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Malachia Paperoga
Economisti e istituzioni di primo piano ora ammettono che la globalizzazione aumenta la disuguaglianza
31 Agosto 2017
Critica
«È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi».

«È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi». vocidall'estero, 30 agosto 2017 (c.m.c)

Il sito Global Research mette in luce l’inversione di rotta delle istituzioni mainstream sulla globalizzazione. Sopraffatte dalle giuste intuizioni dell’opinione pubblica, sono costrette ad ammettere che la globalizzazione più che aumentare la ricchezza, la distribuisce in maniera iniqua, riversandone una quantità maggiore sui già ricchi e mettendo in reale competizione solo i più poveri. È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi. Una discussione finora totalmente ignorata dai politici ed economisti che considerano gli accordi di libero scambio sempre “buoni a prescindere”.

Tutti abbiamo sentito dire che la globalizzazione fa crescere l’economia per tutti e aumenta la nostra ricchezza… Ma ora gli economisti e le organizzazioni più importanti iniziano a dire che la globalizzazione aumenta la disuguaglianza.

L’Ufficio Nazionale di Ricerca Economica (NBER) – la più grande organizzazione di ricerca economica degli Stati Uniti, che vanta come membri numerosi premi Nobel e dirigenti del Consiglio dei Consulenti Economici – a maggio ha pubblicato un rapporto secondo il quale:

«Le recenti tendenze verso la globalizzazione hanno aumentato la disuguaglianza negli Stati Uniti, aumentando in maniera sproporzionata il reddito dei più ricchi.L’aumento della competizione delle importazioni ha avuto un effetto deleterio sui lavori manifatturieri, ha portato le aziende a migliorare la loro produzione e causato una diminuzione dei redditi dei lavoratori.»

Il NBER spiega che la globalizzazione permette ai dirigenti di utilizzare il sistema a proprio vantaggio:

«Questo articolo esamina il ruolo della globalizzazione nel rapido aumento dei redditi più alti. Grazie all’utilizzo di un’ampia fonte di dati riguardanti migliaia di dirigenti presso aziende degli Stati Uniti tra il 1993 e il 2013, scopriamo che le esportazioni, così come la tecnologia e la dimensione dell’azienda, hanno contribuito all’aumento dei compensi dei dirigenti. Isolando le variazioni nell’export non legate alle azioni e alle qualità dei dirigenti, mostriamo che la globalizzazione ha influenzato il salario dei dirigenti non solo attraverso il mercato, ma anche in altri modi. Inoltre, shock esogeni alle esportazioni hanno aumentato i compensi dei dirigenti per lo più attraverso i bonus anche in casi di cattiva gestione, elemento che conferma l’ipotesi che la globalizzazione ha aumentato le opportunità per i dirigenti di acquisire rendite di posizione. Nel loro insieme, questi risultati indicano che la globalizzazione ha giocato un ruolo più centrale nella rapida crescita dei compensi ai dirigenti e della disuguaglianza americana di quanto si pensasse, e che l’acquisizione di rendite di posizione è una tassello importante del quadro complessivo.»

Un documento della Banca Mondiale sostiene che la globalizzazione “potrebbe aver portato a un aumento della disuguaglianza dei salari”. Fa notare che:

«Dati USA recenti suggeriscono che i costi dell’aggiustamento per chi lavora in settori esposti alla competizione delle importazioni cinesi sono molto più alti di quanto precedentemente ipotizzato. Il commercio potrebbe aver contribuito ad aumentare la disuguaglianza nelle economie ad alto reddito…»

La Banca Mondiale cita inoltre l’economista premio Nobel Eric Maskin, secondo cui la globalizzazione aumenta la disuguaglianza in quanto aumenta la disparità di competenze dei diversi lavoratori.

Un rapporto del Fondo Monetario Internazionale nota che:

«Un alto livello di commercio e flussi finanziari tra i paesi, in parte reso possibile dalle scoperte tecnologiche, è comunemente ritenuto causa di un aumento della disuguaglianza di reddito… Nelle economie avanzate, la capacità delle aziende di adottare tecnologie per ridurre l’impiego di manodopera e la tendenza a spostare le produzioni all’estero sono state citate come fattori importanti nel declino del settore manifatturiero e nell’aumento del divario di compenso tra le diverse competenze (Feenstra and Hanson 1996, 1999, 2003) …

