articolo di Thomas L. Friedman e una testimonianza di Farid Adly , da la Repubblica e il manifesto, 24 marzo 2011

Adriano Sofri, Che cosa giustifica l'intervento

Thomas L. Friedman , L'eterna guerra tra clan rivali

Farid Adly, La mia sconfitta, la nostra salvezza

Loris Campetti intervista Gino Strada, Fermiamo le bombe

Roberto Festa intervista Michael Walzer, Questa volta è un errore

la Repubblica

Che cosa giustifica l’intervento della polizia internazionale

di Adriano Sofri

Quale sarebbe stato il destino degli ottocentomila abitanti di Bengasi? È una domanda che nessuno dovrebbe eludere - Si può davvero dubitare del dovere di aiutare o di chiedere aiuto quando il crimine si compie sotto i nostri occhi? - Con la decisione di agire in difesa degli insorti in Libia ritorna la divisione tra i fautori dell’ingerenza e chi sostiene il pacifismo "senza se e senza ma"

La guerra non è umanitaria, certe paci possono essere disumane. Lo scorso giovedì, 17 marzo, Gheddafi disse in tv: «Arriveremo a Bengasi stasera e non avremo pietà. Andremo casa per casa». "Stasera": alla mezzanotte libica il Consiglio di sicurezza avrebbe votato. I primi raid francesi – i più ansiosi di cominciare – sono avvenuti alle 17,45 di sabato. I gheddafisti avevano attaccato in forze, ma non ne erano ancora venuti a capo. Che cosa sarebbe stato degli ottocentomila abitanti di Bengasi? È una domanda che nessuno dovrebbe eludere. Non che manchino le ragioni per l’amarezza e il disgusto. Gli Stati che vanno a bombardare la Libia di Gheddafi hanno fatto fino a ieri affari d’oro con lui, e calcolano di farne di più. Gli hanno venduto le armi che oggi prendono di mira. Gli hanno lasciato piantare la sua tenda madornale a Parigi o a Roma. Bisognava prima fare ben altro, dite, bisognava comportarsi ben diversamente. Infatti: ma che cosa bisognava fare la sera di giovedì 17 marzo, quando si annunciava il rastrellamento, casa per casa, senza pietà? Tutto era cominciato, a Bengasi, dall’ennesimo arresto di un giovane avvocato che denunciava tenacemente l’eccidio di 1300 prigionieri in un carcere di Tripoli, nel 1996. Questa volta c’era l’esempio i Tunisi e del Cairo, la gente è andata in piazza. Toccava alla città che aveva avuto la forza di ribellarsi di pagare per il delirio della terra e dei suoi governanti?

Succede continuamente. La norma non è affatto quella dell’interventismo "umanitario", ma il suo contrario: l’omissione di soccorso. La norma è il Ruanda 1994, e il Clinton che si batte il petto per aver cavillato sul genocidio e lasciato perpetrare quell’orrore immane (e la Francia o il Belgio che non se lo battono abbastanza per avergli dato mano). Il Ruanda, dove si macellava a colpi di machete, e non si spedì un Piper a far saltare la Radio delle mille colline, e non si fecero cortei a Roma o a Parigi. La norma è Srebrenica 1995,coi governi europei complici e qualche pacifista impegnato a sventare decolli di aerei ad Aviano. Quando finalmente decollarono, la partita si chiuse in un giro di giorni e nella rotta dei gradassi ubriachi che miravano ai bambini. Andò diversamente in Kosovo, perché la lezione di Srebrenica era fresca, e Milosevic aveva passato il segno. Si riaccese la scaramuccia degli interventisti e dei pacifisti, più scoppiettante perché ad aderire all’intervento era Massimo D’Alema. Il copione dei pacifisti e degli interventisti si replica come le sedie di Ionesco. Si può davvero dubitare del dovere di aiutare, o chiamare aiuto, quando il crimine si compie sotto i nostri occhi, la sera di Bengasi o la mattina di Srebrenica? È stato codificato, quel dovere, ma era scritto da sempre. Ricominciare ogni volta daccapo –"intervenire o no?"– è il modo vanesio e imbecille per eludere la vera ardua questione: quando e come intervenire. Era la questione del Kosovo: sgombrando la terra e dall’alto dei cieli, o viceversa? Quasi nessuno se ne occupò, tesi gli uni a gridare no "senza se e senza ma", paghi gli altri della decisione trasmessa agli stati maggiori, che fanno quello cui sono addestrati. Si nega che oltre i confini nazionali si possa ricorrere a una polizia. In nome della sovranità nazionale – come se le frontiere delle nazioni fossero chiuse al bracconaggio criminale, alla fame, alle nubi radioattive, e anche alla solidarietà fra umani. O in nome dei rapporti di forza e di convenienza, della ragion di Stato: come sostenere che dentro una nazione il lavoro di polizia si debba fermare di fronte alla malavita troppo potente, o ai potenti troppo potenti. Del resto, hanno sostenuto anche questo.

