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Paolo Di Paolo
Racconti partigiani
23 Aprile 2017
Resistenza
A settantadue anni dalla Liberazione racconti di resistenza . Articoli di Melania Mazzucco, Paolo Di Paolo e Enrico Brizzi La Repubblica, "Robinson", 23 aprile 2017 (c.m.c.)

VITE PARTIGIANE
di Melania Mazzucco,

«Per il 25 aprile, a settantadue anni dalla Liberazione, scrittrici e scrittori (nati molto tempo dopo il 1945) raccontano le storie di uomini e donne che resistettero all’occupazione nazifascista. Sono biografie, lettere e ricordi da conservare perché la nostra memoria non vada perduta».

Chi non ha memoria non ha futuro. Così diceva Carla Dappiani, intervistata alla presentazione del film di Daniele Segre Nome di battaglia: donna (2015), di cui, insieme ad altre partigiane piemontesi, era protagonista. Con lapidaria efficacia, riassumeva il senso di quell’opera: ma anche delle altre, realizzate negli ultimi anni da cineasti e film-maker di diversa formazione, genere e provenienza (penso a Bandite di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini, 2009, e a Tutto il bene avevamo nel cuore di Giuseppe Rolli, 2016).

Ma non solo: in questo primo scorcio del ventunesimo secolo non si contano le memorie, le biografie, le microstorie, le antologie, i romanzi, gli spettacoli teatrali che hanno per tema la Resistenza. Anzi, le Resistenze. Sembra l’irresistibile ritorno di un fantasma perturbante. Dopo la fioritura del periodo postbellico, culminata col documentario di Liliana Cavani La donna nella Resistenza (1965) e col Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1968), l’argomento infatti era stato relegato a materia di studio storico, e di veemente scontro politico e ideologico. L’ultimo degli scrittori partigiani, Giulio Questi — coetaneo di Meneghello, Calvino, Revelli — intuendo la dissonanza della propria voce dalla vulgata resistenziale ormai dominante, aveva preferito lasciare nel cassetto i suoi racconti, Uomini e comandanti, apparsi solo nel 2014 (ma il singolare slittamento cronologico li ha invecchiati come un vino prezioso, permettendo ai lettori di apprezzarne il tono ironico e feroce, la durezza scabra e antiretorica).

Nonostante le nuove prospettive di ricerca, inaugurate dal volume capitale di Claudio Pavone, Una guerra civile (1991), le lacerazioni non si sono sanate, ma anzi, approfondite: da una parte un revisionismo sempre più aggressivo, dall’altra un revival affatto nostalgico ( penso agli Appunti partigiani, le canzoni militanti riproposte dai Modena City Ramblers nel 2005). Intanto tornavano nelle sale e sugli scaffali delle librerie film coi partigiani ( I piccoli maestri di Daniele Luchetti, 1998) e libri sui partigiani. Partigiani inediti, scomodi, dimenticati o rimossi. Partigiani di pelle nera, come Giorgio Marincola, al centro di Razza partigiana di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; partigiani assassini, come nei libri di Giampaolo Pansa, Sergio Luzzatto e Mirella Serri — i quali, pur dissimili nelle intenzioni, nel metodo e nella forma, hanno suscitato violente polemiche e settari rifiuti, dimostrando che il ciclo delle vendette non si è ancora interrotto.

Però fra le Resistenze ritrovate oggi predomina quella delle donne. Perché infine, come auspicava Ada Gobetti, anche “la resistenza taciuta” — questo il titolo del primo studio storico di Rachele Farina e Anna Maria Bruzzone, apparso nel 1976 (il sottotitolo esplicitava: dodici vite di partigiane) — è divenuta una resistenza raccontata. Ma come? E soprattutto: a chi?
In qualche modo, si sta componendo un’opera collettiva, una fotografia di gruppo con messa a fuoco selettiva. Si tratta di recuperare storie, con pazienza, raccontare vite colpevolmente cancellate, far ascoltare, finché ancora possibile, le voci delle protagoniste: donne qualsiasi che divennero eroine loro malgrado, perché fecero una scelta.

