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Wu Ming 2
Piccolo tour del disastro nella pianura padana
16 Maggio 2017
Post 2012
«Da Milano a Roncadelle, un viaggio sulle tracce del disastro urbanistico che affligge la Piana».

«Da Milano a Roncadelle, un viaggio sulle tracce del disastro urbanistico che affligge la Piana». Internazionale online, 15 maggio 2017 (p.d.)

I turisti calano dal torpedone armati di teleobiettivi e macchine fotografiche. Sciamano entusiasti nell’unica navata del centro commerciale Mega di Vimercate, si radunano sotto la cupola di metacrilato, studiano le iscrizioni alle pareti: il supermercato si definisce “controcorrente”, la parrucchiera è “ParrucChiara”. Mentre ammirano l’erba sintetica del presbiterio, una cliente li interpella, lo sguardo complice di chi ha colto un segreto.

“Siete qui per qualcuno di famoso?”.
“No, signora. Siamo in gita aziendale”.
La donna rimane interdetta, gli invasori non somigliano a impiegati in vacanza, anche se adesso si concedono un caffè, come nella classica pausa da viaggio organizzato.
In realtà, vero motivo della sosta è proprio la visita a questo scatolone grigio di negozi brianzoli, definito “mega” in un tempo remoto, il 1984, quando il gigantismo padano era ancora bambino. Oggi una struttura del genere, circa 2.500 metri quadrati, impallidisce di fronte al maxiprogetto del nuovo supermercato Esselunga di Vimercate sud, con 3mila metri quadrati solo per il settore alimentare e 1.800 per gli altri prodotti.
In compenso il Mega potrebbe rivendicare un primato, quello di essere il più antico centro commerciale della Lombardia, anello di congiunzione tra i mercati coperti di quartiere e le cattedrali dello shopping da svincolo autostradale. Purtroppo non esiste una cronologia ufficiale e le notizie sulla nascita di questi fabbricati si ricavano a fatica da feste d’anniversario e procedure fallimentari. Sono architetture prive di una storia pubblica, dove “il passare del tempo si svela soltanto attraverso la novità dei prodotti”. L’Atlante dei classici padani ne censisce 1.141 tra Piemonte, Lombardia e Veneto. Gli asili nido si fermano a 1.007.
Proprio dalla capitale di questa macroregione, Milano, è partita la gita aziendale di Padania classics per visitare alcuni epicentri del disastro psicourbanistico che affligge la “Piana”. Una cinquantina di fotografi e videomaker, giornalisti e architetti, critici d’arte e appassionati ha raccolto l’invito di Filippo Minelli ed Emanuele Galesi, che da sette anni catalogano e analizzano gli elementi costitutivi del paesaggio padano. Sul pullman è stato distribuito un kit aziendale, completo di penna, taccuino e macchina fotografica usa e getta. “Questo non è un viaggio passivo”, ci hanno spronato gli organizzatori, “qua bisogna produrre!”.

Il dépliant della “Gita 2017” la definisce infatti “una ricognizione partecipativa, una conferenza paradossale e uno scambio informale di idee”. L’obiettivo è quello d’interrogarsi sull’identità della “regione divenuta Macro” e sui meccanismi che ne hanno sfruttato lo smarrimento, tra compro oro e svendo cemento, palmeti e videoslot, Lega nord e grandi opere incompiute.
All’inizio del nuovo millennio, Eugenio Turri e Mimmo Jodice hanno condotto una ricerca per certi aspetti simile, sfociata nel libro Iconemi: storia e memoria del paesaggio. I due autori raccontano e fotografano la pianura lombarda isolando i segni che la caratterizzano. Come in un appartamento ci sono angoli e oggetti che fanno di quello spazio la nostra casa, così in un territorio ci sono elementi che più di altri definiscono il paesaggio. Turri e Jodice si soffermano sulle chiaviche dei canali, le rogge, le testate dei fontanili, i filari d’alberi, le cascine a corte chiusa. Il loro intento è un’educazione dello sguardo. Se non capiamo cosa dice il paesaggio, rischiamo di considerarlo soltanto uno spazio da riempire, senza preoccuparci di ciò che cancelliamo. E di ciò che aggiungiamo.
Minelli e Galesi ci spingono invece a studiare gli sgorbi che germogliano tra le Alpi e il Po. Rotonde, centri commerciali, tralicci, capannoni, piscine fuori terra, palme fuori luogo, statue neoclassiche da giardino, totem pubblicitari, cave/discariche, reti arancioni da cantiere, svincoli a quadrifoglio, centri massaggi, sushi wok, villette-su-terrapieno, ampi parcheggi. Dopo quarant’anni di cura del cemento, non si può più dire che quegli scarabocchi non hanno senso. A prima vista, una distesa di asfalto può sembrare incomprensibile, ma se un gruppo di ragazzini comincia a usarla per andare in skateboard, ecco che acquista un significato, malgrado quello originario rimanga un mistero. Allo stesso modo, poiché gli orrori del paesaggio padano sono vissuti ogni giorno da milioni di esseri senzienti, bisogna assumersi il compito di comprenderli, a partire dagli effetti che producono su chi li attraversa.