È stato mostrato che i flussi finanziari in aumento, in particolare gli Investimenti Esteri Diretti (IDE), e i flussi di portafoglio, aumentano la disuguaglianza sia nelle economie avanzate, sia nei mercati emergenti (Freeman 2010). Una possibile spiegazione è la concentrazione di attività e passività straniere in settori relativamente caratterizzati da maggiori competenze ed elevato livello di tecnologia, che spinge verso l’alto la richiesta e i salari dei lavoratori più qualificati. Inoltre, gli IDE potrebbero indurre cambiamenti tecnologici specifici per competenze, essere associati a contrattazioni salariali divise per competenze, e risultare in un aumento della formazione dei lavoratori già formati anziché di quelli meno formati (Willem te Velde 2003). Inoltre, Investimenti Diretti in uscita dalle economie avanzate in settori a bassa competenza, potrebbero di fatto risultare relativamente ad alta competenza nei paesi a cui si rivolgono nelle economie emergenti (Figini and Görg 2011), accentuando così la richiesta di lavoratori ad alta formazione in questi ultimi paesi. La deregolamentazione finanziaria e la globalizzazione sono stati inoltre citati come fattori determinanti per l’aumento della ricchezza finanziaria, della relativa intensità di competenze, e dei salari all’interno dell’industria finanziaria, uno dei settori a crescita più rapida delle economie avanzate (Phillipon and Reshef 2012; Furceri and Loungani 2013).»

La Banca dei Pagamenti Internazionali – La “Banca Centrale delle Banche Centrali” – nota inoltre che la globalizzazione non è tutta rose e fiori. Il Financial Times spiega:

«Tuttavia tre recenti articoli di esponenti di spicco della Banca dei Pagamenti Internazionali si spingono oltre, sostenendo che la globalizzazione finanziaria stessa rende i cicli di boom e crash molto più frequenti e destabilizzanti di quanto sarebbero altrimenti.»

McKinsey & Company nota che:

«Anche se la globalizzazione ha ridotto la disuguaglianza tra paesi, l’ha aggravata all’interno dei paesi stessi.»

L’Economist sottolinea che:

«La maggior parte degli economisti è stata presa alla sprovvista dal rifiuto [della globalizzazione]. Alcuni invece l’avevano previsto. Val la pena studiare come hanno ragionato… Branko Milanovic dell’università di New York crede che tali costi perpetuano un ciclo di globalizzazione. Sostiene che periodi di integrazione globale e progresso tecnologico generano crescenti disuguaglianze… I sostenitori dell’integrazione economica hanno sottovalutato i rischi… che ampi settori della società si sentissero tagliati fuori…»

Il New York Times riporta:

«Gli esperti si sono sbagliati riguardo ai benefici del commercio per l’economia americana?

La rabbia e la frustrazione degli elettori, dovuta in parte ai cambiamenti tecnologici e alla continua globalizzazione, [hanno reso Trump e Sanders molto popolari e] stanno già avendo un impatto rilevante sul futuro dell’America, mettendo in discussione il concetto, in precedenza largamente condiviso, che scambi commerciali più liberi siano necessariamente una cosa positiva. "Il populismo economico della campagna presidenziale ha costretto a riconoscere che l’espansione del commercio è una lama a doppio taglio", ha scritto Jared Bernstein, ex consigliere economico del Vice Presidente Joseph R. Biden Jr.

Quello che più colpisce è che la classe lavoratrice arrabbiata – così spesso bollata come miope, incapace di capire i vantaggi economici legati al commercio – sembra aver capito un concetto che gli esperti solo tardivamente stanno ammettendo essere vero: i benefici del commercio per l’economia americana non sempre giustificano i costi ad esso associati.

In uno studio recente, tre economisti – David Autor dell’Istituto di Tecnologia del Massachusset, David Dorn dell’Università di Zurigo e Gordon Hanson dell’Università di San Diego, in California – hanno messo profondamente in discussione le convinzioni di quelli come noi, cresciuti nella convinzione che le economie si riprendano velocemente dagli shock del commercio. In teoria, un paese industrialmente sviluppato come gli Stati Uniti si adegua alla competizione delle importazioni spostando i lavoratori verso industrie più avanzate che possono competere con successo sui mercati globali.

Gli autori hanno esaminato l’esperienza dei lavoratori americani dopo l’esplosione della Cina sui mercati mondiali circa due decenni fa. Il presunto adeguamento, hanno concluso, non è avvenuto. O quantomeno non lo è ancora. Nei mercati del lavoro locali più colpiti i salari sono rimasti bassi e la disoccupazione alta. A livello nazionale non c’è alcun segno che su altri mercati del lavoro ci siano stati vantaggi in grado di compensare. Inoltre, hanno scoperto che i salari in discesa sui mercati del lavoro locali esposti alla competizione cinese hanno ridotto i redditi di 213 dollari all’anno per ogni adulto.