Prendo a esempio due libri diversissimi: Scenari di guerra, parole di donne di Patrizia Gabrielli ( 2007), che raccoglie le voci di dozzine di donne toscane tratte dalle scritture custodite presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, e Gabriella Degli Esposti mia madre di Savina Reverberi ( 2017), biografia della partigiana emiliana torturata e fucilata dalle SS nel 1944. E lo spettacolo teatrale di Susanna Gabos, Ora veglia, il silenzio e la neve (2010), sulle giovani partigiane trentine Ancilla “ Ora” Marighetto e Clorinda Menguzzato. Ritratti concreti, disadorni ed efficaci come scatti di figure non in posa.

Quanto ai destinatari, le partigiane non hanno dubbi. I ragazzi italiani, interrogati recentemente su cosa si festeggiasse il 25 aprile, per lo più non hanno saputo rispondere. Tina Anselmi e Marisa Ombra si rivolgono perciò alle giovanissime: una nipotina immaginaria di undici anni la prima, nella sua intervista pedagogica, Zia, cos’è la Resistenza? ( 2003); una quattordicenne la seconda, nel suo libro di ricordi Libere sempre: una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi ( 2012). Le decane passano idealmente alle nipoti il testimone della libertà e della memoria.

Ma anche del racconto. Perché forse solo chi racconta un tempo che non è stato il suo può decifrare la filigrana dei fatti, andare oltre la burocrazia dei torti e delle colpe. Le nipoti, e i nipoti, non sono solo il pubblico di queste storie. Ne sono ormai gli autori. L’ultima è Rossella Schillaci, ideatrice e regista di Libere, una sinfonia di immagini e voci che racconta il movimento di resistenza delle donne. Un film di repertorio, un montaggio di fotografie, manifesti, volantini, filmati e registrazioni audio tratti dagli Archivi nazionali della Resistenza.

Leitmotiv: mani femminili che estraggono bobine e nastri da scatole ingiallite, che sfogliano faldoni e schedari, per scoprire, tra migliaia di reperti muti, volti e corpi di donne. Fotografate coi loro compagni nelle malghe di montagna, sui sentieri sassosi, nella pianura con l’immancabile bicicletta accanto, nelle fabbriche e nelle code per il pane. Presenti sempre, eppure per tanto tempo invisibili. Le voci, lucide e orgogliose ( ma anonime purtroppo, perché il film non ha didascalie), rivendicano le ragioni della scelta di resistere, e l’importanza del loro ruolo.

Le partigiane sono rimaste nella memoria al più in quello subalterno e vagamente romantico di “ staffette”. Eravamo ufficiali di complemento, spiega invece una di loro: portavamo ordini, sceglievamo gli itinerari per le bande, aprivamo la strada al loro ingresso nei borghi, trasportavamo esplosivo al plastico, quando nessuno sapeva neppure cosa fosse. E alcune avevano il fucile, e sapevano combattere. Nel racconto “ postumo”, la Resistenza si rivela soprattutto come un impetuoso movimento di emancipazione, che anticipò il femminismo. Ragazze spesso giovanissime — operaie, studentesse, sorelle di soldati — ma anche mogli e madri, si ribellarono al soffocante modello femminile imposto nel Ventennio, scoprendo nella Resistenza un’occasione di riscatto e libertà.

Settantamila donne secondo l’Anpi parteciparono ai Gruppi di Difesa, trentacinquemila le combattenti. Un esercito neanche tanto piccolo — di cui però l’Italia libera ebbe poi paura. Diede loro il voto, ma poca rappresentanza, tolse loro il lavoro al ritorno degli uomini dalla guerra e dalla prigionia, le ricacciò nei ruoli prestabiliti e le dimenticò. Nessuna delle quasi tremila giustiziate o uccise in combattimento è divenuta un’icona. I nomi di Cleonice Tomassetti, Iris Versari, Irma Bandiera, solo per citarne qualcuna, evocano un sussulto solo agli specialisti.