Ben Hur e Godzilla a Burago
Il cappuccino del centro commerciale Mega ci aiuta ad assimilare questa nuova consapevolezza, prima di risalire a bordo e riprendere il viaggio. Il pullman esce da Vimercate, attraversa un confine invisibile, e già costeggia le villette a due piani di un altro comune. Siamo a Burago, il paese della famosa – e quasi omonima – fabbrica di “macchinine”, fallita con arresti una decina d’anni fa. Dall’alto del finestrino, sbircio nei giardini di case e condomini. Luoghi dove prende corpo, in scala ridotta, l’ideale di paesaggio degli abitanti. Ed ecco manifestarsi, in mezzo alle aiuole, una sproporzionata rotonda di ghiaia, per consentire alle auto di manovrare più in fretta. Ecco piante, anfore, statue e fontanelle che sembrano scarti della scenografia di un film in costume, tipo Ben Hur e Godzilla contro i pirati dei Caraibi.
Ecco la versione bifamiliare dei colossali autolavaggi che punteggiano la Piana. Ed ecco la chiesa romanica di santa Maria in Campo, a ottanta metri dal guardrail dell’A4. Classificata al 41° posto tra i “Luoghi del cuore Fai”, secondo il suo sito internet “è tornata ad essere un centro […] di affettuosa attenzione da parte delle persone che vivono nei suoi dintorni”. Infatti, la siepe squadrata che le gira intorno sembra presa in prestito dal parcheggio di un motel. Perché nella macroregione anche l’affetto per il territorio si nutre di veleni.
Non è l’indifferenza che semina immondizie, ma al contrario l’ossessione per lo spazio, il bisogno di produrre e mettere a valore, il fastidio per ciò che appare vuoto e il desiderio irrealizzabile di riempirlo tutto, tutto, tutto. Fino al punto di costruire nuovi vuoti – dai pannelli pubblicitari ai camion vela alle rotonde – per il puro gusto di poterli farcire. Così la catastrofe non è il frutto esclusivo di amministrazioni scellerate, ma si diffonde anche attraverso le scelte individuali, dall’uso dell’auto al tempo libero, dall’insegna della ditta di famiglia al colore di un cancello antieffrazione. Se si trattasse di una sola grande opera, inutile e imposta dall’alto, la si potrebbe ancora giudicare una forma di colonialismo. Sentirsi vittime di un’entità che vomita cemento e insensatezza.
Ma dal momento che “il Disastro”, come lo definiscono Minelli e Galesi, si allarga per migliaia di ettari, dal demanio ai giardini privati, ci tocca ammettere che non siamo indigeni innocenti, e domandarci in cosa consista la nostra complicità.

