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Stefano Rodotà
24 Giugno 2017
Stefano Rodotà
Articoli di Maurizio Caprara, di Luciana Castellina, di Andrea Fabozzi, di Norma Rangeri, Gaetano Azzariti, Marco Travaglio, da
Articoli di Maurizio Caprara, di Luciana Castellina, di Andrea Fabozzi, di Norma Rangeri, Gaetano Azzariti, Marco Travaglio, da il Corriere della sera, il manifesto, Il Fatto quotidiano, 23,24 Giugno, 2017 (c.m.c)

Corriere della sera
ADDIO A RODOTA'
IL GIURISTA DELLE BATTAGLIE
SUI DIRITTI CIVILI
di Maurizio Caprara

Quando tra gli italiani il computer si chiamava ancora cervello elettronico, gli venne di fatto affidato dal Partito comunista italiano una sorta di mandato non ufficiale a dare la linea in materia. Non aveva la tessera del Pci, era deputato dal 1979 di quella famiglia in parte laica e in parte intransigente per vocazione che aveva il nome di Sinistra indipendente, aveva scritto nel 1973 per «il Mulino» un testo intitolato «Elaboratori elettronici e controllo sociale». Sarà stata metà degli anni Ottanta e fece scattare in alcuni dirigenti di Botteghe Oscure una sorta di riflesso condizionato: sa più di noi sull’argomento, ci dirà se l’informatica pone problemi per la libertà e in quale misura apre nuove strade. Cambierà i meccanismi della democrazia? Votare con schede elettroniche ci esporrebbe più a brogli o a occhiuti grandi fratelli orwelliani?

Talvolta questo atteggiamento di delega, di affidamento della ricerca del pensiero considerato più giusto era riservato dai comunisti, su questioni settoriali, agli intellettuali «rossi ed esperti». Ma Stefano Rodotà, nato a Cosenza, morto ieri a 84 anni, padre di Maria Laura, confinava con quel mondo senza rientrare in quel genere di intellettuali. È riuscito a essere di sinistra, anche molto di sinistra, senza che la sua personalità pubblica avesse una connotazione «rossa». Aveva avuto trascorsi radicali, è stato espressione di una laicità liberal-democratica intrecciata con elementi di socialismo. Ed è stato forse questo impasto a frenarlo dal rientrare nel classico rigore, e in una certa rigidità, della tradizione comunista.

Giurista in grado di trattare di diritto penale quanto di diritto costituzionale, garantista ai tempi delle leggi antiterrorismo, risoluto fino al puntiglio nel sostenere le proprie tesi politiche e allo stesso tempo reso morbido da un incedere e una voce tutt’altro che aggressivi, Rodotà, da esterno, contribuì a proporre a Botteghe Oscure una teoria dello Stato della quale il partito aveva bisogno. Nel suo caso, una teoria imperniata sulle libertà.

Nato rivoluzionario, consolidatosi poi nell’edificazione della Repubblica costituzionale, il Pci della fascia di dirigenti trenta-quarantenni legati ad Achille Occhetto avvertiva nella seconda metà degli anni 80 un bisogno di aggiornare il rapporto con le istituzioni impostato da Palmiro Togliatti. Quello lo si sarebbe potuto riassumere in rispetto verso liturgie dell’amministrazione dello Stato e in sostanziale capacità di influenza sui suoi meccanismi anche stando all’opposizione. Occhetto si sporgeva a prendere le distanze dal cosiddetto «consociativismo» che permetteva al partito di essere artefice di decisioni comuni con la Democrazia cristiana. Rodotà, calcando l’accento sulle libertà di scelta dei cittadini, forniva dall’esterno qualcosa di parallelo e diverso da quello che, dentro al partito, avevano maturato due capiscuola contrapposti: il patriarca della sinistra comunista Pietro Ingrao, proiettato nell’evocazione di una democrazia diffusa e «di massa», e il riformista Giorgio Napolitano, attento a spingere Botteghe Oscure verso orizzonti europei e socialdemocratici superando la tradizione comunista.

Intellettuale prestato alla politica per modo di dire — fu nel 1994 che uscì dalla Camera per tornare a tempo pieno allo studio — il professore di Diritto civile aveva una funzione di mente giuridica in quella rete senza stemma e senza inni che era il cosiddetto «partito di Eugenio Scalfari», il fondatore di Repubblica del quale Rodotà era collaboratore con la moglie Carla. Occhetto nel 1989 lo volle ministro della Giustizia e dei diritti dei cittadini nel «governo ombra» messo in piedi per dare al Pci un’aria più britannica prima di trasformarlo in Partito democratico della sinistra, formazione della quale Rodotà fu presidente del Consiglio nazionale.

