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Valentina Martina
L’immigrazione come valore le prospettive di due economisti
29 Giugno 2017
2015-EsodoXXI
«La voce dei migranti nelle due manifestazioni italiane vuole una società plurale che non fomenti muri e paure». Reset, 27 giugno 2017 (c.m.c.)

«». Reset, 27 giugno 2017 (c.m.c.)

Prima Milano poi Bologna: due città che, in modi diversi ma con due importanti manifestazioni pubbliche a maggio 2017, hanno accolto la voce dei migranti. Il capoluogo lombardo ha visto la partecipazione di numerosi migranti e cittadini, assieme alle istituzioni; il capoluogo emiliano, al contrario, ha avuto come protagonista la sola voce dei migranti rivolta in primis contro la legge Minniti-Orlando.

Lo slogan della manifestazione di Bologna, NoOneIsIllegal, è sorta esclusivamente dal basso, dalle esigenze e dalla rivendicazione dei diritti da parte degli stessi migranti e non è stato accolto dalle istituzioni che sembrano comunque abbracciare una legge come quella Minniti-Orlando. Quest’ultima rappresenta un ostacolo evidente alle possibilità dei migranti di appellarsi contro le commissioni che devono valutare le richieste di asilo. I migranti stessi non ci stanno e lo dimostrano con la consapevolezza del proprio status di apolide che, come sosteneva Hanna Arendt, li porta ad essere considerati delle non persone. Due mobilitazioni piene di speranza, portate avanti da chi crede nel valore delle differenze culturali ed etniche: la voce dei migranti nelle due manifestazioni italiane vuole una società plurale che non fomenti muri e paure.

Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia solo negli ultimi decenni (in particolare tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta) ha adottato una politica di accoglienza nei confronti dei migranti che si è tradotta inevitabilmente in un’urgenza presente nel tessuto sociale. Già la Bossi-Fini ha dato vita a un processo di costante indurimento della condizione dei migranti, che s’inscrive perfettamente nel quadro socio-politico europeo. E i migranti, consapevoli dei fraintendimenti che hanno dato luogo a simili leggi, in queste recenti manifestazioni hanno richiesto una risposta in prima istanza politica, e poi socio-culturale, al razzismo e alla xenofobia.

Occorre partire proprio da qui, ovvero dal contesto sociale e politico dell’Europa, per adottare un punto di vista privo di pregiudizi e miti che alimentano il dibattito sull’immigrazione, che va considerato nel quadro generale delle politiche neoliberali. Considerando anche il caso delle presidenziali francesi di maggio 2017, c’è stato uno sforzo intellettuale da parte di alcuni economisti che hanno riformulato l’urgenza del problema dell’immigrazione, analizzando i miti che ruotano attorno ad esso. Tra chi, come Le Pen, ha portato avanti una campagna politica incentrata sulla sicurezza dei cittadini francesi e di conseguenza sulla paura dell’immigrato, e chi, come Macron, ha considerato i problemi dell’immigrazione in Francia a partire da una consapevolezza storica del periodo colonialista. Emerge, inoltre, la voce di studiosi che hanno fornito alcuni spunti per una ricostruzione del problema immigrazione.

Gran parte dei fraintendimenti generati dal dibattito sull’immigrazione sono dovuti a una mitologia, cioè a un insieme di rappresentazioni collettive radicate nei cittadini. Ed è proprio la potenza di questo mito che svela la sua contraddizione. Questa è l’ipotesi proposta da Éloi Laurent, professore di scienze politiche all’università di Stanford, nel suo libro Mitologie economiche (Neri Pozza 2017). Negli ultimi anni regna incontrastato il “mito socio-xenofobo” che, secondo l’economista francese, può essere descritto brevemente in questi termini: ci sono troppi migranti e poche risorse disponibili. L’immigrazione rappresenterebbe un costo economico non sostenibile. Tuttavia, i migranti sono in maggioranza giovani, attivi, in molti casi anche formati e rinforzano le dinamiche sociali dei Paesi in cui vivono. In realtà non è l’immigrazione in sé, ma la non integrazione che costituisce un costo economico considerevole. L’adozione di un approccio neoliberale ha dato luogo alla strumentalizzazione, in Europa e anche negli Stati Uniti, dello status dei migranti e degli stranieri.

Questa è la socio-xenofobia che secondo Laurent è figlia del neoliberismo. I Paesi del Nord Europa, considerati un tempo come modelli d’integrazione e d’accoglienza, stanno assumendo un atteggiamento di chiusura nei confronti dello straniero e del migrante. L’immigrazione sarebbe, secondo i cittadini europei, esclusivamente responsabile dei nostri mali e non un coadiuvante ai problemi relativi al mercato del lavoro. Questa è la tesi che invece riporta il libro di El Mouhoub Mouloud – professore di economia all’Università di Parigi Dauphine ed esperto di relazioni internazionali – che in L’immigration en France. Mythes et Réalités (Fayard 2017 non tradotto in italiano) svela i miti sull’immigrazione fornendo dati empirici.

Primo mito da scardinare, la definizione di quello che dovrebbe essere un Paese accogliente. Si tratta spesso di un mito diffuso, soprattutto in Francia, ma smentito da dati sul numero di rifugiati. La popolazione immigrata è costituita da meno di 6 milioni di persone in Francia all’inizio del 2015, e cioè l’8.9%, una cifra che, paragonata al dato di grandi paesi d’immigrazione come il Lussemburgo, la Svizzera, il Canada e la Nuova Zelanda dove si supera anche il 20%, non sembra essere poi così alta. La Francia, come l’Italia, non sembra essere propriamente una terra d’accoglienza. Lo dimostrano anche dati sui rifugiati: le richieste di asilo politico sono nettamente inferiori a Paesi come Germania, Regno Unito e Svezia. Mouloud propone alcuni spunti di riflessione per definire i contorni di una politica alternativa dell’immigrazione: il più interessante è costituito dalla creazione di un permesso di residenza permanente per sostituire la molteplicità di tutti quei decreti vigenti e favorire la mobilità dei migranti garantendo così i loro i diritti.

Una via, quella proposta dai due economisti, che accantona l’intolleranza che contraddistingue l’atteggiamento dei cittadini europei e che, attraverso una pulizia semantica con dati e numeri alla mano, pone al centro la necessità di partire dal valore della persona. Al di là della nazione d’origine e della fede professata: pretesti concettuali che hanno alimentato da sempre le discriminazioni. Quella sul valore della persona è una scelta che, almeno nel caso del territorio italiano, dovrebbe condurci all’approvazione della Legge sulla cittadinanza, un gran passo in avanti che farebbe dialogare comunità e istituzioni.

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