loader
menu
© 2024 Eddyburg
Palko Karasz
La vittoria di Erdogan e dei suoi super poteri
26 Giugno 2018
2015-La guerra diffusa
il Post e il Manifesto, 26 giugno 2018. Con l'appoggio di altro partito ultra-nazionalista, Erdogan vince con il 52,5% dei voti, mantenendo la Turchia sotto un regime autoritario e repressivo, nel silenzio quasi assoluto dell'Europa. Due articoli per comprenderne le ragioni. (i.b.)
il Post e il Manifesto, 26 giugno 2018. Con l'appoggio di altro partito ultra-nazionalista, Erdogan vince con il 52,5% dei voti, mantenendo la Turchia sotto un regime autoritario e repressivo, nel silenzio quasi assoluto dell'Europa. Due articoli per comprenderne le ragioni. (i.b.)

il Post, 26 giugno 2018
COSA ASPETTARCI ORA DALLA TURCHIA
Traduzione dell'articolo "Five Takeaways From Turkey’s Election" di Palko Karasz
comparso sul New York Times del 25 giugno 2018

Recep Tayyip Erdoğan è stato rieletto domenica presidente della Turchia, vincendo le prime elezioni presidenziali dopo la controversa riforma con la quale aveva accentrato in quel ruolo la gran parte dei poteri politici del paese. Grazie alla vittoria di domenica – ottenuta con il 52,5 per cento dei voti – Erdoğan rimarrà al potere in Turchia almeno fino al 2023: saranno passati vent’anni esatti da quando giurò la prima volta come primo ministro, e a quel punto potrà candidarsi ancora per un altro mandato da presidente.

Intanto, la Turchia è uscita da un lungo periodo di crescita economica, che aveva fatto la grande fortuna politica di Erdoğan, e sta attraversando un momento di crisi, anche politica. Il paese sta ancora facendo i conti con i postumi del tentato colpo di stato di due anni fa, centinaia di persone sono ancora a processo accusate di complicità con i golpisti e i principali giornali di opposizione sono stati messi sotto il controllo di figure vicine ad Erdoğan.
Il New York Times ha provato a fare un punto per capire dove sia la Turchia oggi e dove possiamo aspettare di trovarla tra cinque anni.


Il controllo di Erdoğan sul potere esecutivo è ufficiale, ma cambierà poco
La riforma costituzionale voluta da Erdoğan ha trasformato il sistema istituzionale turco da un modello parlamentare simile a quello italiano a un sistema presidenziale, con un grandissimo accentramento di poteri politici nella figura del presidente. Ora Erdoğan avrà grandissima libertà nella nomina di giudici e ministri e potrà approvare decreti o avviare indagini sull’operato di funzionari governativi.

Se ufficialmente quella del presidente era prima una figura terza e imparziale, è bene però ricordare che da quando Erdoğan fu eletto presidente la prima volta nel 2014 le cose avevano già cominciato a cambiare. Anche prima della riforma Erdoğan dirigeva i lavori del Consiglio dei ministri al posto del primo ministro e aveva un quasi totale controllo del sistema giudiziario del paese, controllo che era ulteriormente cresciuto con la repressione dopo il tentato colpo di stato del 2016.Le elezioni sono state libere, quasi

Gli osservatori internazionali non hanno rilevato casi di brogli di misura tale da aver compromesso il risultato delle elezioni di domenica, ma questo non significa che il voto sia stato completamente libero. Il campo di gioco – come si dice – non era in piano.

Negli ultimi anni Erdoğan è arrivato ad avere un controllo quasi totale sui media di stato e, indirettamente, è arrivato a controllare anche gran parte dei giornali e delle televisioni private del paese. Nel 2016 si era parlato molto del commissariamento di uno dei principali giornali di opposizione, Zaman, la cui direzione era stata sostituita nel giro di poche ore per un intervento dell’autorità giudiziaria considerato da molti come politicamente motivato. Pochi mesi prima delle elezioni, uno dei più importanti e rispettati giornali turchi – Hurriyet – era stato comprato da un gruppo molto vicino a Erdoğan. In generale, tra persecuzioni giudiziarie e inserzionisti che stanno alla larga per paura di ritorsioni del governo, la vita per qualsiasi giornale indipendente e di opposizione è diventata durissima.