Ci sono state guerre inevitabili e giustificate, come contro il nazifascismo. "Umanitarie" no. Si abusa del nome orrendo di guerra, e del resto che cosa c’è di più eccitante della nuvola di missili appena lanciati? Le guerre dovevano almeno avere una parvenza di equilibrio fra contendenti. C’è, fra la Tripolitania e l’armata d’occidente? A chiamarla, come si deve, azione di polizia, bisogna che sia autorizzata (questa lo è, in Iraq non lo era, e non rispondeva all’appello di una popolazione insorta), che faccia un uso proporzionato della forza, che faccia valere i propri principii anche per il nemico che affronta. Guerra o azione di polizia: lo considerano un gioco di parole, ammesso che lo considerino. Eppure è così inevitabile: c’è un diritto internazionale se c’è un’unione delle nazioni, c’è un tribunale internazionale se c’è una polizia internazionale. L’unico a dirlo, da noi, fra tanto cubitale gridare alla guerra, è stato Napolitano: «Non siamo entrati in guerra. Siamo impegnati in un’operazione dell’Onu». (L’ha ripetuto Frattini, «Non siamo in guerra», ma lui voleva dire altro, tirare il sasso, o non tirarlo nemmeno, e comunque nascondere la mano; come il Berlusconi "addolorato" per Gheddafi).

Quanto alla terza via: le vie sono diecimila. A volte c’è una sola via. La sera di Bengasi, la mattina di Srebrenica. Lì non si può dire "Né… né…", né con i ribelli né con Gheddafi…Si deve stare con qualcuno e contro qualcun altro. Con l’aggredito contro chi lo aggredisce, in una infame sproporzione di forze. In una strada di città può bastare un bravo carabiniere. Con un satrapo che sta bombardando i suoi sudditi ribelli con i Mig, è più complicato. Ma non meno necessario.

la Repubblica

L’eterna guerra tra clan rivali dietro la rivolta contro il Colonnello

di Thomas L. Friedman

Ci sono due generi di Stati: i "Paesi veri" e quelli delle "sette" unite sotto una bandiera - In Libia, Iraq, Siria, Yemen, i gruppi tribali non si sono fusi in un’unica famiglia di cittadini

Un interrogativo pende sui fermenti rivoluzionari nel mondo arabo: la battaglia in Libia (e in altri Stati) è lo scontro fra un brutale dittatore e l’opposizione democratica oppure è una guerra tra tribù? Infatti in Medio Oriente esistono due generi di Stati: i "Paesi veri", che vantano una lunga storia e forti identità nazionali (Egitto, Tunisia, Marocco, Iran) e le "tribù accorpate sotto una bandiera". Nazioni dai confini tracciati in modo artificiale dai poteri coloniali, dove sono intrappolate miriadi di tribù e di sette che non si sono mai fuse in un’unica famiglia di cittadini. Si tratta di Libia, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Siria, Bahrein, Yemen, Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti. Le tribù e le sette sono state tenute assieme dal pugno di ferro delle potenze coloniali, dei re o dei dittatori militari. L’alternanza democratica al potere è impossibile perché ogni tribù vive all’insegna del «governa o muori» - o la nostra tribù, la nostra setta, è al potere oppure siamo finiti.

