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Livio Pepino
L’identità prima delle alleanze nell’assemblea della sinistra
10 Giugno 2017
Sinistra
Le quattro condizioni perché la proposta Falcone.Montanari sia capace di mobilitare il popolo che vinse nel referendum del 4 dicembre.

il manifesto, 10 giugno 2017 (c.m.c.)

Dalla riproposizione di un maggioritario ormai privo di ogni appeal e di qualsivoglia praticabilità alla disinvolta rincorsa di proporzionali di importazione, di risulta o misti. Con la sola preoccupazione di arrivare al più presto al voto e di non intaccare il potere degli apparati di designare i futuri parlamentari.

Poi, in un giorno, è di nuovo cambiato tutto. La spallata referendaria del 4 dicembre, che ha chiuso una stagione politica fallimentare, non ha travolto – né era realistico pensarlo – un’idea di politica e un ceto di governo. E oggi il re è nudo. È in questo contesto che si colloca l’appello di Falcone e Montanari per un soggetto politico a sinistra del Pd: proposta interessante, soprattutto per il suo collocarsi nel solco della vittoria referendaria del 4 dicembre, ma non a qualunque costo, essendo sempre in agguato – come mostrano le prime reazioni – letture che tendono a riportarla nella prospettiva di un centrosinistra morto e sepolto o nella pura sommatoria dei vari (e non rigogliosi) cespugli nati fuori dal suo recinto.

Per non ripetere esperienze del passato ci sono alcune condizioni.

1) Prima i contenuti, poi gli schieramenti
Nella costruzione di un nuovo soggetto occorre abbandonare ogni logica di schieramento e puntare esclusivamente sui contenuti. Tanto più se si voterà con un sistema proporzionale (come è di fatto il Consultellum), il punto fondamentale sarà portare in Parlamento posizioni chiare e impegnative da immettere nel confronto politico in una prospettiva di medio termine e non di (irrealistiche) immediate alleanze. E il ricatto del “voto utile” o del “meno peggio” perderà di senso, qualunque sia la soglia di sbarramento.

2) La grande questione della diseguaglianza
Sui contenuti, la grande questione, evidenziata nell’appello di Falcone e Montanari, è quella della disuguaglianza, accentuata a dismisura dalla crisi. Alcuni – le destre, il Pd e i suoi satelliti – la considerano, nei fatti, un dato inevitabile, se non positivo, e ritengono che la ricetta per uscire dalla crisi sia interna al liberismo e che non possa prescindere dalla riduzione della spesa pubblica, dall’abbattimento dello stato sociale, dalla diminuzione delle tutele del lavoro, dall’espansione del privato, dall’investimento in opere faraoniche: è una linea politica che viene da lontano e solo chiudendo gli occhi si può pensare che, senza una sconfitta elettorale, possa cambiare nei tempi brevi.

Altri pensano che la strada sia quella opposta, cioè una rinegoziazione delle politiche europee a partire della esigenze dei paesi del Sud e un nuovo corso (finanziato con il taglio delle spese militari e di quelle per le grandi opere, una imposizione fiscale equa ed efficiente, il recupero delle risorse concesse a fondo perduto alle banche) fondato su un piano di interventi pubblici sull’obiettivo della piena occupazione, sulla razionalizzazione del welfare, sul reddito di cittadinanza, sulla riconversione ecologica, sul riassetto del territorio e delle infrastrutture del paese, sulla valorizzazione delle migrazioni e via elencando.

Sono due prospettive inconciliabili tra cui non esistono vie intermedie. Occorre scegliere in maniera esplicita senza furbizie tattiche (e il voto inglese di ieri mostra che una scelta netta può essere pagante anche in chiave elettorale);

3) Una forte discontinuità
Non si va da nessuna parte senza una forte discontinuità in punto di metodo, persone, linguaggio. Una discontinuità che accantoni apparati impresentabili (anche al di là delle loro reali responsabilità) e sappia aggregare movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città in un progetto di rinnovamento delle stesse modalità della rappresentanza.

Una discontinuità che sappia anche fare i conti con un sistema comunicativo semplificato, assertivo, spesso demagogico che non ci piace ma da cui non si può prescindere (pur mantenendone il necessario distacco critico). Già sentito, certo, e più volte. E negli ultimi dieci anni vi si è risposto con proposte verticistiche, burocratiche e perdenti come quella della Sinistra Arcobaleno del 2008 e di Rivoluzione civile del 2013… Cosa autorizza a pensare che, oggi, si possa voltar pagine?

Un punto di partenza c’è: la mobilitazione referendaria che ha dimostrato come, qualche volta, l’impossibile diventa possibile.

4) Le buone idee non bastano, serve l'organizzazione
C’è un ultimo problema. In tutti i recenti tentativi di costruzione di esperienze alternative ci si è mossi sul presupposto che le buone idee siano da sole capaci di produrre l’organizzazione necessaria (e sufficiente).

Non è così. Lo dico pur consapevole, da vecchio movimentista, delle degenerazioni burocratiche e autoritarie che si annidano nell’organizzazione. Contro queste derive va tenuta alta la guardia ma la sottovalutazione del momento organizzativo (e della sua legittimazione) è stata una delle cause principali della rissosità e della inconcludenza di molte aggregazioni politiche ed elettorali dell’ultimo periodo, a cominciare da quella di “Cambiare si può” (nata con grande entusiasmo e partecipazione ma presto paralizzata dalla mancanza di luoghi di decisione e, per questo, diventata facile preda di una nefasta e alienante occupazione).

C’è – pare – un po’ di tempo prima delle elezioni: sarebbe bene sfruttarlo sin dal 18 giugno.

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