Due sono stati i suoi bersagli in quegli anni. Francesco Cossiga da presidente della Repubblica: sulle riforme istituzionali e sulla struttura anticomunista Gladio, il giurista di sinistra gli attribuì atteggiamenti da «fasi che annunciano o precedono un colpo di Stato». Il presidente lo ricambiava con sfottò extra-protocollari, come il far sapere di prepararsi a regalargli un paio di pantaloni tirolesi di pelle con fondelli (per presa) rinforzati. L’altro obiettivo di Rodotà, Silvio Berlusconi.

Dal 1997 al 2005, la carica di Garante della privacy. Fuori dalla Camera nella quale era stato vicepresidente e capogruppo, al professore non sono mancate opportunità di ruoli pubblici. Fino all’autentica riscossa sui telegiornali quando nel 2013 venne candidato dai 5 Stelle al Quirinale, traguardo non raggiunto. Rodotà osservò sul Corriere che uno sconfitto era Beppe Grillo, al quale sconsigliava poi una campagna anti-europeista. Il capo dei 5 Stelle gli diede dell’«ottuagenario miracolato dalla Rete, sbrinato di fresco dal mausoleo». Pagina mesta. Incrocio tra due Italie, tra due stili. Che oggi val la pena di ricordare soltanto perché di Rodotà evidenzia autonomia e libertà di pensiero.

il manifesto
UN COMPAGNO,
CHE FU SUBITO PARTE DI NOI SINISTRA
di Luciana Castellina

Perché Stefano non risultò mai esterno e la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi»

Sapevo, sapevamo tutti, che Stefano era malato da tempo. Ma poiché, sebbene non con la frequenza di sempre, continuava a scrivere e a partecipare, alla fine abbiamo pensato – o ci siamo lasciati illudere dall’idea – che la cosa non fosse grave.Qualche settimana fa era seduto nella fila davanti a me al teatro Argentina per vedere l’ultima opera di Mario Martone. Non posso credere, non ci riesco, che non sia più con noi.

Come parlare di Stefano Rodotà, come ricordarlo, spiegarlo ai giovanissimi che certo lo conoscevano di fama, ma che non possono capire il significato della sua presenza politica in questo ultimo mezzo secolo, nel quale ha giocato un ruolo qualitativamente diverso da ogni atro protagonista di questo tempo, assolvendo ad una funzione essenziale? Una funzione storica. Mi spiego: Stefano Rodotà non era comunista, aveva una formazione diversa da quella del Pci e dalla nostra de Il Manifesto; ma di sinistra.

Qualcuno ha sempre detto di lui che era un liberal democratico, non lo so se era così, era certo un grande giurista ma io/noi l’abbiamo sempre sentito compagno, nel senso più pieno che occorre dare a questa parola. Era entrato nelle nostre vite attraverso quella speciale figura che il Pci nella sua epoca migliore aveva inventato: gli eletti nelle proprie liste non appartenenti all’organizzazione,i c.d. «indipendenti di sinistra». Fu una grande idea, perchè molti di loro ci portarono una folata di nuova e utile cultura. Ma con Stefano fu diverso: ci portò un contributo essenziale alla correzione del nostro modo di essere comunisti. Perché non risultò esterno, fu subito parte di noi, la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi».

Dovremo, vorrei io stessa, scrivere e spiegare molto di più su chi sia stato per noi tutti Stefano Rodotà. Non posso certo farlo ora perché si tratta di una riflessione storica che non può svilupparsi nei 30 minuti che dall’annuncio della sua scomparsa mi sono dati ora per scrivere. Non posso non aggiungere, tuttavia, il ricordo personale di un percorso che mi ha dato il privilegio di lavorare con Stefano gomito a gomito.

Nel 1980, nel tempo della crisi del compromesso storico e prima del pieno dispiegarsi del craxismo, come risultato di un appello firmato da Claudio Napoleoni e Lucio Magri, nasce Pace e guerra, prima mensile e poi settimanale, con l’intento di dar voce ad un’area di sinistra che tentò ancora un’incontro fra sinistra socialista, comunisti critici del Pci e area della cosidetta “nuova sinistra”,il Pdup innanzitutto. Direttori di Pace e Guerra furono Claudio Napoleoni, Stefano Rodotà e la sottoscritta ( più tardi anche Michelangelo Notarianni).