Non è un caso che le rivolte per la democrazia in Medio Oriente abbiano preso il via in tre "Paesi veri" - Iran, Egitto e Tunisia - con popolazioni moderne, maggioranze omogenee che antepongono la nazione alla setta o alla tribù, e hanno la fiducia reciproca sufficiente a coalizzarsi, come fosse una famiglia, «tutti contro il papà». Ma nel momento in cui queste rivoluzioni si sono diffuse alle società più tribali-settarie, è difficile capire dove finiscano le istanze democratiche e dove inizi il desiderio che «la mia tribù sostituisca la tua».

In Bahrein, la minoranza sunnita, pari al 30 per cento della popolazione, governa sulla maggioranza sciita. Grazie ai matrimoni misti molti sunniti e molti sciiti si sono fusi e, da portatori di identità politiche moderne, accetterebbero la vera democrazia. Ma per molti altri abitanti del Bahrein la vita è una guerra tra sette, un gioco a somma zero, come per i falchi della famiglia Al Khalifa, attualmente al governo, che non hanno intenzione di mettere a rischio il futuro dei sunniti del Bahrein con una maggioranza sciita al potere. Per questo si è passati molto presto alle armi. O governi o muori.

L’Iraq è un buon esempio di cosa ci vuole per democratizzare un grande Paese arabo tribalizzato, una volta che il leader dal pugno di ferro è stato rimosso (in quel caso dagli Stati Uniti). Ci vogliono miliardi di dollari, 150 mila soldati Usa a fare da arbitro, miriadi di vittime, una guerra civile in cui entrambe le parti devono misurare il proprio potere, e poi un difficile parto, di cui siamo stati la levatrice, una Costituzione scritta dalle sette e dalle tribù irachene che stabilisce le regole di convivenza senza il pugno di ferro.

Mettere gli iracheni in grado di scrivere il loro contratto sociale è la cosa più importante che l’America abbia fatto. È stato, a dire il vero, l’esperimento liberale più importante della storia araba moderna perché ha dimostrato che persino le nazioni tribali possono, ipoteticamente, passare dal settarismo alla moderna democrazia. Ma è ancora soltanto una speranza. Gli iracheni non hanno sciolto definitivamente il grande dubbio: l’Iraq è così perché Saddam era com’era, oppure Saddam era com’era perché l’Iraq è così, ossia una società tribalizzata? Tutti gli altri Stati arabi oggi terreno di rivolte - Yemen, Siria, Bahrein e Libia - sono incubatrici di guerre civili tipo quella irachena. Alcuni possono avere la fortuna che l’esercito li traghetti alla democrazia, ma non c’è da scommetterci.

In altri termini la Libia è solo un primo esempio dei tanti dilemmi morali e strategici che andremo ad affrontare man mano che le rivolte avanzano tra le «tribù accorpate sotto una bandiera». Concedo al presidente Obama un’attenuante. È una questione complessa e rispetto il desiderio del presidente di impedire un massacro in Libia. Ma dobbiamo essere più cauti. La forza del movimento democratico egiziano stava nella sua autonomia. I giovani egiziani sono morti a centinaia nella lotta per la libertà. E noi faremmo bene ad essere doppiamente cauti nell’intervenire in luoghi che possono crollarci tra le mani, come in Iraq, soprattutto se non sappiamo, come in Libia, chi siano davvero i gruppi di opposizione - movimenti democratici guidati da tribù o tribù che sfruttano il linguaggio della democrazia?

