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Ben Taub
La tratta delle ragazze nigeriane in Italia
9 Settembre 2017
2015-EsodoXXI
I soprusi e la rete di interessi dietro il flusso migratorio delle ragazze nigeriane. Per comprendere la complessità delle condizioni socio-economiche e umane sia nel paese di origine che di arrivo, un'inchiesta del
I soprusi e la rete di interessi dietro il flusso migratorio delle ragazze nigeriane. Per comprendere la complessità delle condizioni socio-economiche e umane sia nel paese di origine che di arrivo, un'inchiesta del

New Yorker ripresa dall'Internazionale, 8 settembre 2017 (i.b.)

Sulla costa della Libia, pochi chilometri a ovest di Tripoli, è quasi mezzanotte. Alcuni trafficanti armati gonfiano dei gommoni in riva al mare. Circa tremila migranti, in gran parte originari dell’Africa subsahariana, aspettano in silenzio e scalzi, in file da dieci. I trafficanti libici ordinano ad alcuni di loro di disporsi a lato dei gommoni e di spingerli in acqua. I migranti tengono ferme le imbarcazioni mentre un trafficante fa salire a bordo più persone possibile. Quelle sedute al centro potrebbero ustionarsi se, a causa di una perdita, il carburante si mescolasse all’acqua. Quelle sui lati potrebbero cadere in mare. Ufficialmente nel 2016 sono morte almeno 5.098 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Ma la costa libica è lunga più di 1.700 chilometri, e nessuno sa quante imbarcazioni affondano senza che nessuno se ne accorga.

Su uno dei gommoni, dove ci sono 150 persone, una ragazza nigeriana, Blessing, scoppia a piangere. Ha viaggiato sei mesi per arrivare lì. Ha il volto scavato e le costole sporgenti. Si chiede se Dio abbia fatto visita a sua madre in sogno per dirle che è ancora viva. Le onde sono alte e le persone a bordo cominciano a vomitare. Poco prima dell’alba Blessing perde i sensi. Il gommone sta imbarcando acqua.

Una valvola di sfogo
Negli ultimi anni decine di milioni di africani sono scappati da carestie, siccità, persecuzioni e violenze. Anche se il 94 per cento di loro è rimasto sul continente, in centinaia di migliaia hanno cercato di raggiungere l’Europa. La rotta del Mediterraneo è diventata una sorta di valvola di sfogo anche per i paesi afflitti dalla corruzione e da profonde disuguaglianze. “Se non ci fosse l’Italia, in Nigeria scoppierebbe la guerra civile”, mi ha detto un migrante. Nel 2016, dopo che la valuta del paese africano è crollata, i nigeriani sono stati i più numerosi a tentare la traversata.
Il flusso di migranti verso l’Europa non è un fenomeno recente. L’Unione europea era riuscita in qualche modo a contenerlo, sia costruendo delle recinzioni intorno alle enclave spagnole in Marocco sia pagando i paesi costieri africani per impedire ai migranti di raggiungere le acque europee. Molte persone hanno passato anni nei paesi di confine, tentando più volte di attraversare le frontiere con l’Europa.

Quando si dirigono verso il Mediterraneo, i migranti africani involontariamente ripercorrono le antiche vie del commercio degli schiavi attraverso il Sahara. Per ottocento anni schiavi neri e concubine furono condotti con la forza attraverso gli stessi villaggi sperduti nel deserto. Queste vecchie rotte oggi sono ingovernabili e inondate di armi. Decine di migliaia di persone che partono di loro volontà finiscono nelle mani dei trafficanti, per essere vendute, costrette a fare lavori pesanti o prostituirsi. Gli uomini che finiscono in schiavitù per debiti vengono dall’intera Africa, ma quasi tutte le donne hanno caratteristiche molto simili: sono adolescenti originarie della zona di Benin City, la capitale dello stato di Edo, nel sud della Nigeria. Ragazze come Blessing.

Sono stato in Nigeria nell’autunno del 2016. È il paese più ricco dell’Africa, ma il denaro destinato alle infrastrutture finisce spesso nelle tasche di funzionari del governo.
A Benin City ci sono poche strade asfaltate e le interruzioni di corrente sono all’ordine del giorno. L’economia nigeriana è cresciuta grazie ai proventi del petrolio, all’agricoltura e agli investimenti stranieri, ma è aumentata anche la percentuale di persone che vivono in povertà.

Un giorno sono andato al mercato dei pezzi di ricambio di Uwelu. C’erano ragazzi che trasportavano motori di auto sui carretti e venditori a torso nudo che contrattavano sui pezzi raccattati dagli sfasciacarrozze. Seguendo un sentiero all’estremità occidentale del mercato, sono arrivato a una baracca dove una donna di mezz’età vestita di viola vendeva patatine, bibite e birra. Le ho chiesto se era Doris, la madre di Blessing. Lei ha annuito con un sorriso, poi è scoppiata in lacrime.
I genitori di Blessing avevano una casa e un pezzo di terra. Suo padre faceva il muratore, ma morì in un incidente d’auto quando Blessing era bambina. La famiglia era poverissima e Doris fu costretta a crescere i suoi quattro figli da sola. Il fratello maggiore di Blessing, Godwin, si mise a riparare macchine a Uwelu. Sua sorella Joy andò a vivere da una zia. All’età di 13 o 14 anni, Blessing lasciò la scuola per lavorare come apprendista da un sarto, ma lui voleva essere pagato per insegnarle il mestiere, e dopo sei mesi la mandò via. Blessing, scoraggiata, pensava di non avere un futuro. Poi alcuni amici le parlarono di un agente di viaggio di Lagos che poteva procurarle un passaporto, un visto e un biglietto aereo per l’Europa. L’uomo le promise che avrebbe trovato lavoro e guadagnato abbastanza per mantenere la sua famiglia. “Voleva partire”, mi ha assicurato Doris, che quindi decise di vendere la casa e la terra per dare tutti i soldi al tizio di Lagos. Lui però sparì subito dopo.
Doris e i figli si trasferirono in un appartamento più piccolo. Blessing, bella e slanciata, con gli occhi grandi e gli zigomi alti, aiutava la madre a vendere prodotti alimentari. La sera prendeva i soldi che avevano guadagnato e andava in un altro mercato dove tutto costava un po’ meno per rifornire il chiosco. Con il resto dei soldi compravano da mangiare, e a volte non mangiavano nulla.
Blessing si sentiva in colpa per aver messo in difficoltà la famiglia. Un giorno di febbraio del 2016, mi ha raccontato Godwin, “Blessing se ne andò senza dire niente a nessuno”.