A questo bisogna aggiungere gli arresti degli ultimi due anni tra i principali esponenti dell’opposizione, le molte limitazioni ai loro comizi in campagna elettorale e in generale il clima di paura che molti descrivono nel paese.

L’economia turca potrebbe peggiorare ancora

L’ascesa politica di Erdoğan, dal 2003 in avanti, aveva coinciso con un momento di grandissima crescita economica della Turchia, ed Erdoğan ne era diventato il simbolo. Non si può evidentemente dire che nel paese non ci sia più fiducia nelle capacità di Erdoğan, ma l’economia ha molto rallentato e qualche recente decisione del presidente ha fatto spaventare esperti e investitori.

Prima delle elezioni, per esempio, Erdoğan aveva promesso e minacciato di aumentare il suo controllo sulla banca centrale turca nel caso avesse vinto le elezioni e il solo annuncio delle sue intenzioni era stato sufficiente per far precipitare il valore della lira turca. Ora non è chiaro cosa farà Erdoğan, ma se mantenesse fede alle sue promesse sarebbe «un disastro per la lira, per l’inflazione e per quelli che hanno investito nel debito turco», ha detto al New York Times l’analista Emre Deliveli, ex editorialista del quotidiano Hurriyet.

La Turchia si avvicinerà alla Russia?
Quando Erdoğan arrivò al potere per la prima volta nel 2003 sembrava voler portare la Turchia più vicina all’Occidente e inizialmente accelerò il processo che avrebbe dovuto portare il paese a fare parte dell’Unione Europea. La Russia, fino a poco meno di tre anni fa, sembrava un nemico della Turchia e i rapporti tra Erdoğan e Vladimir Putin erano tutto fuorché buoni.

Le cose sono cambiate velocemente. Gli attriti tra l’Unione Europea e il governo turco si sono fatti sempre più intensi e nel 2017 Erdoğan ha esplicitamente detto di aver cambiato idea sull’ingresso della Turchia nella UE. Nello stesso periodo, Russia e Turchia hanno fatto la pace e trovato un’importante intesa su un grande gasdotto che fino a quel punto aveva molto fatto litigare i due paesi. A questo, si è aggiunto l’accordo con cui nel 2017 la Russia ha venduto alla Turchia un efficace sistema missilistico: però la Turchia fa parte della NATO e una tale vicinanza militare con la Russia è quantomeno strana.

È probabile che la tendenza di avvicinamento della Turchia alla Russia non cambierà nei prossimi anni, scrive il New York Times. Per assicurarsi le grandi vittorie politiche degli ultimi anni, Erdoğan ha stretto sempre più forti alleanze con i partiti nazionalisti di estrema destra, da sempre su posizioni anti-occidentali e anti-curde, e dovrà accontentarli. Questo, oltre che per l’Europa, potrebbe diventare un grosso problema anche per gli Stati Uniti, storici alleati della Turchia con cui da tempo però i rapporti non vanno benissimo. Le cose si sono già mostrate complicate in Siria negli ultimi mesi quando la Turchia ha attaccato direttamente le forze dei curdi siriani nel nord del paese, da tempo alleate degli Stati Uniti nella guerra contro il regime di Bashar al-Assad.

L’opposizione è in una posizione difficile
Prima del voto di domenica in molti pensavano – o speravano – che il risultato avrebbe potuto essere una brutta sorpresa per Erdoğan. Il principale candidato dell’opposizione – Muharrem Ince del Partito Popolare Repubblicano – aveva condotto una campagna elettorale molto apprezzata e, sebbene abbia perso le elezioni, il fatto che sia arrivato al 30 per cento dei voti è stato di incoraggiamento per qualcuno. Il problema, dice il New York Times, è che continuare a partecipare alle elezioni in un contesto “falsato” come quello turco non fa che rafforzare la posizione di Erdoğan, legittimando le sue vittorie.