Per questo, raccontare si deve. Per nuovi occhi, con nuovi occhi. Registi, scrittori, teatranti, storici, cantanti, lo stanno facendo. Insieme, divisi, ma mossi dalla stessa esigenza. Perché, come scriveva Massimo Zamboni in L’eco di uno sparo (2015), il teso memoir sul nonno fascista assassinato nel 1944 da un partigiano, poi a sua volta ucciso da un ex gappista, «tocca ai nipoti raccontare, sottraendo ai genitori un compito che non avrebbero potuto svolgere con giustezza; tocca a noi questo scegliere o tralasciare, sapendo che ogni parola nostra o azione avvicinerà la pace o il male che devono arrivare».

LUNGO I SENTIERI
DELLA RESISTENZA
di Enrico Brizzi

«Un fazzoletto donato e la promessa di farlo rivivere lungo la Linea Gotica, sul filo delle montagne. Raccogliendo la testimonianza dei luoghi dove l’Italia, tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45, fu lacerata da un “immenso dolore”. Storia di un viaggio nella Storia».

Nella Bologna dei primi anni Ottanta la vita di noi giovanissimi aveva come luogo principe il cortile. Era lì che, una volta assolti gli obblighi scolastici, si prendevano le misure al mondo e ci si addestrava a crescere come animali sociali; il gioco — calcio, nascondino, corse in bici, battaglie fra indiani e cowboy — era la grammatica comune grazie alla quale ognuno di noi imparava a misurarsi con i coetanei, a valorizzare il proprio carattere e a gestire le proprie debolezze.

La ricchezza del cortile era data anche dal suo essere agorà, foro, social club per uomini e donne di generazioni diverse.

Osservando di sottecchi l’agire di cugini e zii ci preparavamo a diventare adolescenti, giovanotti, ragazzi grandi; poi c’erano i vecchi, patriarchi e matriarche ormai in pensione, i nostri nonni e i loro coetanei, gente che in gioventù aveva vissuto esperienze straordinarie, e non si faceva pregare troppo per raccontarcele.

Fra quanti avevano fatto la guerra, il più ascoltato era il signor Giancarlo; era diventato partigiano ancora adolescente, e quando ci raccontava di quelle stagioni epiche e spaventose non si dava mai un tono da eroe. Sabotare le attrezzature dei Tedeschi, sfuggire ai rastrellamenti, nascondersi e imbracciare un’arma, nelle sue parole erano state cose necessarie, non motivi di vanto. Dare il suo contributo ad abbattere la dittatura e liberare l’Italia dall’occupante straniero era qualcosa che, semplicemente, “ gli era toccato fare” per rispondere a un senso di giustizia, e la sua modestia me lo faceva ancora più caro.

Sono trascorse molte primavere, da allora; chi era bambino oggi è padre, e molti fra gli anziani di allora non sono più fra noi. Qualche tempo fa il signor Giancarlo mi ha fatto sapere che avrebbe gradito una visita. Sapeva della mia passione per i viaggi a piedi, e consegnandomi il suo fazzoletto da partigiano mi ha detto: « Ormai sono vecchio. Fammi la cortesia di portarlo in giro tu, che hai ancora le gambe buone».

Così ho riposto il fazzoletto nello zaino, e appena la primavera ha liberato creste e versanti dalla neve sono partito per un viaggio lungo il filo d’Appennino, per ripercorrere quella Linea Gotica che ha diviso l’Italia in due nella stagione più tragica che il nostro Paese si sia trovato ad affrontare. Nel lasciarmi alle spalle il mare di Rimini per risalire verso il cuore della Penisola, ancora non sapevo quante e quali storie avrei incrociato lungo il mio percorso verso il Tirreno. Nel corso di due settimane di cammino, praticamente non sarebbe trascorso giorno senza trovare traccia dell’immenso dolore che investì l’Italia fra l’autunno 1943 e la primavera del ’45.