Infine, purtroppo, non possiamo permettercelo. Dobbiamo impegnarci nel nostro Paese. Se il presidente Obama è pronto a prendere delle decisioni importanti, difficili, urgenti, non sarebbe meglio che innanzitutto queste si concentrino sul nation building in America, piuttosto che in Libia? Non dovrebbe prima realizzare una vera politica energetica, che indebolisca i vari Gheddafi, e una politica di bilancio che garantisca il sogno americano per un’altra generazione? Una volta fatto questo seguirò il presidente "dai saloni di Montezuma alle spiagge di Tripoli", come cantano i marine.

©The New York Times - La Repubblica - Traduzione di Emilia Benghi

il manifesto

La mia sconfitta, la nostra salvezza

di Farid Adly

Vivo questi momenti con angoscia. Sono convinto antimilitarista, pacifista e nonviolento.

Vivo la guerra libica come una sconfitta personale. La mia generazione di libici è fallita. Non abbiamo fatto abbastanza per sconfiggere politicamente la dittatura gheddafiana. L'opposizione era frantumata in mille rivoli, dai monarchici fino ai socialisti, ma tutti regolarmente all'estero e uno contro l'altro. Perché all'interno del paese c'erano soltanto Abu Selim (eccidio di 1200 detenuti politici, nelle loro celle, il 26 Giugno 1996, del quale ha parlato nel 2009 solo il manifesto) oppure le esecuzioni in pubblico negli stadi. Non abbiamo avuto sufficiente voce per farci sentire e, forse, anche il mondo non ci aveva dato ascolto, perché gli orecchi dei grandi erano tappate da cerotti di petrolio e dalla carta moneta delle commesse di armamenti.

Perché considero giusta la richiesta della No Fly Zone, da parte del Consiglio Nazionale Transitorio Libico (Cntl)? Perché era l'unica strada per la salvezza dei giovani libici che hanno dato avvio a questa rivoluzione, a questa resistenza. Il Cntl non ha chiesto - e lo ha ribadito anche nella giornata di lunedì 21 - bombardamenti sulla residenza di Gheddafi a Bab Azizie per ucciderlo. «Destituire Gheddafi è un compito nostro e lo faremo mobilitando il nostro popolo in questa resistenza formidabile che unisce tutto il paese», ha detto l'avvocato Abdel Hafeez Ghouga. È un diritto sacrosanto alla sopravvivenza!

È, parimenti, diritto dei miei compagni pacifisti italiani dichiararsi contrari all'intervento delle potenze occidentali, ma non mettano in campo ragioni che riguardano la nostra ricchezza petrolifera o il concetto di sovranità nazionale. Non ho dubbi che Stati uniti, Francia e Gran Bretagna non sono lì a difendere il mio popolo. Non ci sono guerre umanitarie, come ha scritto giustamente Tommaso Di Francesco. Lo so che sono lì per il petrolio e per le commesse future. La ridicola polemica tra Francia e Italia sul commando della missione dimostra ampiamente questo occhio rivolto al petrolio e rischia di allungare la vita al dittatore. Vi ricordo però che il petrolio ce l'avevano sotto il loro controllo anche prima. Non hanno organizzato loro la rivolta in Libia. Per loro sarebbe stato meglio se fosse rimasto tutto come prima, quando ballavano coi lupi.

Un discorso a parte per il miliardario ridens. Ha fatto ridere i polli e ha trascinato l'Italia in una situazione ridicola. Un giorno diceva una cosa e l'altro sostieneva il contrario. Ha superato se stesso quando la mattina ha detto che Gheddafi è tornato in sella e poi la sera, dopo che ha capito le intenzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu, ha cambiato idea per dire: «Gheddafi non è più credibile».

A Torino poi, dopo l'avvio della campagna militare alla quale partecipa l'Italia, ha cambiato ancora bandiera, dando credito al colonnello.