Con Stefano in particolare abbiamo lavorato insieme quotidianamente per quasi cinque anni, con una redazione fantastica di cui voglio ricordare fra i tanti nomi solo qualcuno che oggi sembra più eterogeneo: Gianni Ferrara ma anche Paolo Gentiloni, Massimo Cacciari, Giuliana Sgrena e Aldo Garzia. ( Ma anche Carla Rodotà, contributo prezioso al nostro lavoro). E una inedita, larghissima partecipazione della socialdemocrazia europea che in quegli anni vide la prevalenza di una splendide leadership di sinistra. Il nostro tentativo fu sconfitto. Sappiamo tutti come e perché. Ma continuo a credere non inutile. Anche se il Pci, sciogliendosi in malo modo, e il Psi con l’avventura craxiana, seppellirono quel tentativo di alternativa.

Ho ricordato Pace e Guerra perché quella esperienza non è per me e per molti compagni solo un ricordo molto importante, ma perché a quel tentativo politico Stefano Rodotà ha coerentemente lavorato per tutta la vita, nelle sedi in cui si è via via trovato ad operare ( non ultima, per importanza, la «nostra» Fondazione Basso, di cui è stato Presidente). Non era utopia, illusione.

Era un obiettivo possibile.Anche recentemente: non ci siamo mai arrabbiati abbastanza per il fatto che la sua candidatura a presidente della Repubblica sostenuta dai Cinque Stelle ( per una volta non ambigua) e da SeL sia stata fatta cadere dal Pd.Ho la massima stima di Mattarella, ma Stefano Rodotà, proprio per la sua storia e la sua personalità, e nonostante i limitati poteri del Qurinale, avrebbe forse potuto contribuire ad evitare il disastro attuale della sinistra.

Ciao Stefano, siamo molto tristi. Un abbraccio a Carla e a Maria Laura.

il manifesto
UN UOMO DI SINISTRA,
AL FUTURO.

di Andrea Fabozzi
«Una grande civiltà. Stefano Rodotà fuori e dentro le istituzioni, per i diritti e i nuovi bisogni, la biopolitica e i beni comuni. Fino alla candidatura al Quirinale»

«Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità».

Sono le ultime parole di un pezzo scritto da Stefano Rodotà, quando – era l’aprile di quattro anni fa – si trovò a dover rispondere a un attacco pubblicato sul giornale per il quale scriveva da quarant’anni e firmato dal fondatore del giornale. Eugenio Scalfari lo accusava di non essersi ritirato dalla corsa per il Quirinale nel momento in cui era tornato «disponibile» (e poi rapidamente eletto) Giorgio Napolitano.

La storia è nota, è la più recente e anche la più clamorosa delle tantissime percorse dal giurista morto ieri all’età di 84 anni. Parlamentare in legislature lontane (dal 1979 al 1992), punto di riferimento per generazioni di giuristi, Rodotà tra il marzo e l’aprile del 2013 si trovò a essere acclamato nelle piazze dai militanti del Movimento 5 Stelle. E non solo da quelli, anche se fu dei grillini l’iniziativa di candidarlo a presidente della Repubblica. Iniziativa malissimo digerita dal Pd, allora a guida Bersani. E «ci si dovrebbe chiedere – scriveva ancora Rodotà rispondendo a Scalfari – come mai persone storicamente di sinistra siano state snobbate dall’ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l’attenzione del Movimento 5 Stelle».

Ma anche l’attenzione di Grillo finì nell’acido degli insulti, appena il signore del Movimento fu toccato dalle puntualizzazioni del professore sulla non autosufficienza della rete. Dopo averlo candidato al seggio più alto e aver fatto scandire il suo nome nelle piazze, Grillo rapidamente lo degradò «a ottuagenario miracolato dalla rete», così dimostrando che i king maker non sono necessariamente all’altezza dei loro candidati. E per la verità Rodotà non aveva neanche vinto le «quirinarie» inventate da Grillo sul suo blog che – con una partecipazione scarsina – avevano incoronato Milena Gabanelli e Gino Strada prima di lui, però si erano ritirati. Dopo quella polemica Rodotà continuò a scrivere per Repubblica, anche se con meno frequenza e non sempre in prima pagina. Anche perché l’ultima battaglia del professore è stata quella contro la riforma costituzionale e la legge elettorale di Renzi, due leggi che invece il quotidiano fondato da Scalfari ha sostenuto.