Sulle prime alture romagnole investite dalle battaglie ingaggiate dagli Alleati per sfondare la “ Linea dei Goti” sorgono i musei di Gemmano e Montegridolfo, ma i racconti più autentici escono dalla bocca dei vegliardi che, davanti a un bicchiere di vino, ancora si commuovono a ricordare quei giorni di barbarie, suppliche inascoltate e morti insepolti; a San Marino si può entrare nelle gallerie che ospitarono gli sfollati della Riviera, terrorizzati dalle tempeste di fuoco e d’acciaio che si abbattevano sulle proprie case; lungo la riva del Senatello si trova il luogo dove furono fucilati gli “ otto martiri” bollati come banditen, e proseguendo verso l’interno si raggiunge Tavolicci, una frazione annichilita dalla furia dei Tedeschi in ritirata nell’estate del ’44.

La repressione contro i partigiani e l’inumana “guerra ai civili” s’intreccia con fatti d’armi che videro fianco a fianco gli irregolari del Cln e gli eserciti dei “liberatori” — che non sempre, come noto, si comportarono da gentiluomini — come a Monte Battaglia, la cui antica rocca fu testimone di un simultaneo assalto di partigiani e truppe americane; la lotta fratricida, le delazioni e le manovre a tenaglia non risparmiarono neppure le “Foreste sacre” tra la sorgente del Tevere, l’Eremo di Camaldoli e la fonte dell’Arno; al passo della Futa un enorme cimitero di guerra germanico ricorda che a pagare il conto dell’orrore furono anche i giovani tedeschi, mentre scendendo verso Bologna si giunge a Monte Sole, teatro dell’orrenda strage di donne, vecchi e bambini compiuta dalle SS di Reder, che nell’autunno ’44 si lasciarono alle spalle settecentosettanta cadaveri e interi villaggi ridotti a macerie fumanti.

Il culto dei comandanti partigiani caduti in zona, da “ Lupo” Musolesi a Toni Giuriolo, protagonista del romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, appare spoglio di retorica se lo si confronta con le memorie di quanti presero ancora giovanissimi la via della montagna, come Enzo Biagi, cresciuto ai piedi del Corno alle Scale; appena più in là, seguendo il sentiero 00 e la sua variante moderna, l’Alta Via dei Parchi, si raggiungono il passo dell’Abetone e i valichi ai piedi dei quali venne proclamata in territorio modenese e reggiano la Repubblica di Montefiorino, abbattuta dai nazifascisti ma abbastanza forte da risorgere e mantenersi libera sino al termine del conflitto.

Dal passo di Pradarena, sopra Ligonchio, si scende fra i boschi della Garfagnana, e da Barga si riprende quota verso le Apuane, dove camminamenti, bunker e muraglie anticarro sono ancora intatti; qui, fra le montagne del marmo, l’epos partigiano della Divisione Lunense e del Gruppo Valanga incontra quello di truppe alleate che all’epoca apparvero a dir poco esotiche — i Nisei hawaiani, i Brasiliani, i battaglioni di soli blacks statunitensi. Ci si confronta con gli episodi di collaborazione e le incomprensioni, talora fortissimamente volute, fra comandi alleati e partigiani, come il “malinteso” che causò la morte di Miro Luperi, il comandante “Reno”, abbastanza coraggioso da attaccare per primo le forze germaniche convinto di ricevere un appoggio che non sarebbe mai arrivato.

È difficile trattenere le lacrime osservando le foto delle piccole vittime ammassate nella chiesa di Sant’Anna di Stazzema; erano bimbi non diversi da noialtri quando ancora trascorrevamo i pomeriggi in cortile. Mentre si scende verso le spiagge della Versilia è fatale sentir riecheggiare in testa i versi orgogliosamente rabbiosi che Calamandrei dedicò al feroce Kesselring; ormai, avanzando nel vento salmastro, non possiamo più credere che “gli uni e gli altri si equivalevano”. No. La nostra Italia, l’Italia di cui vogliamo tenere viva la memoria, è quella dei ribelli della montagna, del presidente Pertini, del signor Giancarlo.