«È arrivato il momento che le opposizioni decidano se vogliono continuare a facilitare lo status quo nella speranza che a un certo punto cambino le cose, o se vogliono provare ad attirare l’attenzione sul fatto che le regole democratiche siano di fatto state svuotate», ha detto al New York Times Howard Eissenstat, esperto di Turchia e professore alla St. Lawrence University.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
il Manifesto, 26 giugno 2018
NATO E RUSSIA ALLA CORTE DEL RÈIS,
CRITICHE DALLA UE

di Chiara Cruciati

Le prime reazioni alla vittoria di Erdogan: l'Alleanza Atlantica e Mosca mandano le loro congratulazioni, Mogherini denuncia le condizioni inique della campagna elettorale ma il patto sui migranti non è in pericolo. Sullo sfondo l'escalation militare tra Siria e Iraq.

Fa buon viso a cattivo gioco Angela Merkel, la cancelliera che prima ha pavimentato la strada turca verso l’incasso di sei miliardi di euro europei per bloccare i rifugiati siriani e poi ha attraversato una delle peggiori crisi diplomatiche tra Berlino e Ankara, dal no ai comizi dell’Akp in Germania nei mesi del referendum costituzionale fino alla detenzione del reporter turco-tedesco Deniz Yucel.

Con il milione e mezzo di turchi residenti in Germania che ha votato per Erdogan con percentuali più alte di quelle domestiche (65,7%), a poche ore dalla vittoria del Rèis il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, ha parlato dell’intenzione di continuare a lavorare «in modo costruttivo e vantaggioso» con Ankara.

A vantaggio di chi si sa: della Ue interessata a mantenere chiusa la rotta balcanica; di Berlino che alla Turchia vende armi poi usate in Rojava, secondo le denunce delle unità curdo-siriane Ypg; e del presidente vittorioso che si garantisce la seconda tranche da tre miliardi di euro.

L’Europa opta per gli stessi toni: prende atto e spera. A parlare per prima ieri è stata la Commissione Ue che si augura che «la Turchia rimanga impegnata con l’Unione europea sui principali temi comuni come migrazioni, sicurezza e stabilità regionale». Quella che Ankara devasta con operazioni unilaterali nei paesi vicini, dalla Siria all’Iraq.

Molto più critica Federica Mogherini, alto rappresentante Ue agli esteri, che prima dice di voler attendere i risultati definitivi (secondo la Commissione elettorale turca disponibili il 5 luglio) prima di rilasciare dichiarazioni di merito e poi definisce «iniqua» la campagna elettorale e condanna la riduzione delle «libertà di associazione e di espressione per i media».

Sull’altro fronte, quello del doppiogiochismo regionale turco, è un susseguirsi di felicitazioni. Russia e Nato, protagonisti di un tiro alla giacchetta molto apprezzato e ben sfruttato da Erdogan, ieri hanno inviato le rispettive congratulazioni: via lettera il presidente russo Putin ha sottolineato «la grande autorità politica» di Erdogan e ribadito la volontà di mantenere vivo il dialogo con uno degli sponsor del negoziato siriano di Astana (a tal proposito congratulazioni sono giunte anche dall’Iran, dai tempi degli imperi ottomano e persiano tra i principali competitori dell’attuale Turchia); mentre il segretario generale della Nato Stoltenberg ha espresso il suo plauso e ricordato a Erdogan quello che chiama «il nucleo di valori» che caratterizzano il Patto atlantico, «democrazia, Stato di diritto, libertà individuale» in primis (alcuni popoli avrebbero da dissentire).

Parole non da poco, soprattutto alla luce delle prime dichiarazioni post-vittoria del presidente turco: «Libereremo la Siria», ha detto lunedì notte dal terrazzo del quartier generale dell’Akp ad Ankara, aprendo a un’escalation dell’operazione militare contro i curdi in Siria e Iraq che è già realtà quotidiana.

ARTICOLI CORRELATI
13 Febbraio 2019

© 2024 Eddyburg