Zingonia, la città ideale
Il primo contributo alla conferenza itinerante arriva da Carlo Sala, autore della prefazione all’Atlante dei classici padani. Siamo a Zingonia, un paese che il dépliant della Gita definisce “esperimento urbanistico e sociale d’interesse primario”. Fu costruito nei primi anni sessanta, nella bassa bergamasca, con l’idea di integrare in un unico agglomerato zona industriale e abitazioni. L’imprenditore Renzo Zingone sognava appartamenti per 50mila operai, ma nonostante il boom economico, la sua megalomania si rivelò un annebbiamento da abbuffata domenicale. Completati gli stabilimenti, la vendita delle case non ebbe fortuna. I cantieri si fermarono, molti palazzi restarono abbandonati, i servizi non andarono oltre l’ospedale e il centro sportivo. Il tutto spalmato su un’area troppo grande, senza piano regolatore, condivisa da cinque comuni.
Oggi Zingonia ha quattromila abitanti, più della metà sono stranieri, e il suo nome compare sui giornali locali per i blitz dei carabinieri “in stile Scampia”, lo spaccio di stupefacenti e il degrado. Di sicuro, non è un posto comodo dove abitare. Sala ce lo ricorda, parlando al microfono di fianco al guidatore e chiedendo scusa per la nota seriosa, in contrasto con il clima della comitiva. Non stiamo partecipando a un giro turistico nelle pene altrui, un safari trasgressivo nello sfacelo. Scopo della gita aziendale, e dell’intero progetto Padania classics, è quello di stimolare l’analisi critica.
Per tutta risposta, al termine dell’intervento gli altoparlanti diffondono le note di Boys, brano simbolo dei terribili ottanta, stampato nella mente di molti grazie al video supercafone con Sabrina Salerno in costume da bagno bianco. “Pezzone!”, annuisce contento il primo che riconosce il riff iniziale, mentre tra i sedili rimbalzano esegesi in bilico tra sarcasmo e nostalgia. Mi guardo intorno: la gran parte dei gitanti doveva avere tra i cinque e i sedici anni quando Sabrina Salerno cominciò a furoreggiare. Le sue hit italodisco fanno parte di noi. Come scrisse Rilke, “l’unica patria dell’uomo è la sua infanzia”, ma il patriottismo non è mai una virtù. Abbiamo sorbito la feccia, non per questo dobbiamo convincerci che sapeva di cioccolato.
Marco Revelli, nel suo Non ti riconosco. Viaggio eretico nell’Italia che cambia, si interroga sul proprio spaesamento, sull’incapacità di ritrovarsi nei luoghi di una vita, restando “fisicamente senza la terra in cui affondare le radici”. Ma in tutto il torpedone, l’unico che potrebbe dire altrettanto è Marco Belpoliti, sette anni più giovane del settantenne Revelli. Tutti gli altri vivono la condizione di “nativi escremenziali”, costretti a riconoscersi nel paesaggio della Piana, nelle macerie che li hanno cullati fin da bambini, senza per questo passare dal riconoscimento alla riconoscenza. Siamo caduti nella malta da piccoli, ma non vogliamo arrenderci all’assuefazione.
A Zingonia visitiamo la parrocchia di Santa Maria madre della chiesa, in un quartiere di garage dai portoni blu e di facciate condominiali di mattoni a vista. Il sagrato è un’aiuola spartitraffico, provvista di ulivo della pace, tris di cipressi e croce terracielo in rottami di metallo. Pezzi di grondaia, ipotizza qualcuno. Il piazzale antistante ospita una rotonda e quattro lampioni brontosauro che vegliano sulla sacralità del luogo. Nell’Atlante, il tempio è ribattezzato “bunker del Signore”, perché il suo ingresso con discesa agli inferi ricorda quello di un rifugio antiatomico. Secondo gli autori, la forma dell’edificio è un chiaro riferimento all’apocalisse neuroedilizia e un invito esplicito a “rintanarsi e pregare” in attesa “che ritorni l’ordine naturale delle cose”. Sfogliando il capitolo “Dal Macro al profano”, si rimane travolti da un’orda di chiese simili a fortilizi per guerre stellari. La salvazione che quelle mura simboleggiano ricorda più la sicurezza di un ministro dell’interno che la resurrezione di Gesù Cristo. Segno che la Padania è davvero uno stato mentale, capace d’insinuarsi anche nelle abitudini spirituali.
Intermezzo, sulla BreBeMi
Risaliti a bordo, ci lasciamo alle spalle la città ideale, sulle note di All that she wants degli Ace of Base. Ma una colonna sonora più adatta, per il miraggio tossico di Renzo Zingone, sarebbe Padania degli Afterhours, che in due versi coglie il vero genius loci di questo territorio: “Lotti tradisci e uccidi per ciò che meriti / fino a che non ricordi più che cos’è”. Una voracità sterile e frettolosa, che non conosce confini e genera incompiutezza, perché non sa finire. E infatti Zingonia ci insegue, come le terre di Mazzarò nella novella La roba di Giovanni Verga. Credi di esserne uscito, ma appena domandi “Dove siamo?”, ti senti rispondere “A Zingonia”. Cioè a Verdello, o a Verdellino, a Boltiere, a Ciserano, a Osio sotto. Perché Zingonia in realtà non esiste, o meglio è il nome di quel paesaggio ibrido, modulare e ripetibile all’infinito, che ci accompagna tra mareggiate di déjà vu, fino all’ingresso dell’autostrada A35, la famigerata BreBeMi.
L’infrastruttura, inaugurata tre anni fa, è già oggetto di barzellette e adagi popolari, che prendono di mira le sue corsie vuote (transiti pari a un terzo della media nazionale), le tariffe troppo care (13 euro per 62 chilometri), il finanziamento “tutto privato”, il contributo pubblico di 320 milioni a fondo perduto, gli sconti pagati dai contribuenti, l’assenza di aree di servizio. Senza contare i 900 ettari di suoli agricoli asfaltati, perché a dispetto della fede nel calcestruzzo, la terra della macroregione non è ancora consumata al 100 per cento, le rogge e i fiumi non sono tutti tombati, e gli iconemi di Turri e Iodice resistono nei ritagli di campagna, insieme a lepri, fagiani e lucciole.
Chi ha tentato di opporsi a quest’ennesima rapina di suolo, lo ha fatto anche in nome di una facile profezia: l’impatto di un’autostrada non si limita mai a una striscia di territorio. Farà nascere nuove strade, nuove piattaforme per la logistica, nuovi svincoli, quartieri e fabbricati. Anzi: poiché la congestione non si risolve aggiungendo strade, si può dire che gli effetti collaterali urbanistici di una nuova arteria sono in realtà il suo vero obiettivo. Come volevasi dimostrare, il 20 gennaio 2017 la società di progetto Brebemi spa ha annunciato l’avvio dei lavori per il raccordo tra la A35 e la A4, con casello autostradale a 11 piste. Secondo Legambiente, altri 60 ettari consumati. Ed è solo l’inizio.
Appena un mese prima, lungo la stessa direttrice, il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Delrio aveva tagliato il nastro della nuova linea ad alta velocità Milano-Brescia. La osservo correre, tutta in viadotto, proprio accanto all’autostrada e mi domando che senso abbia collegare due città con due ferrovie, una per i treni normali e una per le Frecce, quando la distanza che le separa (77 chilometri) permette di raggiungere l’alta velocità solo per pochi minuti. Anche in questo caso, l’obiettivo dev’essere un altro, non quello di migliorare la mobilità. Si tratta di far pagare caro qualche minuto di tempo risparmiato, un quotidiano a scelta e uno spuntino, massacrando nel frattempo le alternative più economiche. Come scrisse Ivan Illich, quando cresce la velocità negli spostamenti, diminuisce l’uguaglianza sociale.