Qualcuno, ancora ragazzo, trovò il coraggio per fare la scelta più difficile, e siamo fieri di essergli stati amici per tutta la vita. Ormai il mare ci balugina di fronte, e dopo tanti giorni in montagna stiamo per tornare in mezzo alla gente: è tempo di tirare fuori dallo zaino il fazzoletto che ci è stato donato, e mettercelo al collo ché tutti possano vederlo.

GENERAZIONE FENOGLIO
di Paolo Di Paolo

«Margherita, figlia dell’autore del “Partigiano Johnny”, racconta in quest’intervista eredità e memoria del grande scrittore simbolo della Resistenza. “Quello che mi stupisce è l’affetto dei lettori, soprattutto giovani. Vengono in visita alla tomba e gli lasciano una sigaretta”».

Quello che mi stupisce, ogni giorno di più, è l’affetto dei suoi lettori. Credo che gli avrebbe fatto piacere, se fosse ancora qui. Soprattutto quando arriva dai più giovani. Ragazze che vogliono sapere se — alla fine di Una questione privata — Milton muore oppure no. Ragazzi che gli lasciano un biglietto con scritto “ Grazie a te ho passato la maturità!”. Ho saputo di due sposi in viaggio di nozze sul lago Maggiore che hanno fatto, all’ultimo momento, una deviazione — duecento chilometri! — per passare da Alba. E c’è spesso chi lascia, sulla sua tomba, una sigaretta».

Una sigaretta? «Sì, è un omaggio allo scrittore e al fumatore. Una volta ne ho trovate due, posate accanto alla lapide: un mozzicone e una intatta. C’era anche un biglietto: “ Io non fumo più, ma avevo voglia di fumarne una con te”».

Margherita Fenoglio vive ad Alba, in provincia di Cuneo, fa l’avvocato. Ha avuto accanto suo padre Beppe solo per un paio d’anni. Fenoglio è morto nel febbraio del 1963, quarantenne: lei aveva due anni. La sua fortuna di scrittore è quasi tutta postuma. Oggi è fra gli autori del Novecento italiano più amati, il vero classico sulla Resistenza, sempre più letto e tradotto: in più di venti lingue, dal Sudamerica alla Corea del Sud. Al Centro Studi Fenoglio di Alba arrivano migliaia di lettori e studiosi ogni anno. Sul quaderno degli ospiti, due coniugi italiani residenti a Boston hanno scritto: «Qui siamo fieri di essere italiani».

«So di essere comunque un’orfana privilegiata», dice Margherita. «Chi resta senza genitori da bambino, il più delle volte, sente di sapere troppo poco, di vivere solo un’assenza. Per me, mio padre è invece una presenza massiccia, costante, direi quotidiana. Anche molto impegnativa. Ma mi considero — per quanto riguarda la sua figura di scrittore — solo una lettrice più coinvolta».

Che effetto le ha fatto la prima lettura dei libri di suo padre?
« La malora è stato il primo suo romanzo che ho letto. Parlava di un mondo che non era per me così lontano. Ho sempre vissuto in città, ad Alba, ma sapevo cos’era la vita in collina, la durezza di quella vita. La malora è il libro a cui forse era più legato. Aveva patito il risvolto di copertina negativo scritto da Vittorini e l’accoglienza fredda della critica, ma a mia madre una volta disse: "ti rendi conto, Boba, che se non avessi scritto La malora nessuno fra cinquant’anni saprebbe più com’era la vita nella Langa?" Quanto al Partigiano Johnny, letto a sedici anni, mi sembrò difficile. Più tardi me ne sono innamorata » .

Uscito postumo nella tempesta del ’ 68, si è imposto sui romanzi usciti negli anni Quaranta (Pavese, Vittorini, Calvino).
« In termini numerici, di vendite, cresce di anno in anno. È un romanzo impegnativo, ma credo che la fascinazione nasca da più elementi. L’incompiutezza. Lo stile, così insolito. Lo sguardo, antiretorico al limite della spietatezza, sullo spaesamento morale seguito all’ 8 settembre e sulla guerra civile. La stessa espressione “guerra civile”, che lo storico Claudio Pavone avrebbe sdoganato negli anni Novanta, mio padre avrebbe voluto usarla per i suoi racconti quando suonava blasfema. Ma penso che la fortuna del Partigiano Johnny sia dovuta soprattutto al suo essere un romanzo sull’esistenza prima ancora che sulla Resistenza. Al modo in cui pone il tema della scelta: la necessità, l’irrinunciabilità della scelta. La solitudine del momento in cui scegli » .