Questo suo impegno per il no gli era costato l’accusa, per lui particolarmente insopportabile, di conservatorismo. Prima Renzi poi Boschi individuarono in Rodotà l’avversario perfetto durante tutto l’iter della riforma costituzionale e poi nel corso della campagna referendaria. Era lui il «professorone» per eccellenza, che insieme ad altri aveva firmato (sul manifesto) il primo l’appello contro i rischi di autoritarismo. E quanto fu felice il presidente del Consiglio quando gli fecero sapere che proprio Rodotà nel 1985 aveva avanzato con i deputati della Sinistra indipendente (con Gianni Ferrara, suo grande amico) una proposta di legge per il monocameralismo.

Fece presto Renzi a concludere che Rodotà aveva cambiato idea solo per antipatia verso di lui e la sua riforma costituzionale – e il professore dovette spiegargli che con la legge proporzionale (e i partiti) di trent’anni prima quella sua proposta di riforma aveva tutto un altro segno. «L’Italicum è una legge arretratissima», diceva Rodotà nelle assemblee di quei giorni, sempre attento a non perdere di vista la prospettiva del cambiamento. Qualche volta lo si vedeva intervenire con le stampelle: «Non sono un professore pigro».

Nella sua presenza politica quarantennale c’è sempre stata questa spinta all’innovazione. Civilista più e prima che costituzionalista, lo guidava l’assillo dei diritti e dei bisogni, specie quelli nuovi, da garantire e difendere.

Dalla rappresentanza sindacale – tenne un comizio a Pomigliano, davanti alla fabbrica Fiat che non voleva riconoscere la Fiom – all’acqua, decisivo il suo contributo al referendum del 2011, ai beni comuni: a Roma lo ricordano gli occupanti del teatro Valle e quelli del cinema America. La biopolitica, alla quale ha posto attenzione tra i primi, sempre con un atteggiamento profondamente laico anche rispetto all’invadenza del diritto: «La regola fissa è destinata a essere travolta», avvertiva tutte le volte in cui rispondeva sulle grandi questioni della vita e della morte.

Giurista di grande fama anche all’estero (ha insegnato in diverse università del mondo) Rodotà è stato tra gli estensori della carta di Nizza, la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E poi è stato anche uno dei più attenti alle implicazioni della nuove tecnologie, sia come garante della Privacy (il primo quando fu istituita l’Authority nel 1997) sia più recentemente da presidente della commissione che, alla camera, ha scritto la carta dei diritti in internet.

«Alla mia età mi fa sinceramente piacere che qualcuno si ricordi di me», commentò con un filo di ironia la scoperta di essere il prescelto del blog di Grillo. In quei giorni in parlamento, senza il sostegno ufficiale del Pd, arrivò a raccogliere 250 voti dei grandi elettori; molti di più di quelli dei soli grillini. Ma la diciassettesima legislatura che poteva cominciare eleggendo Rodotà al Quirinale, era destinata a partire invece con la storica conferma di Napolitano per un secondo mandato. È questa legislatura, ormai avviata alla fine.

il manifesto
UN'EREDITA' PREZIOSA
di Norma Rangeri,

Caro professore, perché questo sei stato per tanti di noi, ora che ci lasci capiamo ancora di più quanto ci mancherai e quanto mancherai a tutto il paese. Nella nostra vita abbiamo conosciuto poche persone con il tuo profondo senso della democrazia.

Sarebbe riduttivo sostenere che hai insegnato molto agli italiani nelle battaglie in difesa dei diritti civili e sociali. Perché quel di più che ci hai trasmesso è stata l’importanza della parola «cittadino» accompagnata all’alto senso delle istituzioni. Il binomio cittadino – istituzioni ha caratterizzato il pensiero e l’insegnamento che tu, maestro di libertà, hai portato nella vita politica e culturale, dentro e oltre i confini nazionali.

Da questo punto di vista il tuo essere di sinistra ha marcato una differenza rispetto alla cultura marxista e a quella radicale che pure ha avuto grande importanza nella tua esistenza. Nella cultura marxista sei riuscito a infondere il valore fondamentale dei diritti civili che, ai tempi del Pci, erano praticamente sotto traccia. Invece al mondo radicale hai saputo trasmettere la necessità di impegnarsi anche per le lotte sociali.

Senso delle istituzioni, ruolo del cittadino, lotte per il lavoro, temi etici e diritti civili: tutto questo ti appartiene – e grazie a te ci appartiene, rendendoti perciò unico nella cultura democratica italiana.