Dagli anni ottanta

L’emigrazione delle ragazze di Benin City è cominciata negli anni ottanta, quando le prime donne del popolo Edo – stanche della repressione, delle incombenze domestiche e della mancanza di opportunità economiche – raggiunsero l’Europa in aereo con documenti falsi. Molte finirono a fare le prostitute sulle strade delle grandi città: Londra, Parigi, Madrid, Atene e Roma. Alla fine di quel decennio, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, “la paura dell’aids aveva allontanato i clienti dalle prostitute italiane tossicodipendenti”, che furono rimpiazzate dalle nigeriane dello stato di Edo. Queste ragazze non guadagnavano molto per gli standard europei, ma abbastanza da permettere ai loro genitori a Benin City di lasciare le baracche per trasferirsi in una vera casa. Nei necrologi c’era l’abitudine di elencare i prodotti costosi – auto, mobili, generatori – comprati con le rimesse provenienti dall’Europa, e i vicini invidiosi prendevano nota. I sacerdoti pentecostali nelle loro prediche esaltavano la ricchezza e i vantaggi dell’emigrazione.

I racconti delle donne emigrate parlavano di lavori ben retribuiti come parrucchiere, sarte, governanti, bambinaie e cameriere, e quello che facevano davvero in Italia rimaneva un segreto. Così i genitori spingevano le figlie a prendere soldi in prestito per andare in Europa e aiutare la famiglia a uscire dalla povertà. Con il passare del tempo, le prostitute diventarono delle madam (tenutarie), che dall’Italia impiegavano altre persone in Nigeria: reclutatori, trafficanti e gente che falsificava i documenti. A metà degli anni novanta la maggior parte delle donne dello stato di Edo che andavano in Europa attraverso questi canali “era probabilmente consapevole del fatto che avrebbe dovuto prostituirsi per ripagare i debiti”, si legge in un rapporto dell’Onu. “Ma non conosceva le condizioni di sfruttamento violento e aggressivo a cui sarebbe stata sotto posta”. Dal 1994 al 1998 in Italia sono state uccise almeno 116 prostitute nigeriane.

Nel 2003 la Nigeria adottò la prima legge contro il traffico di esseri umani. Ma era troppo tardi. Il rapporto dell’Onu, pubblicato lo stesso anno, concludeva che questa industria “era così diffusa nello stato di Edo, in particolare a Benin City e dintorni, che secondo alcune stime tutte le famiglie della
città avevano almeno un parente coinvolto”. Decine di migliaia di donne dello stato di Edo hanno continuato a esercitare la prostituzione in Europa, e oggi alcune strade di Benin City sono intitolate alle madam. La città è piena di donne e ragazze che sono tornate a casa, ma alcune non riescono a trovare lavoro e vanno di nuovo in Europa.


Il quartiere dove tutto ha inizio

I primi trafficanti venivano quasi tutti da Upper Sakpoba road, in uno dei quartieri più poveri di Benin City, dove i bambini vendono patate dolci per strada e le prostitute guadagnano meno di due dollari a cliente. Le suore del Comitato per il sostegno e la dignità delle donne, un’ong locale, visitano le scuole e i mercati per avvisare le ragazze delle violenze che potrebbero subire se sceglieranno la strada della prostituzione. Una suora mi ha raccontato che le donne del mercato di Upper Sakpoba road fanno di tutto per allontanarle. “Sostengono che non dovremmo fermare questi traffici perché le ragazze guadagnano bene”, mi ha detto. “Le famiglie sono complici. Tutti sono complici”.

A Benin City gli accordi importanti si concludono di norma con un giuramento fatto alla presenza di un sacerdote juju (un insieme di credenze tradizionali dell’Africa occidentale). L’idea è che la legge si può infrangere, mentre le promesse fatte davanti agli antichi dèi no. Molti trafficanti sfruttano queste tradizioni per garantirsi l’obbedienza delle vittime. Dall’Italia le madam ordinano ai loro scagnozzi di portare le ragazze in un tempio dove un sacerdote juju celebra un rito di affiliazione usando, di regola, le loro unghie, il loro pelo pubico o il loro sangue.

“Ti fanno giurare che una volta arrivata non scapperai”, mi ha raccontato Sophia, appena tornata dall’Europa. La madam copre le spese di viaggio e in cambio la ragazza accetta di lavorare fino a quando non avrà ripagato il suo debito; la madam le sequestra i documenti e le dice che ogni tentativo di fuggire scatenerà un attacco del juju che vive nel suo corpo. “Se non paghi, muori”, mi ha detto Sophia. “Se parli con la polizia, muori. Se dici la verità, muori”.Prima di sparire, Blessing aveva incontrato una trafficante yoruba (uno dei principali gruppi etnici nigeriani, insieme a quello degli igbo), ma aveva rinunciato a partire quando aveva scoperto che voleva farla prostituire. Poco dopo la sua amica Faith le ha presentato una donna igbo con buoni contatti in Europa. Aveva modi gentili ed eleganti, ed era ben vestita. La donna ha promesso a Blessing e a Faith di portarle in Italia. Avrebbe pagato il viaggio e gli avrebbe trovato un lavoro, poi le ragazze avrebbero restituito i soldi. Blessing sognava di finire gli studi e di ricomprare la casa che la madre aveva perduto. Così è salita su un furgoncino insieme a Faith, alla donna e ad altre ragazze.

È stato l’inizio di un viaggio pericoloso verso nord, fino al Niger. Man mano che avanzavano la fertile terra rossa dei tropici diventava più arida e sottile: ben presto si vedevano solo sabbia e cespugli inariditi. Dopo molti giorni e almeno 1.500 chilometri di strada, hanno raggiunto Agadez, in Niger, un’antica città carovaniera all’estremità meridionale del Sahara.