Come in “ Una questione privata”, che presto sarà un film dei Taviani, tutto è calato in una prospettiva individuale, emotiva, perciò umanissima.
« Chi voleva la Resistenza “ cantata” non poteva amare i libri di mio padre. Se sul piano stilistico gli veniva rimproverata l’anomalia — così poco italiano, troppo cinematografico —, su un piano ideologico era ancora più difficile digerirlo. Ha precorso troppo i tempi? Non sta a me dirlo. So solo che molti mi parlano di Johnny o di Milton, e di Fenoglio stesso — chiamandolo Beppe, per nome — , come di modelli, di miti della propria formazione, non solo letteraria. Quanto a Fulvia, la protagonista di Una questione privata, so che ogni ragazza, leggendo, vorrebbe essere lei » .

Molti giovani scrittori oggi l’hanno scelto come maestro...
« Scopriamo di continuo fan insospettabili, tra i nuovi scrittori italiani, e li invitiamo ad Alba. Giacomo Verri, trentanovenne, ha evocato esplicitamente la lezione fenogliana nel suo Partigiano Inverno. Emiliano Gucci, l’anno scorso, ha letto in pubblico una lettera a Beppe: “ Raccontavi a me, di me, ti occupavi dei miei sentimenti, di mettere su pagina le mie emozioni, la mia vita” » .

Ma Milton, secondo lei, nel finale del romanzo sopravvive o muore?
« Da adolescente appassionata ai classici russi, con animo tragico avrei detto che muore. Oggi penso che viva » .

Secondo lei come sarebbe stata la vita di Fenoglio dopo i quarant’anni?
« Avrebbe voluto scrivere e basta. Come è noto, per vivere lavorava in una casa vinicola. Ma era consapevole del proprio valore. So di scontri apocalittici con mia nonna, che non considerava scrivere un mestiere. Ma per lui scrivere era tutto, e a sua moglie affidava tutti gli aspetti pratici della vita. In cucina non metteva piede, una volta si era ustionato con una caffettiera. Di mia madre scherzosamente diceva: “ Boba, o della pastasciutta”. E di sé: “ Beppe, o della malinconia”. È stata mia madre a tenermi sempre con i piedi per terra: “ Sei nata da lui, mi diceva, e devi considerarla una fortuna, ma non hai meriti”. Ogni tanto penso che qualcosa in più di lui so farla: so guidare ( lui saliva su una Vespa guidata da mia madre stringendosi a lei spaventato), so fare le percentuali e le divisioni con le virgole. Una volta che gli dissero “ buongiorno ingegnere”, fu molto orgoglioso. Aveva frequentato Lettere ma senza laurearsi. Mia madre gli disse: “ Be’, in effetti un uomo di ingegno lo sei” » .

Mai avuto la tentazione di scrivere, quindi?
«Io? Mai. C’è una grande differenza tra scrivere bene e essere scrittori » .

C’è una pagina di suo padre che le sta più a cuore?
« Non è in un romanzo, è la commemorazione funebre di un partigiano morto diciannovenne a Valdivilla, Dario Scaglione detto Tarzan. Il discorso per l’intitolazione di una strada: “ Quel rettangolo di metallo — Corso Dario Scaglione — sarà come tanti altri un monumento alla libertà il cui possesso c’è costato lui e tanti altri come lui. Sarà una pagina aperta a chi vuole e verrà dove noi e i venturi leggeremo le parole che non sono soltanto parole bellissime a scriversi e a leggersi, ma che sono la gloria della vita” » .

E una via Beppe Fenoglio esiste?
« Ce ne sono moltissime, da nord a sud, dalla provincia di Cuneo a quella di Catania »

 

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