Ma c’è un’altra cosa di cui sei stato interprete: il rispetto per l’altro. Nella politica nazionale questa disponibilità a capire le ragioni altrui è sempre stata una rarità perché hanno prevalso gli interessi di parte (e di partito), le lotte di potere, gli schieramenti… Da questi giochi preferivi restare lontano scegliendo di impegnarti sui valori, sui principi e sull’interesse generale.

Per tutte queste ragioni siamo convinti saresti stato un grande presidente della Repubblica, in particolare perché avresti difeso – in nome non di un passato storico, ma di una necessità per il presente e per il futuro – i fondamenti della Costituzione.

È con dolore che ti diciamo addio, caro professore, consapevoli del fatto che lasci una eredità culturale, giuridica, intellettuale e politica diventata bene comune per la sinistra e per la democrazia.

il manifesto
LA PASSIONE
DI UN MAESTRO DI VITA.

di Gaetano Azzariti

«Ciao Stefano. Con lucidità disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo "possibile"»

Non è facile scrivere queste poche righe in un momento di profondo dolore per la scomparsa di un amico e di un maestro di vita. Stefano Rodotà non era solo il raffinato intellettuale e il protagonista di trent’anni di battaglie civili, era anche un uomo generoso e appassionato.

Il suo immenso carisma credo avesse molto a che fare con la passione che egli riusciva a trasmettere.
Affascinava e coinvolgeva Rodotà quando, con lucida razionalità, disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo «possibile».

Ha iniziato ben presto a rappresentare il cambiamento.Lo ha fatto da studioso, quando giovanissimo ha contribuito in modo decisivo a far cambiare passo alla scienza del diritto civile. Erano gli anni ’60 del Novecento, quando uscirono le sue due prime monografie: una rivoluzione per gli studi del tempo.

Di fronte ad una cultura dei giuristi che ancora si attardava nel formalismo giuridico e faceva resistenza entro uno specialismo che relegava ai margini la costituzione repubblicana, ecco un giovane studioso che dimostrava la necessità del cambiamento. Oltre – e sopra – il diritto civile si staglia la costituzione, l’interpretazione giuridica non può che fondarsi su una legislazione per principi che pone al centro i diritti delle persone reali.

L’attenzione per i diritti ha segnato la vita di Rodotà. Non si è mai sottratto dinanzi alla difficoltà di affrontare certi temi. Dalla proprietà («il terribile diritto») ai beni comuni (una formulazione di cui oggi si abusa, alla quale Rodotà è riuscito per la prima volta e praticamente da solo a dare valore scientifico). Tutti temi trattati con realismo e mai dimenticando la materialità della dimensione dei diritti. In uno dei suoi libri più affascinanti «Il diritto di avere diritti» Rodotà indica la rotta agli studiosi di diritto che si riconoscono entro il progetto del costituzionalismo democratico e pluralista. Bisogna pensare ad un «costituzionalismo dei bisogni», scrive.

Dovremmo meditare a lungo la sua lezione, soprattutto in tempi come i nostri che appaiono dimenticare che è delle persone concrete che bisogna parlare.

Tra le ragioni che hanno portato Stefano Rodotà ad opporsi con grande coraggio e rigore all’ultimo tentativo di cambiare la costituzione v’è sicuramente la percezione che il revisionismo dominante non avesse nulla a che fare con i diritti dei cittadini, semmai ne aumentava la distanza, guardando solo alle ragioni del potere e non invece a quelle dei governati. L’ultima «Carta» di valore costituzionale che è stata scritta porta la sua firma. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel 2000.

È il catalogo più ampio mai scritto dei diritti e il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa: «dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti», come ebbe a scrivere. Dopo la sua approvazione l’Europa «ha voltato le spalle alla Carta» (sono ancora sue parole). Ancora una volta la politica si è dimenticata dei diritti. Ma, se i diritti diventano deboli spetta a nessun altro se non a noi difenderli. «il codice di questa impresa – scrive – ha un nome, e si chiama politica.