Agadez è sempre stata un luogo di passaggio, un labirinto di muri di fango dove mangiare, riposarsi e prelevare un nuovo carico prima di partire per la destinazione successiva. Le mura più antiche furono costruite circa ottocento anni fa e nel 1449 la città diventò il centro di un regno tuareg. I mercanti si fermavano ad Agadez mentre attraversavano il deserto con carovane di sale, oro, avorio e schiavi. I tuareg diventarono famosi perché guidavano i mercanti attraverso il deserto, e poi li rapinavano.

Oggi per Agadez passa ogni genere di contrabbando: merci contrafatte, hashish, cocaina, eroina. Ai margini delle strade si vende petrolio libico rubato in bottiglie di liquore. Dopo la caduta di Muammar Gheddai, nel 2011, i tuareg e i tubu (una popolazione libica) hanno saccheggiato i depositi di armi abbandonati nel sud della Libia e venduto quelle che non gli servivano ai gruppi ribelli dei paesi vicini. Nel 2014, però, il valore del traffico di esseri umani ha superato quello di ogni altra attività economica.

Il furgone di Blessing si è fermato in un terreno recintato con al centro un edificio, una “casa di collegamento”, dove decine di migranti erano sorvegliati da uomini armati di pugnali e spade. Non c’era niente da fare lì, bisognava solo aspettare. La donna igbo non aveva ancora detto a Blessing e a Faith il suo nome; le aveva semplicemente pregate di chiamarla “madam” e gli aveva detto di non avventurarsi fuori. L’edificio si trovava in mezzo a un gruppo di squallide case di collegamento alla periferia della città, un ghetto per migranti. Il Niger fa parte della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cédéao), una zona dove non serve il visto per viaggiare da un paese all’altro. Le frontiere occidentali e meridionali del paese sono aperte a circa 350 milioni di cittadini di altri quattordici stati. Molti migranti avevano percorso in pullman più di mille chilometri ed erano arrivati ad Agadez con il numero di telefono del loro agente di collegamento, di solito un migrante diventato imprenditore, della stessa nazionalità o eredità coloniale.

La maggior parte delle ragazze nigeriane restava nelle case dei ghetti per migranti. Non avevano bisogno di lavorare perché il viaggio era stato pagato dai trafficanti in Europa. Le case di collegamento erano soffocanti e sovrafollate, ma loro ricevevano da mangiare ed erano al sicuro, almeno fino al momento di attraversare il deserto. Altre nigeriane, arrivate per conto loro, dovevano prostituirsi per mangiare e per poter continuare il viaggio. Ad Agadez le prostitute guadagnano circa tre dollari a cliente e versano buona parte di questa cifra alle madam locali in cambio di vitto e alloggio. Un’adolescente nigeriana mi ha confidato che ci sono voluti diciotto mesi e centinaia di clienti per guadagnare i soldi necessari ad andarsene.

L’unica attività di Agadez

Ogni lunedì gli autisti tuareg e tubu andavano nei ghetti dei migranti, incassavano i soldi dagli agenti di collegamento e caricavano circa cinquemila persone sui loro pickup Toyota, circa trenta in ogni auto. Si mettevano in marcia insieme a un convoglio militare nigeriano che li avrebbe accompagnati per un tratto del viaggio verso la Libia. Oumar, un giovane autista tubu, mi ha detto di aver percorso quel tragitto venticinque volte. Quando gli ho chiesto se doveva pagare tangenti lungo la strada, mi ha fatto un elenco preciso di posti di controllo e relative tariffe. Secondo un rapporto interno della polizia nigerina, ottenuto dalla Reuters, a un certo punto ad Agadez c’erano almeno settanta case di collegamento, ognuna sotto la protezione di un poliziotto corrotto. In un’altra indagine l’agenzia anticorruzione nigerina ha scoperto che, dal momento che i fondi destinati all’esercito venivano rubati nella capitale Niamey, le tangenti pagate dai trafficanti ai posti di blocco nel deserto erano essenziali per il funzionamento delle forze di sicurezza. Senza le bustarelle, i soldati non avrebbero potuto comprare la benzina, i pezzi di ricambio per i veicoli o da mangiare.

Nell’ottobre del 2016, poco prima del mio arrivo ad Agadez, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva fatto una visita ufficiale in Niger. “Il benessere dell’Africa è nell’interesse della Germania”, aveva detto. Dopo la sua visita, era cambiato tutto. Gli agenti delle forze di sicurezza avevano fatto irruzione nei ghetti e arrestato i loro ex soci d’affari. Erano stati sostituiti i militari e gli agenti di polizia di guardia ai checkpoint nel deserto tra Agadez e la frontiera libica. Il presidente nigerino Mahamadou Issoufou aveva annunciato che lui e Merkel si erano accordati per “mettere un freno all’immigrazione irregolare”.

Secondo Mohamed Anacko, leader della comunità tuareg e presidente del consiglio regionale di Agadez, che amministra un territorio di 650mila chilometri quadrati, la realtà era molto diversa. “Il Niger ha il coltello puntato alla gola”, mi ha detto, spiegandomi che l’unica attività economica della città era il traffico di merci e persone. “Ogni trafficante mantiene un centinaio di famiglie”, ha aggiunto. Se la repressione fosse continuata quelle famiglie non avrebbero avuto “più niente da mangiare”. Per discutere della situazione, un giorno Anacko ha convocato una riunione del consiglio regionale di Agadez, a cui ha invitato anche i più importanti trafficanti del Sahara. Metà erano tuareg, l’altra metà tubu, tutti avevano combattuto in ribellioni recenti. Anacko aveva promesso di riferire le loro lamentele allo stato e di chiedere la liberazione dei trafficanti arrestati.

Dopo le dichiarazioni di apertura di Anacko, un tuareg di mezz’età di nome Alber si è alzato in piedi: “Non siamo criminali, siamo trasportatori!”, ha gridato. “Come faremo a mangiare? Porteremo i turisti? Non ci sono turisti! Non possiamo vivere!”. Poi ha indicato me: “Cosa vuole farci diventare? Dei ladri? Non vogliamo essere ladri! Non vogliamo rubare! Cosa dovremmo fare secondo lei?”.

