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Alessandra Ziniti
“Aiuto, stiamo affogando” Così la burocrazia italiana fece morire 60 bambini
9 Maggio 2017
2017-Accoglienza Italia
Se chi governa sapesse governare e decidesse che salvare vite umane viene prima delle competenze allora la burocrazia sarebbe uno strumento di salvezza, e non uno strumento di morte.
Se chi governa sapesse governare e decidesse che salvare vite umane viene prima delle competenze allora la burocrazia sarebbe uno strumento di salvezza, e non uno strumento di morte.

la Repubblica, 9 maggio 2017

«PER favore, stiamo morendo. Per favore, 300 persone, stiamo morendo ». Il lucido terrore, la voce incredula e supplicante di Mohanad Jammo, medico siriano in fuga dalle bombe con la moglie e i tre figlioletti, è un pugno allo stomaco che stordisce in giorni in cui la legittimità della presenza delle navi delle Ong a ridosso delle acque libiche e il loro operato sono fortemente messi in discussione. Le registrazioni audio pubblicate sul sito dell’Espresso delle conversazioni telefoniche dell’11 ottobre 2013 tra la sala operativa di Roma della Guardia costiera e un grosso barcone in balia delle onde nel Canale di Sicilia dopo essere stato mitragliato da una motovedetta libica raccontano il drammatico e dimenticato retroscena (su cui nessuna Procura ha mai indagato a fondo) di uno dei più grossi naufragi della storia. Appena otto giorni dopo quello davanti alle coste diLampedusa, a rovesciarsi in un tratto di mare tra l’isola e Malta, fu un grosso barcone di legno su cui viaggiavano 480 profughi siriani, quasi tutte famiglie. Annegarono in 268, tra cui 60 bambini mentre, vergognosamente, Italia e Malta si rimpallavano la “competenza” sul soccorso e la nave Lybra della Marina militare rimaneva ferma per più di cinque ore in attesa di ordini per poi arrivare sul luogo del naufragio quando era ormai troppo tardi.

L’audio delle conversazioni tra il dottor Jammo, a bordo del barcone che stava già imbarcando acqua, e gli operatori che rispondevano alle chiamate di soccorso alla sala operativa di Roma è sconcertante. Un’ora e un quarto dopo aver ricevuto la prima richiesta di soccorso, con le coordinate navali precise e il numero elevatissimo di bambini, donne e uomini in gravissimo rischio di vita, a Roma continuano a suggerire ai migranti di chiamare Malta. «Signore, ti ho dato il numero dell’autorità di Malta. Siete vicino Malta. Vai, vai, chiama Malta direttamente, loro sono lì».
A nulla serve il grido disperato che arriva dal barcone dove l’acqua è ormai alta più di mezzo metro sul fondo e ha invaso la stiva. «Per favore, ho chiamato Malta. Ci hanno detto che siamo vicini a Lampedusa più che a Malta». E poi, scandendo le parole: «Stiamo morendo, per favore, stiamo morendo, 300 persone, stiamo morendo».
Niente da fare. Da Roma, con molta flemma, sanno solo rispondere: «Hai chiamato Malta? Devi chiamare Malta, signore, Stai parlando con Italia». «Sì, sì, Italia. Lampedusa è in Italia — insiste disperato il medico siriano che è ormai agli sgoccioli con il telefono dopo due ore di chiamate — Non abbandonateci, il credito è finito. Siamo senza credito. Se tagliano la linea, per favore, hai il mio numero ora, chiamami tu».
Ma da Roma l’unica chiamata che parte ben tre ore dopo è verso la sala operativa di Malta per una burocratica contesa sulla competenza di quel soccorso. I maltesi fanno notare che la nave più vicina è una della Marina militare italiana, ma nulla si muove fino alle 17.07 quando è Malta a chiamare per dare notizia dell’avvenuto naufragio.
«Il nostro aereo ha visto il barcone rovesciarsi, la gente è in acqua, è urgente, il barcone è affondato ». «Ma è lo stesso barcone? », chiedono da Roma. Sì, lo stesso che per quattro ore e mezza ha invocato aiuto invano. Solo a quel punto intervengono Italia e Malta, i superstiti vengono recuperati e divisi tra i due paesi. A Porto Empedocle sbarcano cinque bimbi piccolissimi soli che, un mese dopo, solo grazie a Repubblica sono stati ricongiunti ai genitori, finiti a Malta, che li credevano ormai morti.
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