I compagni dell'Arci e della Tavola della Pace hanno ragione a chiedere che l'Italia non abbia un ruolo attivo nei bombardamenti. C'è una doppia ragione che consiglia ciò. La posizione altalenante di Berlusconi e Frattini è un dato che consiglia prudenza, ma la ragione più forte è un'altra: l'Italia è stata una potenza coloniale in Libia, quest'anno ricorre il centenario dell'aggressione italiana al suolo libico (avete visto qualche cerimonia per ricordarlo?) e questo trascorso militare (i primi bombardamenti aerei in assoluto nella storia militare sono avvenuti a Kofra da parte di un aviatore italiano), consiglia di astenersi completamente dal bombardare il territorio libico da parte dell'aviazione militare italiana.

L'Italia, se intende rimettere i rapporti con il popolo libico sul binario giusto, dedichi qualche piazza a Omar Mukhtar, eroe della resistenza libica, proposta che avevo avanzato proprio sulle pagine del Manifesto, oltre 10 anni fa, ma caduta nel dimenticatoio anche da parte del compagno(?) Veltroni, allora sindaco di Roma.

Se il governo italiano ha fatto una brutta figura, peggio hanno fatto certi opinionisti, attaccati a concetti ideologici, dimenticando la resistenza italiana contro il regime fascista e contro la repubblichina di Salò. Ecco, Gheddafi per noi libici rappresenta quello e i nostri ragazzi sono i nuovo partigiani. In questi momenti, i democratici di Tripoli vivono lo stesso sentimento di quei partigiani di Milano che lottavano per la liberazione in una città sotto le bombe degli alleati.

Noi vogliamo la libertà e mettere finire alla tirannia, scrivere una costituzione e scegliere, in elezioni libere, chi governerà la Libia. Questo processo è guidato da magistrati, avocati, medici, ingegneri e cosa sento e leggo? Che la Libia è abitata da beduini. Si sono dimenticati che la Libia nel 1804 ha sfidato e sconfitto gli Stati Uniti, freschi freschi di indipendenza (Professor Giuseppe Restifo, «Quando gli americani scelsero la Libia come nemico» Armando Siciliano Editore).

Non so se questo dice qualcosa a certi «signoroni» opinionisti italiani. Alcuni arrivano a ripetere cliché retaggio del colonialismo culturale, dimostrando ignoranza della realtà libica.

Noi oggi siamo protagonisti e vogliamo chiudere con il dittatore. Ben vengano tutte le proposte di mediazione internazionale, come quella del presidente della Bolivia Evo Morales, per arrivare, per via pacifica, alla cacciata del sanguinario despota.

il manifesto

«Fermiamo le bombe, ritroviamo la ragione»

Guerra criminale, non aiuta ma uccide chi chiede aiuto

Loris Campetti intervista Gino Strada

«Anche la bomba atomica sganciata su Hiroshima fu motivata da esigenze umanitarie. Il presidente degli Stati uniti, dopo aver raccontato la solita bugia di guerra ("è stato colpito un obiettivo militare" e invece si era rasa al suolo una città e cancellata la sua popolazione), disse che quell'intervento "intelligente" aveva salvato dalla furia giapponese 46 mila persone. Con la bomba umanitaria, invece, ne sono stati uccisi 400-500 mila, subito e in conseguenza delle radiazioni». Gino Strada non ci sta alla finta umanità di chi contesta al pacifismo il presunto disinteresse per i civili vittime di dittature. Fa i conti, in Iraq nel '91, in Kosovo nel '99 e poi ancora in Iraq, in Afghanistan, oggi in Libia. Il fondatore di Emergency non fa sconti a nessuno e rovescia le tante domande-accuse che gli poniamo, le stesse che si rivolgono contro il manifesto e chi si oppone alla guerra, si diceva una volta senza sì e senza ma: «Solo quando avremo espulso la guerra dall'arco delle possibilità potremo chiederci davvero cosa possiamo fare per aiutare le vittime di dittature, terrorismi, pulizie etniche». Potremo ascoltare Gino Strada domani alla Sapienza, all'assemblea promossa da Uniti contro la crisi all'aula 1 di Lettere.