Il giorno dopo ho incontrato Alber a casa sua. Mi ha fatto entrare e mi ha offerto dell’acqua da una grande conca. La stanza era buia. Sul divano c’erano altri tre uomini, tutti e tre capi di potenti famiglie di trafficanti. “Conosco più di settanta delle persone che sono state arrestate”, ha detto Alber. “Ma non conosco la legge. Nessuno conosce i dettagli della legge”. Anche se le autorità del Niger avevano approvato una legge contro le migrazioni irregolari nel 2015, non avevano mai fatto niente per applicarla. Né avevano avvertito i trafficanti delle conseguenze legali delle loro attività. “Chi può
impedirmi di portare qualcuno da Agadez a Madama? Siamo nello stesso paese. È come se guidassi un taxi”, ha detto Alber. “Nessuno andrebbe nel deserto se ci fossero alternative valide”, ha aggiunto Ibrahim Moussa, un altro trafficante. “Il deserto è un inferno. Sei sempre a un passo dalla morte. L’Unione Europea…”, ha sospirato. “Lì si vive bene. Per questo gli europei vogliono che il Niger metta fine all’emigrazione. Ma perché non possiamo vivere anche noi?”.

Tutti i trafficanti che ho incontrato temevano che il giro di vite ad Agadez avrebbe esposto i giovani del posto al reclutamento dei gruppi jihadisti. In passato, ha detto Moussa, “ogni volta che vedevamo un movimento sospetto informavamo lo stato”. Le soffiate dal deserto erano trasmesse attraverso la gerarchia dell’esercito del Niger e potevano trasformarsi in informazioni utili alle operazioni antiterrorismo statunitensi e francesi nella regione. Ma oggi, mi ha detto Alber, “se vedessi un gruppo di terroristi, lo direi allo stato? No, perché avrei paura di essere arrestato”. “Il deserto è grande”, ha aggiunto Moussa. “Senza di noi lo stato non saprebbe niente”. “Hai visto le montagne dell’Aïr?”, mi ha chiesto Anacko nel suo ufficio. “Nessun estremista islamico può metterci piede. Nessuno. Perché la popolazione non li vuole. La gente vuole la pace. Ma se l’economia si fermasse e le persone cominciassero a finire in prigione perché lavorano con i migranti, di certo i jihadisti riuscirebbero a penetrare nelle montagne. E il giorno in cui riusciranno a stabilire una base nell’Aïr, ilSahel sarà finito. Americani ed europei non riusciranno a cacciare i terroristi dalle montagne. Sarà come l’Afghanistan”.

Il cimitero nel deserto

Il giro di vite contro i trafficanti ha avuto un’altra conseguenza: più migranti morti. Per evitare i posti di blocco, i trafficanti hanno cominciato a usare strade meno battute e non hanno esitato ad abbandonare i loro passeggeri appena avvistavano quello che poteva sembrare un convoglio militare.

“So che rischio la vita, ma non m’importa”, mi ha detto Alimamy, un uomo della Sierra Leone che ho incontrato ad Agadez. Era quasi morto al primo tentativo di attraversare il Sahara. Aveva finito i soldi, il trafficante con cui era in contatto era in prigione, e lui stava cercando un altro modo per arrivare in Europa. “Se riesco ad arrivare in Italia, la mia vita andrà bene”, mi ha detto. In Sierra Leone “siamo già morti da vivi”.

Dopo le retate era diventato impossibile prelevare i migranti dalle case di collegamento per attraversare il deserto. Ma c’erano altri metodi. Oumar, il trafficante tubu, ha lasciato Agadez con un pick-up Toyota dotato di un navigatore satellitare Nokia, duecento litri di acqua e scorte di benzina. Ha superato senza difficoltà il posto di controllo in una gola di montagna. Ottanta chilometri dopo, passate le rocce vulcaniche del massiccio dell’Aïr, si è incontrato con altri sei trafficanti e insieme hanno aspettato il carico. Enormi autocarri trasportano quotidianamente lavoratori e provviste da Agadez fino alle miniere d’oro e di uranio nel deserto. I lavoratori, a volte più di cento su un solo camion, sono seduti in cima e si tengono stretti a funi. Ma quella volta il camion che si è fermato non trasportava minatori. Oumar e gli altri trafficanti hanno fatto salire i passeggeri sui loro pick-up e sono partiti in direzione della Libia.

Dopo diverse ore sulle montagne, Oumar ha raggiunto la porta del deserto, l’inizio del Ténéré. “Sembra il mare”, mi ha detto in seguito una nigeriana di diciassette anni. “Non ha inizio e non ha fine”. A volte passano anni senza che cada una goccia di pioggia. “Non sopravvive niente, neppure gli insetti”, mi ha detto Oumar. Ogni volta che ci passa, Oumar incontra un numero sempre più grande di cadaveri sepolti e disseppelliti dalla sabbia sempre in movimento. Se i migranti cadono dai camion, gli autisti non sempre si fermano.

Alla frontiera libica, una striscia d’asfalto segna l’inizio di una lunga autostrada che porta a nord. Ma l’illusione che il viaggio possa migliorare è subito demolita dal totale disprezzo della legge e dalle crudeltà in agguato. Nell’autunno del 2016, a un posto di blocco, un migrante della Sierra Leone di nome Abdul ha visto un libico che molestava un’adolescente nigeriana. “C’è stata una discussione. Il libico ha preso il fucile e le ha sparato alla schiena”, mi ha raccontato Abdul. “Abbiamo portato la ragazza sul pickup”. I libici gridavano: “Haya!”, cioè che se ne dovevano andare. La ragazza era ancora viva, ma l’autista ha fatto una deviazione di sei ore nel deserto, fino a un immenso cimitero di migranti, dove piccole pietre disposte a cerchio segnavano i punti dov’erano sepolti i cadaveri. Ce n’erano centinaia. Sotto alcune pietre c’erano passaporti e carte di identità. “La maggior parte dei nomi erano nigeriani”, ha continuato Abdul. “Di donne”.