I diritti diventano deboli quando diventano preda di poteri incontrollati, che se ne impadroniscono, li svuotano e così, anche quando dichiarano di rispettarli, in realtà vogliono accompagnarli a un malinconico passato d’addio. I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona. E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti». La lotta continua e Rodotà continuerà a farci vedere la rotta. Sit tibi terra levis, Stefano.

il Fatto Quotidiano
SEMPRE DALLA PARTE GIUSTA,
QUINDI SEMPRE FUORI DA TUTTO
di Marco Travaglio

Un signore e un amico. Da tempestare ogni giorno per interviste, pareri,
consigli. E lui faceva i salti mortali per non farci mai mancare la sua voce
Marco, come sta tuafiglia? Dammi notizie!”. Stava già malissimo, il 5 giugno.
Eppure, appena lesse che la mia Elisa era rimasta schiacciata nella ressa di piazza San Carlo, mi telefonò per avere notizie, con la solita voce squillante e calma, cantilenante e ottimista. Come se stesse benissimo. Stefano Rodotà era anche questo: un vero signore e un amico caro. Mio e del Fatto. Uno di famiglia, da tempestare ogni giorno per interviste, pareri, consigli. E lui ogni volta faceva i salti mortali,tra una conferenza e una galleria (era spesso in treno), per non farci mai mancare la sua voce. Fino all’ultimo, il 23 maggio, quando ci spiegò perché era giusto e doveroso mettere in pagina l'intercettazione dei due Renzi su Consip perché“di assoluto rilievo pubblico”.

Trovava sempre le parole, i toni, gli argomenti giusti. Quando immaginiamo a chi vorremmo somigliare, il primo che ci viene in mente è lui:un hombre verticalintransigente ma pacato, combattivo ma sereno, politico ma etico tanto da non sembrare nemmeno italiano. E quando sentiamo proprio il bisogno di invidiare qualcuno, pensiamo ancora a lui.

Un uomo sempre dalla parte giusta: quella della Costituzione (contro Craxi e gli altri corrotti di Tangentopoli, contro B. loro degno epigono, contro la Bicamerale di D'Alema&B., contro le presunte riforme scassa-Costituzione
di B. e poi di Renzi) e dunque della laicità,della legalità e dei diritti. E dunque, nel Paese più bigotto, corrotto e autoritario d’Europa, sempre fuori da tutto. Non credete ai politici e ai tromboni del cordoglio automatico e del lutto posticcio: a quelli Rodotà non piaceva, e ricambiava.

Il vuoto della sua scomparsa lo avvertiranno molti cittadini, ma i politici e
gl’intellettuali da riporto sentiranno solo un grande sollievo: una spina nel fianco in meno. Quand’era presidente del Pds e nel 1992 fu candidato alla presidenza della Camera, a sbarrargli la strada per conto della peggior partitocrazia fu Giorgio Napolitano. Lo stesso che gli fu naturalmente
preferito nel 2013,quando il popolo della Rete votò Rodotà fra i tre presidenti della Repubblica preferiti alle Quirinarie dei 5Stelle e, dopo le rinunce di
Gabanelli e Strada, Grillo lo candidò al Colle con l’appoggio di Sel e della
base del Pd. Un gesto che, se anche fosse l’unica cosa fatta dai 5Stelle in
tutta la loro storia, potrebbe già bastare e avanzare per non renderla vana.

Per qualche giorno gli eterni padroni d’Italia furono pervasi da
un brivido di terrore: ma come, un uomo colto e perbene che non si
può né comprare né ricattare, un nemico dei compromessi al ribasso,un cultore dei beni comuni, un innamorato della Costituzione e del popolo sovrano, insomma un “moralista”e“giustizialista”(lui, vero garantista a 24 carati) sul Colle? Ma siamo matti?

Quanti di noi,in questi quattro anni, hanno provato a immaginare come sarebbe l’Italia se il Parlamento avesse eletto lui: forse avremmo conosciuto la nostra prima rivoluzione, quella della Costituzione. Certo non avremmo rivisto al governo B., Alfano, Verdini e altre sconcezze. Certo non avremmo questa Rai di regime. Certo avremmo ancora lo Statuto dei Lavoratori. Certo il governo non avrebbe potuto truffare 3,3 milioni di cittadini col trucco dei voucher. L’ultima battaglia referendaria in difesa della Carta fu un onore e un privilegio, anche perché ci consentì di combattere al suo fianco e, tanto per cambiare un po’, vincere.

La sera del 2 dicembre, al teatro Italia di Roma, eravamo tutti insieme per dire che “La Costituzione è Nostra”. Stefano si alzò nel teatro gremito e fu sommerso dai cori“Presidente! Presidente!”. Sarebbe stato un perfetto capo dello Stato, ma anche un ottimo premier, ministro, giudice costituzionale. Tutte cariche dovute, dunque mai ottenute.Grazie, Stefano: sarai sempre il Presidente che non ci siamo meritati.

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