Se Emergency fosse una multinazionale dell'aiuto con fini di lucro e non una meritoria organizzazione volontaria si potrebbe dire che le cose per voi vannno sempre meglio: le occasioni di lavoro al fianco delle vittime di guerra si moltiplicano.

Ahimé, il lavoro non manca. Ancora una volta si è scelta la guerra. E questa di Libia come le guerre precedenti, comunque vada a finire sarà una sconfitta della ragione, dell'intelligenza, della necessità di capire come bisognerebbe agire.

Una sconfitta anche della politica?

Sì e no. Dalla politica, da questa politica non nascerà mai una cultura di pace che potrà venire solo dai cittadini, dagli intellettuali, dagli scienziati e solo questi soggetti potranno imporre alla politica un cambiamento di paradigma.

Intanto siamo ancora lì, allo stesso punto di ieri e l'altroieri: guerra umanitaria, bombe intelligenti, no fly-zone.

Stesso scenario, stessi linguaggi insensati, stesse motivazioni truffaldine. Vogliamo dire che la guerra non è mai necessaria o inevitabile? Parlare poi di guerra umanitaria, prima che un imbroglio è un insulto all'intelligenza. Da sempre alla guerra si accompagnano menzogne.

Abbiamo già detto troppe volte che la prima vittima della guerra è la verità...

E prima ancora vittima è la ragione. Incominciamo a pensare di escludere la guerra dal nostro orizzonte mentale. Lo so che non è uno sforzo facile, anche Einstein nel '55 disse che l'esclusione della guerra avrebbe creato problemi alla sicurezza nazionale, ma questo passo è inevitabile per non restare prigionieri di una spirale senza fine e senza esito.

Tutto si ripete ferocemente. Eppure c'è qualcosa che cambia: oggi le critiche o i dubbi sull'intervento in Libia vengono più da destra, con motivazioni ignobili, opportunistiche e razziste, che da sinistra, ammesso che abbia ancora senso parlare di sinistra: diciamo dall'opposizione.

Dietro i sì e i no di questa politica ci sono interessi meschini o confusioni mentali. Voglio essere ottimista, credo che una mobilitazione contro la guerra partirà, sulla base di sentimenti e motivazioni più nobili e più alte.

Il mondo gira al contrario e la guerra calda, finita quella fredda, è entrata nell'ordine delle cose, nella normalità della vita.

Ci hanno detto che il mondo è cambiato l'11 settembre. Non è vero, è cambiato prima. In ogni caso andiamo a vedere qual è stata la risposta alla strage delle Torri gemelle: le guerre si sono moltiplicate. Perciò preferisco parlare di guerra che è un crimine contro l'umanità che non di questa guerra contro la Libia, sennò non facciamo che passare da una guerra all'altra con annesse bugie e presunte motivazioni. Dire no alla guerra punto e basta non è semplice, lo so. Ma ritengo quanto mai attuale il manifesto del '55 di Russell e Einstein che dice «Questo è dunque il problema che vi presentiamo, netto, terribile e inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l'umanità dovrà rinunciare alla guerra?». Lo storico statunitense Howard Zinn scrisse: «Ricordo Einstein che in risposta ai tentativi di "umanizzare" le regole della guerra disse "la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire". Come Emergency ha ripetuto per condannare la guerra alla Libia, è una scelta disumana, criminosa e assurda di uccidere, che esalta la violenza, la diffonde, la amplifica. Questo è l'approccio che dobbiamo imporre alla politica, parlare di disarmo e cominciare a praticarlo riducendo il potenziale di morte che insidia il nostro mondo. Quante testate nucleari abbiamo in Italia? Mi dicono una novantina. A che potenzale distruttivo corrispondono, quante Hiroshima potrebbero cancellare dalla faccia della terra? Siamo seduti su un arsenale.