Quando sono arrivati, la ragazza era già morta. Prima di lasciare Agadez, di norma i migranti ricevono il numero di telefono di un agente di collegamento nel sud della Libia. Per alcuni questo significa scendere ad Al Qatrun, un villaggio libico a 320 chilometri dalla frontiera con il Niger. Per altri significa pagare altri trentamila franchi cfa (più di cinquanta dollari) per raggiungere Sebha, una città carovaniera 290 chilometri più a nord. “Se entri a Sebha senza aver pagato l’agente di collegamento soffrirai!”, mi ha detto Stephen, un rifugiato ghaneano. “Ti picchiano la mattina. E la notte. E di nuovo all’alba!”. Stephen si è messo la testa tra le mani ripetendo più volte: “Sebha non è un buon posto”.

Le case di collegamento di Sebha sono molto pericolose per le donne. Come mi ha raccontato Bright, diciassette anni, originaria di Benin City, una notte un gruppo di libici armati di spade ha cominciato a radunare le donne in una di queste case. “Alcune di loro erano incinte. Erano rimaste incinte durante il viaggio, non a casa”, mi ha detto. “Stuprate”. Secondo le stime di un rapporto commissionato dall’Onu, quasi la metà delle profughe e delle migranti che passano per la Libia, comprese le bambine, subiscono aggressioni sessuali, spesso più volte nel corso del viaggio. Un nigeriano di ventun anni di nome John mi ha detto di aver visto uccidere delle migranti perché avevano respinto i loro carcerieri libici.

Le case di collegamento in Libia sono di proprietà di persone del posto ma spesso sono gestite da gente dell’Africa occidentale. “Alcuni sono ghaneani e ci trattano peggio dei libici”, mi ha detto un ragazzo originario del Ghana. I migranti sono incarcerati, picchiati, torturati con la corrente elettrica e spesso costretti a chiamare i familiari per farsi mandare altro denaro. “Sono rimasto in una di quelle case per un mese e due giorni”, mi ha detto Ousmane, 21 anni, del Gambia. La struttura era gestita da libici che, a scopo dimostrativo e per fare spazio ad altri detenuti, “ogni venerdì uccidevano cinque persone. Anche se pagavi, non era detto che ti liberassero”. Ousmane aveva detto ai carcerieri che non poteva pagare di più perché non aveva più nessuno che potesse inviargli dei soldi. “Un venerdì mi hanno chiamato”, mi ha detto. Dal momento che era uno dei più giovani, un altro migrante più anziano si è fatto avanti per farsi uccidere al suo posto. Prima che lo portassero fuori, ha detto a Ousmane: “Quando torni in Gambia, vai a mio villaggio e digli che sono morto”. Pochi giorni dopo Ousmane è riuscito a scappare. Tornato ad Agadez, ha raccontato la sua storia all’agenzia delle migrazioni delle Nazioni Unite, che l’ha aiutato a tornare nel suo paese.

A gennaio, stando al giornale Welt am Sonntag, l’ambasciata tedesca in Niger ha mandato un dispaccio a Berlino confermando le esecuzioni settimanali e paragonando le condizioni nelle case di collegamento dei migranti in Libia a quelle dei campi di concentramento nazisti. A volte i malati sono sepolti vivi.

Vendute

È la primavera del 2016: Blessing, Faith e la madam lasciano Agadez, attraversano il deserto e raggiungono Brak, poco a nord di Sebha, dove sono ospitate in una casa privata. La madam continua a promettere alle ragazze che in Italia potranno studiare e trovare un lavoro ben pagato. Non è chiaro se sia mai stata nella condizione di decidere del loro destino: le donne che accompagnano le ragazze attraverso il deserto spesso sono alle dipendenze dei traicanti in Italia. Un giorno a Brak la madam decide di vendere Blessing e Faith al proprietario di una casa di collegamento per farle lavorare come prostitute.

“Non è quello che ci avevi detto!”, protesta Blessing. “Avevi detto che saremmo andate in Italia, e ora vuoi lasciarmi qui?”. La ragazza scoppia a piangere. Anche se non ha fatto il giuramento juju, la madam minaccia di ucciderla. A Benin City la madre
di Blessing riceve una telefonata da una nigeriana con un numero italiano. Sono passati tre mesi da quando sua figlia è andata via, e la donna al telefono le dice che se non paga 480mila naira (circa 1.500 dollari), Blessing sarà costretta a prostituirsi.

Quella domenica, alla riunione settimanale dei commercianti del mercato di Uwelu Doris spiega la situazione di Blessing chiedendo aiuto. Anche se la donna ha già molti debiti, gli altri commercianti approvano la sua richiesta di un prestito, issando un interesse del 20 per cento. Il fratello di Blessing, Godwin, versa il denaro a uno sportello MoneyGram usando i dettagli forniti dalla donna al telefono. Ma poi non riceve più notizie.

Blessing viene consegnata a un’altra casa di collegamento a Brak. Qualche giorno dopo alcuni uomini armati la fanno salire sul retro di un camion insieme ad altri migranti e nascondono il carico sotto una coperta e dei cocomeri perché i trafficanti rivali non li vedano. Il camion parte in direzione di Tripoli. Faith rimane a Brak perché la sua famiglia non ha pagato. Blessing viene condotta in un grande centro di detenzione, una stanza di cemento in un deposito abbandonato vicino a Tripoli. Rimane prigioniera per mesi con un altro centinaio di persone. Per sentirsi più sicura sta accovacciata vicino ad altre ragazze nigeriane. I pestaggi arbitrari e gli stupri sono frequenti. A volte i migranti ricevono da bere solo acqua di mare. La gente muore sistematicamente di fame e malattie.

Così arriva anche il 22 agosto, il compleanno di Blessing. Ma lei ormai ha perso il senso del tempo. Piange ogni giorno, non sa da chi dipende il suo destino e quando s’imbarcherà. Ogni volta che starnutisce, si chiede se non sia un segno di Dio e se sua madre stia pensando a lei. Una notte di settembre le guardie del centro svegliano Blessing e gli altri migranti e li fanno salire su un camion, che li lascia su una spiaggia a ovest di Tripoli. Alcuni scafisti armati li stipano su un gommone, dicono una preghiera sulla sabbia e li spediscono in mare.