La cittadella dello shopping di Orzinuovi
Raggiungiamo la zona Pip di Orzinuovi, sigla che sta per “Piano insediamenti produttivi”. Nel gergo dei classici padani, quest’area industriale è lo strip della città, cioè il suo viale-vetrina all you can eat, completo di rotonda con archi trionfali, portale d’accesso in tubi d’alluminio, parcheggi smisurati, centri commerciali attivi e in rovina, fabbriche dismesse, villette, rigurgiti agricoli, toponomastica coloniale (viale Adua) e monumento all’alpino.

Pranziamo al ristorante sushi wok dell’Iper Tosano, che col suo self service a base di pizza, salsiccia, surimi e futomaki sembra il corrispettivo gastronomico degli insani accostamenti del paesaggio padano. Niente di meglio, per digerire, di una passeggiata lungo lo strip, fino agli arcobaleni malati dell’Orceana park. Se l’assurdo, come scrisse Camus, è “il malessere di fronte all’inumanità dell’uomo stesso”, allora in questa landa ce n’è un intero giacimento. Tutto lo spazio è progettato per le macchine, con una stolida avversità contro chiunque intenda viverlo a piedi. Ciononostante, raggiungiamo la meta. È un centro commerciale abbandonato, dopo un’esistenza di soli quattro anni. C’erano un bar ristoro, una trentina di negozi, la libreria Edison, l’Upim, il bowling e sette sale cinematografiche.