Che idea ti sei fatto delle motivazioni reali della guerra alla Libia?

Dai commenti che leggo, le più disparate. Per la Francia, immagino che conti la volontà di Sarkozy di essere rieletto, mentre mettere le mani sul petrolio libico è l'obiettivo di tutti i combattenti «umanitari». Nessun governante informa i cittadini sulle ragioni vere per cui li porta in guerra, spacciano solo disgustose menzogne. Se va bene le motivazioni reali verranno fuori anni e anni dopo. E adesso l'Italia torna a far guerra alla Libia, come cent'anni fa.

Ti accusano, ci accusano, di fottercene del popolo di Bengasi, ci dicono «voi l'avreste lasciato nelle mani del boia».

Ecco il cortocircuito, l'avvitamento, la spirale di morte. Ci raccontano che con le bombe staremmo aiutando quel popolo. Lo stesso ci dicevano in Iraq, quando dovevamo liberare gli iracheni oppresso dal criminale Saddam. Il risultato? Abbiamo ammazzato più persone del criminale Saddam, parlano i numeri. Come a Hiroshima, quando il presidente degli Stati uniti disse che con l'atomica avremmo salvato 46 mila persone. Peccato che quella bomba ne ha uccise 400-500 mila. In Afghanistan, per non lasciare impunito un crimine, per rendere «giustizia» ai 3 mila morti di New York sono state stroncate più di centomila vite umane. Se non ci si ferma subito, se non cesserà subito il fuoco, in Libia andrà allo stesso modo. Quanti morti ha fatto il dittatore Gheddafi in Cirenaica, quanti avrebbe potuto ancora farne? E quanti ne abbiamo fatti e ne faremo noi? E che conseguenze avranno i bombardamenti occidentali in quell'area turbolenta, e quanti su di noi?

Nel Bahrein e Yemen, per non parlare di Palestina, lo spirito umanitario si spegne.

Certo, ma attenti a non proporre l'estensione di quel criminale spirito umanitario a tutti i paesi in conflitto. Vogliamo forse fare una palla di fuoco del pianeta?

Hai usato parole dure verso il presidente Napolitano quando ha difeso la guerra sostenendo che non siamo in guerra.

Preferisco evitare ogni ulteriore commento per rispetto dell'età. Posso solo dire che dal presidente della Repubblica italiana mi aspetterei il rispetto della Costituzione italiana. È vero, c'è un mandato del Consiglio di sicurezza ma è un alibi. Cosè oggi l'Onu, quali diritti e interessi rappresenta e difende? Nella risoluzione si dice che bisogna fare tutti gli sforzi per evitare la violenza ma al momento del voto erano già in volo macchine di morte. Quali sforzi sono stati fatti, quali tavoli di confronto, quali missioni, quanti inviati delle Nazioni Unite?

Ci sono i primi appuntamenti in cui si chiederà, insieme ad altre rivendicazioni,di cessare i bombardamenti. Venerdì (domani, ndr) alla Sapienza alla grande assemblea promossa da Uniti contro la crisi per generalizzare e riempire di contenuti lo sciopero della Cgil del 6 maggio si discuterà anche di nucleare e guerra, e così sarà sabato alla manifestazione nazionale per l'acqua pubblica. Ci sarai?