In un ulteriore studio da loro scritto con Daron Acemoglu e Brendan Price dell’MIT, hanno stimato che la crescita delle importazioni dalla Cina tra il 1999 e il 2011 è costata 2,4 milioni di posti di lavoro negli USA.
Sostengono che «questi risultati dovrebbero farci cambiare opinione sui vantaggi di breve e medio termine associati al commercio. Dopo che non siamo stati capaci di anticipare le significative dislocazioni causate dal commercio, la letteratura deve ora stimare in maniera più convincente i vantaggi del commercio, in modo che il sostegno al libero scambio non sia basato soltanto sulla teoria più alla moda, ma sulla base di evidenze che mettono in luce chi ci guadagna, chi ci perde, di quanto, e a quali condizioni».

Il sostegno alla globalizzazione basato sul fatto che essa aiuta a espandere la “torta” economica del 3% diventa molto meno forte nel momento in cui essa cambia anche la distribuzione delle “fette” del 50%, sostiene Autor.”

E Steve Keen – professore di economia e capo della Suola di Economia, Storia e Politica all’Università di Kingston a Londra – fa notare che:

«Molte persone tenteranno di convincervi che la globalizzazione e il libero scambio potrebbero portare benefici a tutti, se solo i vantaggi fossero suddivisi più equamente. L’unico problema di questa bella festa è che i vicini di casa non erano invitati. Ma adesso vi promettiamo che distribuiremo i vantaggi più equamente. Continuiamo con la festa. La globalizzazione e il libero scambio sono ottimi.

Questa convinzione è comune tra la maggior parte dei politici di entrambe le fazioni, ed è un dogma di fede per la professione economica.
Si tratta di una fallacia basata sul nulla, e lo è stata fin da quando David Ricardo sognava riguardo all’idea del ‘Vantaggio Comparato e dei vantaggi del Commercio’ due secoli fa.Il gioco delle tre carte [della globalizzazione] è come quello della maggior parte della teoria economica: pulito, plausibile e sbagliato. È il prodotto di un ragionamento a tavolino di persone che non hanno mai messo piede in una delle fabbriche che le loro teorie economiche hanno mandato in rovina.

E quindi i vantaggi del commercio per tutti e per tutte le Nazioni, che dovrebbero poter essere divisi in maniera più equa, semplicemente neppure esistono. La specializzazione è una truffa – che ha fatto innamorare le élite di Washington (a loro vantaggio, ovviamente). Anziché far migliorare le condizioni di un Paese, la specializzazione le rende peggiori, con macchinari rottamati che non servono più a nulla, e con meno modi per reinventare nuove industrie dalle quali la crescita arriva davvero.

Un’eccellente ricerca a livello globale dell’Università di Harvard “Atlas of Economic Complexity” ha identificato che la diversificazione, non la specializzazione, è l’”ingrediente magico” che genera realmente la crescita. I Paesi più di successo hanno un set di industrie diversificato, e crescono di più rispetto alle economie più specializzate perché possono inventare nuove industrie integrando quelle esistenti.

Naturalmente la specializzazione, e il commercio di cui ha bisogno, generano un sacco di servizi finanziari, di spese di assicurazione e di riunioni internazionali per negoziare accordi commerciali. La ricca élite che bazzica i festini di Washington si arricchisce, ma il Paese nel suo complesso ci perde, specialmente la classe lavoratrice.»

Alcune grandi società stanno perdendo interesse nella Globalizzazione

Ironicamente, il Washington Post faceva notare nel 2015 che le stesse mega multinazionali stavano perdendo interesse nella globalizzazione… e molte iniziano a riportare le fabbriche a casa:

«Ma nonostante tutta questa attività ed entusiasmo, quasi nessuno dei vantaggi promessi dalla globalizzazione si è materializzato, e quello che fino a poco tempo fa era un tema tabù nelle multinazionali – ossi, dovremmo rivalutare, o addirittura frenare, la nostra strategia globale di crescita? – è diventata una questione urgente, anche se ancora solo sussurrata.Considerando i fallimenti della globalizzazione, praticamente tutte le più grandi società stanno facendo fatica a trovare il modello di business internazionale più produttivo.

Il Reshoring – ossia riportare le operazioni manifatturiere nelle fabbriche occidentali dai mercati emergenti – è una delle opzioni. Mentre il costo del lavoro aumenta in paesi come la Cina, la Thailandia, il Brasile e il Sud Africa, le società stanno scoprendo che produrre le merci, per esempio, negli Stati Uniti quando sono destinate al mercato nord americano è molto più efficiente a livello di costi. I vantaggi sono ancora maggiori se consideriamo la produttività dei paesi in via di sviluppo.

Inoltre, le nuove tecnologie distruttive di manifattura – come le stampanti in 3D, che permettono una produzione in situ di componenti e parti presso i siti di assemblaggio – rendono l’idea di riportare le fabbriche dove i prodotti assemblati verranno venduti ancor più praticabile. Società come GE, Whirlpool, Stanley Black & Decker, Peerless e molte altre hanno riaperto fabbriche in precedenza chiuse o ne hanno aperte di nuove negli Stati Uniti.»

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