Da giorni la Dignity I, una nave gestita da Medici senza frontiere (Msf ), sta pattugliando quel tratto di costa libica. Poco dopo le otto di mattina, il primo ufficiale avvista il gommone di Blessing. L’equipaggio cala in acqua una piccola imbarcazione di salvataggio, che fa avanti e indietro per portare i migranti, quindici alla volta, sulla Dignity I. Nicholas Papachrysostomou, il coordinatore delle operazioni di Msf, aiuta Blessing ad alzarsi in piedi sul gommone. Lei ha la nausea e si sente debole. Ha i piedi avvizziti perché sono rimasti a mollo per ore in una pozza sul fondo del gommone. Due uomini la issano sulla nave tenendola sotto le spalle. Lei rimane sul ponte con le braccia incrociate singhiozzando, tremando, trattenendo il vomito e lodando Dio.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), nel 2016 nel Mediterraneo sono state salvate più di undicimila donne nigeriane, l’80 per cento delle quali era destinata allo sfruttamento sessuale. “Sono ragazzine di tredici, quattordici, quindici anni”, mi ha spiegato un agente dell’Oim. “Il mercato le vuole sempre più giovani”. L’Italia è il punto d’ingresso: da lì queste donne sono vendute alle madam di tutt’Europa.

A bordo della Dignity I un’infermiera registra la nazionalità e l’età di ogni migrante. Blessing le dice di avere diciott’anni ma, sospettando che sia una bugia, l’infermiera le lega un cordoncino azzurro al polso, per indicare che Msf la considera una minore non accompagnata. La maggior parte delle ragazze nigeriane ha lo stesso cordoncino. Le madam dicono alle più giovani che devono fingere di essere grandi, in modo da essere mandate nei centri d’accoglienza per adulti, dove i migranti possono muoversi liberamente. Altrimenti finiscono in rifugi più protetti per minori non accompagnati.

La Dignity I si dirige al porto di Messina, dove arriva dopo due giorni e mezzo di viaggio. A bordo ci sono 355 migranti. Il più piccolo ha tre settimane. Pochi hanno abbastanza spazio per stare sdraiati, ed è difficile camminare tra i corpi senza pestare braccia e gambe. Il pomeriggio del salvataggio Sara Creta, un’operatrice italiana di Msf, e io parliamo con Blessing e un’altra ragazza, Cynthia, che è cresciuta in una fattoria e poi ha venduto da mangiare sulle strade di Benin City. Blessing e Cynthia si sono conosciute sul gommone e stanno sedute vicino ad altre ragazze nigeriane. Sembrano tutte minorenni, anche se ripetono di avere diciott’anni. Blessing sorride e parla nervosamente, a scatti, continuando a massaggiare i piedi gonfi di Cynthia. Dice di essere stata rapita, senza scendere in dettagli. Mentre Blessing parla, Cynthia piange. Creta cerca di consolarle: “Una volta arrivate in Italia, non sarete costrette a fare nulla che non vogliate fare. In Italia siete libere, ok?”. Blessing si gratta per qualche secondo, poi dice: “Non posso”.

Tre nigeriane più anziane sembrano origliare la conversazione. Una di loro – tarchiata con una cicatrice a forma di falce sul mento – mi chiede cosa faccio sulla nave e alza le sopracciglia quando le dico che sono un giornalista. Non risponde alle mie domande e si limita a dichiarare: “Non ho pagato per il viaggio”. Con le altre due donne passa gran parte dei due giorni successivi appollaiata sul parapetto della nave a controllare le più giovani. A Messina i migranti sbarcano a gruppi di dieci. L’agenzia dell’Onu per i rifugiati ha mandato un rappresentante con dei volantini per informare i migranti sui loro diritti, ma sono in tigrino, la lingua dell’Eritrea e dell’Etiopia settentrionale. Molte persone che forse potrebbero avere diritto di asilo non sanno neanche cosa sia. Egiziani e marocchini sono radunati sotto un tendone azzurro, senza probabilmente sapere che l’Italia ha stretto accordi di rimpatrio con i loro paesi. Gli altri migranti vengono portati verso una colonna di pullman. Blessing e Cynthia mi fanno un cenno di saluto prima di salire.

La donna con la cicatrice a forma di falce sale sul loro stesso pullman. Molti migranti vengono temporaneamente sistemati al Palanebiolo, un campo improvvisato in un ex stadio da baseball alla periferia di Messina, prima di essere trasferiti in altri centri in Italia (il centro è stato chiuso all’inizio del 2017). Un paio di giorni dopo un gruppo di uomini soccorsi dalla Dignity I siede all’aperto su un blocco di cemento. Non hanno soldi né altri beni e si lamentano dei pasti scadenti e delle tende in cui entra la pioggia. Non hanno ricevuto cure mediche, neppure una crema antiparassitaria per trattare la scabbia. Alcuni indossano gli stessi vestiti con cui hanno viaggiato, induriti dal vomito secco e dall’acqua di mare. Non mi permettono di entrare al Palanebiolo, ma Cynthia è seduta fuori. Anche Blessing è ancora lì, ma quella mattina è uscita con un nigeriano che lavora nel centro. Tornano insieme qualche ora dopo. “Mi ha portato in treno!”, dice Blessing. “I bianchi… ho visto tanti bianchi”.

La vera età

Le ragazze mi rivelano la loro vera età: Cynthia ha 16 anni, Blessing ne ha appena compiuti 17. Mi raccontano di aver detto la verità agli operatori di Frontex, l’agenzia che controlla le frontiere esterne europee, ma io sono scettico perché al Palanebiolo sono ospitati solo migranti adulti. Scendiamo
insieme dalla collina per andare a mangiare. Nei pressi di un incrocio molto trafficato chiediamo indicazioni a un nigeriano alto con la barba. Si chiama Destiny, ha attraversato il Mediterraneo nel 2011 e ora lavora in un supermercato di Messina. Ha le braccia e il collo coperti di tatuaggi religiosi. Cynthia lo trova bello e lo invita a venire con noi. Raggiungiamo un bar poco lontano, ma appena entriamo la cameriera ci manda via dicendo che il locale è chiuso. Ai tavoli ci sono dei clienti italiani che consumano caffè e pasticcini. Rimaniamo davanti al bar per decidere cosa fare, inché la cameriera non esce dalla porta per mandarci via.