Emanuele Galesi ci spiega che la ditta costruttrice aveva debiti con la banca, non li poteva saldare e così l’istituto le ha concesso un prestito di cento milioni, sperando che l’investimento nella “cittadella dello shopping” rimpinguasse le tasche del creditore. Risultato: come dare la scossa a una rana morta. Chiuso per fallimento nel 2013, il complesso è invecchiato in fretta, e ora è talmente malandato che pare in cancrena da decenni. Buchi di vermi giganti crivellano le pareti e l’intonaco si stacca in brandelli ustionati. Bancali di legno rimpiazzano i chiusini delle fogne, saccheggiati e rivenduti a peso come denti d’oro. Eppure, mentre cammino tra i pozzetti scoperchiati, i cocci di vetro e le scritte naziste, provo un senso di liberazione, come se l’abbandono avesse prodotto un’oasi, un territorio finalmente lasciato a sé stesso, senza progetti e calcoli.

Il Disastro è ormai talmente dispiegato che non si può pensare di estirparlo. L’abbattimento degli ecomostri è una misura eccezionale, quindi per lo più occorrerà tenerseli e reinventarli. In questi quattro anni, il sindaco di Orzinuovi non ha brillato nel proporre alternative per l’Orceana park. Tuttavia, se oggi qualcuno provasse a utilizzare lo spazio, quello stesso sindaco potrebbe multarlo e allontanarlo, “a tutela della sicurezza e del decoro”, come prevede il decreto Minniti. Dopo la gita aziendale 2017, lo strip di viale Adua sarà inserito di sicuro tra quelle “aree su cui insistono complessi monumentali interessati da consistenti flussi turistici”, nelle quali si applica il cosiddetto “daspo urbano”.

Una Stonehenge di calcestruzzo
Monumentali sono i cinque piloni della Corda molle, una Stonehenge di calcestruzzo e tondini, che si eleva tra i campi a sudovest di Brescia. Le grandi colonne dovevano sorreggere un cavalcavia, sopra il raccordo autostradale Ospitaletto-Montichiari. Ma la bretella, simile a una corda allentata, era talmente molle che si è disfatta, e invece di collegare A4, A21 e BreBeMi, è morta sulla riva della roggia Quinzanella, a un chilometro da dove ci scarica il pullman.

Su uno dei giganteschi menhir, sopra a vecchi rattoppi di vernice grigia, campeggia la scritta “€spropri 2007 mai pagati. Vergogna!”. Il cantiere interrotto, infatti, non si è lasciato dietro solo i pilastri, ma anche un lotto di strada incompleta, circa tre chilometri a due corsie, che avrebbero dovuto raddoppiare la provinciale 19. Ora invece c’è soltanto un corridoio di ghiaia, giovani pioppi, tubi corrugati e frantumi. I lavori, all’inizio, erano in capo a Centro padane, la società che gestisce, da 45 anni, l’A21 Piacenza-Brescia. Nel 2012, però, Anas ha indetto un nuovo bando per l’autostrada e se l’è aggiudicato il gruppo Gavio.

Intoppi, inciampi e direttive hanno ritardato il passaggio di consegne, così la gestione è ancora in mano a Centro padane, ma non gli investimenti. La Corda molle fa parte di questi ultimi e pertanto rimane in sospeso, insieme ai bonifici per i terreni espropriati. Intanto la zona si è trasformata in una discarica dove cubi di gommapiuma fradicia si mescolano a teli di plastica per minacciare l’acqua di un canale d’irrigazione. Sullo sfondo la cascina Lama, con i silos per il foraggio e l’architettura rurale, è talmente smarrita che pare un rifiuto buttato insieme agli altri.

“Sembra il gran tour dell’ottocento a visitar le ruine”, scherza Michele Santoro di Legambiente, con l’occhio sul mirino della macchina fotografica. E se non fosse per la miseria della campagna ferita, ci si potrebbe anche abbandonare al fascino perturbante di questa necropoli.

