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Tonino Bucci
Berlinguer, con il discorso sull'austerità, c'era andato molto vicino alle teorie di Serge Latouche
28 Marzo 2008
Capitalismo oggi
Una intervista al teorico della “decrescita”, che chiarisce la saggezza della sua proposta. Da Liberazione, 28 marzo 2008

Berlinguer, con il suo discorso sull'austerità, c'era andato molto vicino alle teorie di Serge Latouche. «Ma a quei tempi predicava come un profeta nel deserto. Oggi però lo scenario è maturo. Il mondo rischia la catastrofe ambientale. Non ci sono alternative: o abbandoniamo la fede in una crescita illimitata o sarà la barbarie».

Latouche è un intellettuale eclettico: economista, sociologo e filosofo, autore di libri che hanno avuto fortuna, ad esempio Giustizia senza limiti e Come sopravvivere allo sviluppo ma anche militante appassionato, partecipe in prima persona di lotte e movimenti locali. In Italia esce proprio in questi giorni il suo nuovo libro, Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, pp. 135, euro 9), appena presentato a Siena con Giacomo Marramao, Ugo Pagano e Pier Giorgio Solinas.

La tesi è più o meno nota. Siamo a un passo dal baratro. L'economia capitalistica, spinta dal suo dna a produrre senza limiti quantità crescenti di merci, sta distruggendo l'ambiente. Dovremo dunque rassegnarci a produrre di meno o, peggio ancora, a diminuire i nostri consumi? Latouche non lo nasconde, sa che lo slogan della decrescita è anche una provocazione per smuovere le acque - «sarebbe meglio dire a-crescita». Ma ogni modo infrange un tabù: l'accumulo di ricchezza privata non è più il massimo di felicità desiderabile. Latouche mette sotto accusa il consumismo: un imperialismo invisibile che colonizza dall'interno le nostre menti, che ci ossessiona al punto da ritenere indispensabile cambiare telefonino o automobile a ogni pie' sospinto. Ai nostri occhi le cose diventano vecchie e inservibili in un volgere di tempo sempre più breve. Ma quale automobilista ha quelle elementari cognizioni per decretare l'inutilizzabilità della propria auto? E, intanto, un cumulo di macerie ipertecnologiche si accumula: elettrodomestici, computer obsoleti, lamiere di veicoli. Come se esce? Produrre meno e consumare meno? Bella provocazione, ma un qualsiasi marxista potrebbe obiettare a Latouche che ad abbassare il livello dei consumi si rischia di intaccare lo standard di vita delle classi popolari, già messo a dura prova dal calo di potere d'acquisto dei salari. E anche quell'idea di produrre di meno assomiglia a un velleitario desiderio di far girare all'indietro le lancette della storia, a ritroso verso l'età della pietra. Da queste obiezioni Latouche si difende, dice che sono un fraintendimento della decrescita, che non è affatto sua intenzione mettere fra parentesi le disuglianze di classe nella società capitalistica. E, soprattutto, non negache esiste un gigantesco problema di redistribuzione della ricchezza impossibile a farsi fino a che non si intacca il potere delle multinazionali nel mondo.

La proposta di mettere una moratoria sull'innovazione tecnologica non è stata digerita. L'hanno accusata di essere un nemico della scienza. Sul serio se ne può fare a meno?

Ci mancherebbe altro. Certo che questi oggetti ci sono utili. Quello che contesto è che si debbano sprecare all'infinito tante ricerche scientifiche semplicemente per fare un modello più sofisticato e più alla moda. Qual è la necessità? Un cellulare con qualche funzione in più non fornisce quasi mai un servizio davvero utile.

La prospettiva di consumare meno non è che sia allettante per quelle classi popolari che già hanno visto immiserirsi il potere d'acquisto dei salari. Siamo in tempi di crisi e si profilano tagli alla spesa. Non sarebbe bene tenerne conto?