Torniamo al Palanebiolo. Blessing si muove a fatica e con passi lenti. Le fanno male le giunture, ancora gonfie dai tempi della prigionia in Libia. Destiny mi chiede dove alloggio. “Ah, Palermo!”, commenta. “La mia città preferita”. Mi fa l’occhiolino e, passando all’italiano perché le ragazze non capiscano, aggiunge: “È là che vado a scoparmi le nere per trenta euro”. La prostituzione non è un reato in Italia, ma attira l’attenzione della polizia, perciò le reti dei trafficanti cercano di procurarsi un permesso di soggiorno per ogni ragazza che mandano a lavorare sulle strade. Dal momento che hanno mentito a Frontex sulla loro età, le minorenni ricevono dalle autorità italiane dei documenti secondo i quali hanno diciott’anni o più, e questi documenti le proteggono dalle domande degli agenti.

Le intercettazioni della polizia italiana dimostrano che le reti dei trafficanti nigeriani si sono infiltrate nei centri di accoglienza, usano alcuni dipendenti per controllare le ragazze e pagano tangenti ai funzionari corrotti per accelerare le pratiche burocratiche. Un agente dell’Oim mi spiega che, nei centri come il Palanebiolo, “l’unica cosa che una ragazza deve fare è telefonare alla madam e dirle che è arrivata, specificando in quale città e in quale centro. Loro sanno cosa fare perché hanno uomini dappertutto”. Nei bordelli di Palermo le prostitute nigeriane hanno fino a quindici clienti al giorno: più ne ricevono prima riescono a comprarsi la libertà. Se qualcuno per strada gli sputa addosso, le ragazze vanno a recuperare la borsa che hanno nascosto tra i cespugli, prendono uno specchietto e, alla luce giallastra dei lampioni di via Crispi, si aggiustano il trucco. Poi tornano al lavoro.

“C’è un livello incredibile di razzismo non dichiarato, e lo dimostra il fatto che sulle strade non ci sono minorenni italiane”, conferma padre Enzo Volpe, un prete che gestisce un centro per bambini migranti vittime del traffico di esseri umani. “La società dichiara che è reato andare a letto con una
tredicenne o una quattordicenne. Ma se è africana? Non importa niente a nessuno. Non pensano a lei come a una persona”.

Due volte alla settimana padre Enzo carica un furgoncino di acqua e panini e, aiutato da un giovane frate e da una suora, va a offrire conforto e assistenza alle ragazze sulle strade. La sua prima fermata, un giovedì d’autunno, verso mezzanotte, è il parco della Favorita. Padre Enzo parcheggia il furgoncino vicino a uno spiazzo. Quattro nigeriane escono dai boschetti dove hanno acceso un falò. “Buonasera Vanessa”, dice padre Enzo. “Buonasera. Dio la benedica”. Si dispongono in cerchio, poi pregano e cantano inni che le ragazze hanno imparato in Nigeria. Si avvicina una macchina, da cui esce Jasmine, che dimostra quindici anni. “È il mio compleanno”, dice. Qualcuno le chiede quanti anni compie. Lei esita un attimo e poi risponde in italiano: “Ventidue”.

La suora ha portato una torta. “Se vai a pregare con loro e a dargli informazioni mediche, va tutto bene”, mi dice padre Enzo. “Ma se provi a fare domande su come funziona la rete non parlano. Spariscono”. Due settimane dopo lo sbarco a Messina, la maggior parte dei migranti della Dignity I è scappata dal Palanebiolo o è stata trasferita altrove. Blessing e Cynthia sono ancora lì, e hanno cominciato ad avventurarsi in città. Una domenica mattina una donna italiana ha notato le ragazze in chiesa e le ha invitate a prendere un caffè, il primo in assoluto. Un’altra donna gli ha regalato degli abiti usati. Io gli ho comprato degli antinfiammatori e dei farmaci contro la scabbia e i pidocchi.

Le ragazze hanno imparato a contare fino a dieci in italiano e conoscono alcune parole: pomodoro, farfalla, mal di stomaco. Cynthia grida “ciao!” a ogni automobilista, pedone e cane, ed è felice quando ottiene una risposta amichevole. “È una ragazza di campagna”, la prende in giro Blessing. “Mi piace salutare tutti!”, replica Cynthia. Un’auto si avvicina all’incrocio dove sono sedute le ragazze. “Ciao!”, dice Blessing alla donna alla guida. Lei tiene lo sguardo fisso davanti a sé e tira su il finestrino. “In Italia siamo molto bravi nella prima accoglienza, l’aspetto umanitario”, mi spiega Salvatore Vella, sostituto procuratore di Agrigento. “Arrivano. Gli diamo da mangiare. Li ospitiamo in un centro di accoglienza. E poi? Non c’è soluzione. Cosa facciamo con tutta questa gente?”. Vella guarda fuori dalla finestra. “Siamo onesti: questi centri di accoglienza hanno le porte spalancate, e noi speriamo che se ne vadano. Dove? Non lo so. Se vanno in Francia, per noi va bene. Se vanno in Svizzera, grandioso. Se restano qui, finiscono a lavorare in nero, praticamente scompaiono”.

A Palermo la maggior parte dei migranti vive a Ballarò, un vecchio quartiere sovraffollato con i vicoli tortuosi e i panni stesi alle finestre, dove si svolgono le corse illegali di cavalli e c’è il più grande mercato all’aperto della città. Una notte a Ballarò, in un bar all’aperto che puzza di sudore, erba e vomito, incontro un ex spacciatore originario del Mali. Le prostitute indossano calze a rete e
tacchi alti dodici centimetri. All’angolo due uomini cuociono della carne alla griglia su un fuoco acceso con i rifiuti. Italiani e africani si scambiano denaro e droga senza curarsi di chi c’è intorno. “È il potere della magia nigeriana”, mi dice il maliano. “Dà lavoro a chi non ha documenti”. Ballarò sembra in larga misura sotto il controllo delle bande nigeriane. Il gruppo più potente, Black axe (ascia nera), ha radici a Benin City e cellule in tutt’Italia, ed è responsabile di attacchi con coltelli e machete
contro altri migranti. Anche se le bande nigeriane sono armate e abbastanza organizzate, nessuna lavora da sola. “Se voglio fare affari, devo parlare con il capo siciliano”, mi spiega il maliano. I trafficanti devono dare a cosa nostra una certa quota dell’affare, precisa, altrimenti “puoi andare avanti per un paio di giorni, ma se capiscono che stai facendo qualcosa ti eliminano”. L’anno scorso, dopo una rissa vicino a Ballarò, un pregiudicato italiano ha sparato alla testa a un gambiano ferendolo gravemente. Le autorità italiane e i criminali locali concordano sul fatto che cosa nostra lucra da entrambe le parti: i boss nigeriani comprano grandi quantità di droga dalla maia, poi pagano un pizzo aggiuntivo per il diritto di smerciarla. Ballarò è da tempo sotto il controllo della famiglia D’Ambrogio, il cui capo, Alessandro, è in prigione. È impossibile dire quante nigeriane lavorino nei bordelli di Ballarò, ma molte sono vittime degli abusi dei clienti e vengono picchiate, marchiate o accoltellate dalle madam. Secondo Vella, s’indaga poco sulla violenza contro le prostitute nigeriane perché “la tendenza è stata quella di ignorare le organizzazioni criminali se commettevano reati solo contro gli stranieri”. Di conseguenza, spiega, da almeno quindici anni le bande nigeriane “raccolgono grandi somme di denaro, si armano” e sfruttano le minorenni impunemente.