Sarò presente all'assemblea della Sapienza mentre sabato sono impegnato in un'altra iniziativa di Emergency organizzata precedentemente. Ma vedrai che ci saranno altre riflessioni del movimento pacifista e altre importanti mobilitazioni. Ci stiamo lavorando intensamente.



la Repubblica

"Questa volta è un errore"

Roberto Festa intervista Michael Walzer

Non si entra in un conflitto solo per sostenere l’opposizione a un dittatore perché non ha forze sufficienti. Altrimenti la comunità internazionale dovrebbe intervenire sempre e dovunque"

«L’attacco alla Libia è un errore, in nessun modo giustificato dalle regole dell’intervento umanitario». Da anni Michael Walzer, filosofo della politica con base all’Institute for Advanced Study di Princeton, studia i fili complessi che legano uso della violenza, potere e morale. In un celebre libro degli anni Settanta, Guerre giuste e ingiuste, ha spiegato perché l’intervento in Vietnam era "ingiusto", mentre la Seconda guerra mondiale era "giusta". Nel caso dei raid alleati in Libia, gli sembra che ci siano tutte le ragioni per definirli «un errore, politico e morale, che si concluderà con un probabile bagno di sangue».

Michael Walzer, perché l’intervento in Libia è un errore?

«Per diverse ragioni. Anzitutto, non sono chiari gli obiettivi dell’attacco. Si vuole cacciare Gheddafi? Oppure si cerca di sostenere militarmente la rivolta? O ancora, più semplicemente, si vuole applicare il cessate il fuoco? L’entità delle bombe alleate scaricate sulla Libia lascia intendere che il vero obiettivo è eliminare il tiranno. Senza un intervento di terra, al momento improbabile, sarà però molto difficile. E così gli alleati si trovano di fronte due strade, entrambe pericolose. O riescono a riportare in vita una rivolta ormai sconfitta sul campo; ciò che condurrebbe a una lunga e sanguinosa guerra civile. Oppure ce la fanno a imporre il cessate il fuoco; ma in questo caso Gheddafi resterà padrone di gran parte della Libia. Sono, appunto, esiti per nulla augurabili».

Eppure, in questo caso, c’era la possibilità che Gheddafi scatenasse una feroce repressione contro l’opposizione nelle città riconquistate.

«Ecco, appunto, una repressione, non un massacro, o un genocidio. Una repressione dell’opposizione libica sarebbe stata un fatto drammatico, tragico. Ma purtroppo, non spetta alla comunità internazionale intervenire ogni volta che una rivolta democratica non raggiunge i suoi obiettivi. Altrimenti, si dovrebbe intervenire continuamente, ovunque, e questo non è politicamente e moralmente opportuno. La prima regola dell’interventismo democratico è quella di non cercare di riportare in vita un movimento di opposizione che non ce la fa a sostenere i suoi obiettivi, autonomamente, sul campo».

Quando è invece necessario, e giusto, intervenire militarmente? Quando la guerra è "umanitaria"?

«È facile fare alcuni esempi. Era giusto intervenire di fronte ai "campi della morte" dei Khmer Rossi in Cambogia. Era giusto intervenire in Ruanda o nel Darfur. Niente di quello che sta succedendo oggi in Libia è lontanamente comparabile a quanto accaduto in quei paesi».

È l’entità del massacro che giustifica la "guerra umanitaria"?

«Mettiamola così. La "guerra umanitaria" è quella che salva centinaia di migliaia di persone da morte sicura. Anche la "guerra umanitaria", sarebbe ipocrita negarlo, produce danni collaterali e mette a rischio le vite degli innocenti. Ma una guerra umanitaria ferma un massacro, e quindi salva molte più vite di quante ne mette a rischio».

Quindi la "guerra umanitaria" è slegata da motivazioni politiche?

«Non lo è nel caso di un movimento che metta a rischio la stabilità del mondo, come nel caso del fascismo nella Seconda guerra mondiale. Ma nel caso della Libia, Gheddafi non attaccava o minacciava nessuno, all’esterno. Lo ripeto. Solo un clamoroso disastro umanitario può giustificare un intervento. La "guerra umanitaria" non si fa in presenza di una repressione, sia pure sanguinosa. Né la si fa per favorire un regime change, o per disfarsi di un tiranno».

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