Vero. Ma non dico "consumiamo di meno". Questo è un fraintendimento. Io propongo di ridurre l'impatto ecologico del sistema e questo, semmai, inciderebbe sul consumo intermedio non sui consumi finali. L'impatto ecologico dell'Italia dal 1960 ad oggi si è triplicato. Ma questo non significa che ognuno consuma tre volte di più. Quello che è cresciuto è il consumo di tutto il sistema, lo spreco. Dopo sei mesi buttiamo via un elettrodomestico solo perché diventa obsoleto. Si dovrebbero imporre delle norme che garantiscano una durata minima dei prodotti. Ma la cosa grave è soprattutto il consumo che comporta la globalizzazione, lo spreco di energia, di imballaggi, di celle frigorifere, di condizionatori. La carne nei nostri piatti viene da bestiame che non mangia più l'erba dei prati ma mangimi ottenuti dalla soia coltivata in Brasile. Non si tratta di diminuire il consumo o il reddito dei più poveri. Semmai è ora di redistribuire la ricchezza. Sono i ricchi, i grandi predatori di risorse naturali, che distruggono il pianeta.Tocca ai responsabili, ai partiti politici di sinistra far capire questo. E la gente lo capisce abbastanza.

Per fare tutte le cose che lei dice non occorre un intervento forte dello Stato e l'introduzione di un'economia di piano?

No, non penso alla pianificazione. E' più complicato. Un po' di pianificazione non farebbe male, certo. Dobbiamo reincastrare l'economia dentro il sociale. E' più difficile. Non è il mercato in sé ad essere perverso. E' la logica del mercato quando diventa imperialista. I piccoli mercati nella Siena medievale funzionavano bene perché erano incorporati dentro un sistema sociale del buon governo. Erano subordinati alla felicità pubblica. Il problema è che è stato deciso volontariamente di scatenare la dismisura, la hybris della logica mercantile che dovrebbe invece essere sempre inquadrata. E' il segno della colonizzazione dell'immaginario, di un cambiamento di mentalità. Penso che una bella crisi potrebbe aiutarci. La mucca pazza in Francia ha cambiato abitudini alimentari. Ora la gente mangia meno carne. Le crisi sono delle opportunità per rompere con lo strapotere di multinazionali e finanza.

Lei pensa a un'economia mista, sotto controllo pubblico per i settori strategici e privata per la produzione di beni secondari?

In un modo o nell'altro dobbiamo distruggere le grandi imprese transnazionali. Sono diventate troppo potenti. Più potenti degli Stati. Dobbiamo sottoporle a limiti di varia natura, ambientali e sociali, perché non continuino a consumare risorse naturali e a sfruttare lavoro umano. Non si deve fissare solo il reddito minimo, dobbiamo fissare anche il reddito massimo. Non ha senso parlare di cittadinanza se qualcuno guadagna un milione di volte in più rispetto a un operaio. La politica deve porsi questi problemi.

"Produrre meno" è uno slogan. Forse è meglio dire "produrre beni di qualità": cultura, sanità, aria migliore, città vivibili, una vita migliore. O no?

Sì. Non è sovversivismo. Il programma della socialdemocrazia tedesca dell'89 prevedeva di produrre meno in certi settori, a partire da quello automobilistico. Non ha senso produrre beni, anche quelli necessari, sempre di più all'infinito. Perché produrre così tanto cibo per poi distruggerlo? La crescita ha senso solo nella misura in cui soddisfa dei bisogni. Sennò serve solo a far aumentare profitti e rifiuti. Mangiare meno carne farebbe bene alla nostra salute. Pensiamo a mangiare meglio, a produrre cibi freschi di stagione senza sprecare energia per trasportarli da un luogo all'altro del pianeta. Meglio cibi di qualità ottenuti con l'agricoltura biologica.

Cambiare modo di produrre significa anche lavorare meno e lavorare meglio. Ono?

Certo. E' stato calcolato che negli ultimi anni la gente dorme in media un'ora in meno. L'insonnia aumenta. Questa è la crescita del malessere, non del benessere. In Francia Sarkozy ha vinto le elezioni con lo slogan: "lavorare di più per guadagnare di più". E' un'assurdità dal punto di vista dell'economia classica. Lavorare di più significa aumentare l'offerta di lavoro. E se aumenta l'offerta, il prezzo del lavoro, cioè il salario, scende. La gente si è accorta che lavora di più e guadagna di meno. Dal punto di vista della decrescita si tratta di lavorare meno non solo per lavorare tutti, ma per vivere meglio. Per ritrovare il senso della vita e avere più tempo per la cura di sé e per le relazioni con gli altri.

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