Un funzionario della polizia di Palermo mi dice che per la sua squadra, impegnata a contrastare la criminalità nigeriana ma senza collaboratori nigeriani, Ballarò è praticamente impenetrabile. Senza contatti sul campo, mi spiega Vella, l’80 per cento del lavoro investigativo si concentra su intercettazioni telefoniche che la polizia non è in grado di capire. “Abbiamo migliaia di persone che vivono qui e parlano lingue di cui fino a quindici anni fa ignoravamo perfino l’esistenza”, continua Vella. “La persona che scelgo per ascoltare le intercettazioni di solito è un’ex prostituta o una ragazza che lavora in un bar. Devo fidarmi di lei, anche se praticamente non la conosco”. Il tutto è complicato dalle minacce alla sicurezza. “Durante i processi devo chiamare a testimoniare l’interprete”, racconta. Il suo nome e la sua data di nascita finiscono agli atti, e la rete dei trafficanti è così ramificata che “con una telefonata Skype o un messaggio riescono a ordinare ai loro compari di raggiungere un villaggio sperduto della Nigeria e bruciare le case con la gente dentro”.

Le ragazze di solito non conoscono l’entità del loro debito fino all’arrivo in Italia, quando si sentono dire che devono rimborsare fino a ottantamila euro. Alcune madam aumentano il debito facendo pagare alle ragazze la stanza, il vitto e i preservativi a prezzi esorbitanti. Una notte, a Palermo, parlo con tre nigeriane che lavorano vicino a piazza Rivoluzione.

Una di loro è cresciuta a Upper Sakpoba road a Benin City, prima di venire in Italia “da bambina” e di essere ripetutamente stuprata. Odia quello che fa ma non può smettere perché, dopo cinque anni a Palermo, deve ancora migliaia di euro alla madam. Blessing vuole studiare Per le autorità, uno degli aspetti più sconcertanti del mercato del sesso è che le vittime del traffico con la Nigeria non denunciano quasi mai chi le tiene prigioniere. La maggior parte delle ragazze ha paura di essere espulsa e anche di dover subire le conseguenze del juju. “Ho sentito che questo juju ha ucciso molte ragazze”, commenta Blessing. “È un incantesimo potente”. Dopo due mesi in Italia, Blessing, Cynthia e una sedicenne di nome Juliet sono le uniche migranti soccorse dalla Dignity I ancora al Palanebiolo. Blessing mi dice che molte ragazze della nave sono andate via dal campo insieme a dei trafficanti. Anche Blessing vuole andarsene. “Sono stufa della pasta”, dice schioccando la lingua in segno di frustrazione. “Mi manca la Nigeria, dove la gente sa cucinare”. Sente la mancanza della madre ed è seccata perché non ha ancora avuto la possibilità di studiare.

In Italia i migranti minorenni dovrebbero essere iscritti a scuola, ma le tre ragazze sono state lasciate al Palanebiolo perché tutti i centri per minori della Sicilia sono pieni (quando il Palanebiolo è stato chiuso, le ragazze sono state trasferite in un centro per minori).

A Benin City i libri scolastici di Blessing sono ancora sullo scafale della sua ex camera da letto. Doris ha venduto il materasso per comprare da mangiare. La stanza è occupata dalla sorella minore di Blessing, Hope, che ha quindici anni e ha lasciato la scuola per aiutare la madre nel chiosco. Per non perdere l’appartamento, Godwin dà una mano a pagare l’affitto. Il debito contratto da Doris per liberare Blessing in Libia continua a crescere.

“Non so come farà mamma a trovare quei soldi. Ma non posso vendermi, anche se ho bisogno di soldi”, mi dice Blessing. “È meglio andare a scuola, l’ho promesso a me stessa e a mia madre”. Blessing sogna di costruire una casa per sua madre. “Mia madre… voglio viziarla. Il motivo per cui sono qui è mia madre. Il motivo per cui sono viva oggi è mia madre. Il motivo per cui non intendo
prostituirmi è mia madre”. Le lacrime le rigano il volto. “Sono il respiro di vita di mia madre”. Blessing, Juliet e un’altra ragazza nigeriana, Gift, scendono la collina cantando inni religiosi e strappando un sorriso ai passanti. Il cielo è scuro, e comincia a piovigginare.

Ma loro continuano a camminare, allontanandosi dal campo come non hanno mai fatto prima. Raggiungono una spiaggia pochi chilometri a nord del porto di Messina. Smette di piovere, e per un attimo due arcobaleni scintillanti appaiono sull’acqua.

“Viene dal mare”, dice Blessing alludendo al doppio arcobaleno. “Guardalo adesso. Sta scendendo”. “Sì, viene dal mare”, risponde Gift. “E poi va nel cielo”.“Sì”. Le nuvole si spostano. “È inito”, fa Blessing.Gift annuisce. “È tornato nel mare”. Pregano. Poi Blessing entra in acqua e allarga le braccia gridando: “Ho attraversato il deserto! Ho attraversato questo mare! Se questo fiume non si è preso la mia vita, nessun uomo e nessuna donna potranno togliermela!”.

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