“L’Incompiuto”, mi suggerisce Andrea Masu, “è lo stile architettonico più importante del novecento italiano, sia per la quantità delle opere che per la coerenza delle sue forme. Con il collettivo Alterazioni video abbiamo censito centinaia di costruzioni in tutta la penisola, soprattutto in Sicilia, e chiediamo che vengano riconosciute come patrimonio artistico-culturale. Luoghi della memoria, capaci di raccontare la storia recente del nostro paese”. Uno stile talmente autorevole, che già vanta tentativi di imitazione. Ripenso al serbatoio idrico a forma di colonna dorica che abbiamo ammirato tra Osio Sotto e Levate. Una struttura da acquedotto, di quelle che di solito rimangono anonime, o al massimo ospitano il nome di una località, come a Zingonia e Boltiere. In quel caso, invece, grazie alla fantasia dell’architetto Gambirasio, la torre piezometrica diventa un tempio greco incompiuto, appena iniziato, nuovo di pacca ma limitato a una sola, gigantesca colonna.

I gitanti, nel frattempo, si preparano a cingere uno dei piloni con un abbraccio collettivo, applicando al cemento i princìpi della silvoterapia. Se abbracciare gli alberi promette benessere ed energia positiva, che effetto ci si deve aspettare dal contatto affettuoso con un’autostrada interrotta? Nel dubbio, mi astengo dal rituale. Ammetto che avrei preferito un attacco psichico, con le onde cerebrali di tutta la brigata rivolte contro l’insidioso monumento. Tuttavia, rifletto, che colpa ne ha il pilastro, se l’hanno abbandonato qui? Forse consolarlo per la sua solitudine è un gesto che non gli andrebbe negato. Ci si può prendere cura del disastro come di un male incurabile, lenendo le piaghe che ha disseminato e allo stesso tempo impedendo che ne diffonda ancora?

Ritorno al futuro
L’ultima tappa della gita è a Roncadelle, tra i comuni d’Europa con la più estesa superficie destinata a imprese commerciali: 8,7 metri quadrati per ogni abitante. Mi aggiro nel parcheggio del centro commerciale Brescia 2000, battezzato così ben prima dell’alba del secondo millennio. Saracinesche abbassate e balconi deserti occhieggiano nel gialloverde carioca dell’edificio, a indicare che il duemila è piuttosto diverso da come ci si aspettava. Cerco un angolo dove fare pipì, vicino a una batteria di cassonetti dell’immondizia.

Quando mi giro, i miei compagni di viaggio stanno risalendo sul pullman, senza fretta. Allungo il passo per raggiungerli, ma una strana inquietudine mi trattiene. Tutto d’un tratto, il piazzale d’asfalto si è animato di persone, e decine di clienti si dedicano agli acquisti. Indossano vestiti lucidi o di stoffe catarifrangenti. Parlano ad alta voce, ridendo allegri come deejay radiofonici. Si muovono compatti su strisce semoventi tipo tapis roulant, e i pochi che camminano hanno la stessa andatura, il moonwalk di Michael Jackson. Le auto in manovra ricordano la vecchia Renault Espace, ma le forme sono avveniristiche e le lamiere scintillanti. Dietro il centro commerciale si alzano grattacieli di plastica e vetroresina, mentre il cielo è offuscato da piccoli elicotteri monoposto. Fossimo di ritorno da un rave, potrei anche spiegarmi certe allucinazioni, ma in una gita aziendale le droghe lisergiche sono fuori posto.

In un’aiuola curatissima, cresce una vite con tanto di cartello: vite. È l’unica pianta dei dintorni, lindi e puliti come un cartongesso appena posato.

Poi li metto a fuoco meglio: una decina di ragazzi con la maglia metallizzata del Brescia, lo scudetto tricolore appuntato sul petto e la stella per chi si aggiudica 10 campionati. Allora capisco. Questo è il 2017 come lo sognavano trent’anni fa, senza inciampi o magagne di mezzo. Spettri dell’immaginario, fantasmi di un futuro invecchiato, Brescia 2000 vista da Brescia 1980.

Un brivido mi corre lungo la schiena, mentre ricordo quel racconto di William Gibson (Il continuum di Gernsback) in cui il protagonista ha visioni molto simili a queste. E come lui mi rendo conto che il vero futuro degli anni ottanta, il nostro presente, non è certo piacevole, con le sue catastrofi. Eppure, poteva essere molto peggio. Poteva essere perfetto.

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