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Giuseppe Appella
Alina Scheiwiller, architetture di carta e d’amore
16 Aprile 2017
Libri segnalati
«Libri d'artista alla Braidense. Miłosz, Pound, Herbert, Frénaud, Rebora, Bao Chang, Szymborska, Montale... L’arte empatica di Alina Kalczynska Scheiwiller

»

. il manifesto, 16 aprile 2017 (c.m.c.)

La prima impressione che si ricava davanti ai libri d’artista di Alina Kalczynska Scheiwiller, raccolti alla Biblioteca Braidense di Milano, è che l’aver studiato grafica editoriale ripercorrendo con intransigenza schemi che appartengono alla tradizione, il mettere continuamente sul tavolo da lavoro l’abecedario dell’illustrazione e i punti fermi dei settori progettuali di ogni impaginazione con relativi codici più o meno segreti (griglie, gabbie, sottili strisce di carte piegate e numerate, temi ricorrenti ma non utilizzati delle tante sfaccettature del graphic design), costituisce un pregio in più, soprattutto quando scelte e soluzioni di ogni giorno portano permanentemente a muoversi nell’ambito di una ideazione tra creatività e tecnica, che affida a un mondo di forme limpide e interiormente razionali e a un segno perentorio, equilibrato, il costante soffio della poesia.

Anche per evidenziare il percorso evolutivo di questo «segno» nelle sue più sottili relazioni, nonostante l’impossibilità di enumerare lo straordinario lavoro che c’è dietro ogni libro fatto stile icastico, e il potere selettivo esercitato per raggiungere la quota esatta tra tessitura di emblemi e struttura spaziale, proviamo a partire dall’esempio efficace dei libri Scheiwiller, dalle copertine di alcune collane («Immagini e documenti», «Piccole Strenne», «Il Sigillo. Piccola Biblioteca Cinese», «Poesia», «Prosa») dove modernità, gusto ed eleganza trovano il loro perfetto spazio, ovvero quell’empatia immediata tra carta, caratteri e immagine che l’ispirazione sollecita, la geometria ordina, le relazioni edificano, spesso con lo stupore della scoperta inattesa.

Parlare di stile, per tutto il lavoro di Alina, vuol dire ridefinire il rapporto di comunicazione esistente tra l’elaborazione delle forme, la selezione delle carte, l’organizzazione cromatica, la manifestazione dei ritmi sensibili e i contenuti, siano essi di Czesław Miłosz, Ezra Pound, Zbigniew Herbert, André Frénaud, Clemente Rebora, Carlo Invernizzi, Bao Chang, Maria Corti, Ai Qing, Wisława Szymborska, Lu Xun, Eugenio Montale, Federico II di Svevia, Alda Merini, Silvana Lattmann, Medardo Rosso, Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Gustaw Herling-Grudzinski, Julia Hartwig, Luciano Erba, Mary de Rachewiltz, Ibn Kemal, Camillo Sbarbaro, Kengiro Azuma, nomi comparsi in più occasioni nel catalogo Scheiwiller, prediletti per risolvere ogni volta il problema dell’apparente antinomia tra ordinamento del libro e espressione.

Non dimenticando mai il modo di aprirsi al testo e all’immagine in costruzione, ora con il disegno e più spesso con l’acquarello, la xilografia, uno schizzo, il linoleum, il collage, un campionario di sigilli, una composizione musicale, l’intaglio, il rilievo, una piega, un fermaglio. Infatti, tecniche e materiali, accostati e fusi in maniera fluida e immediata, si infiltrano di continuo nel testo, lo sezionano facendone un racconto umano e professionale senza limiti, frutto di prolungate meditazioni, tese a non rarefare la giocosa leggerezza della linea che edifica l’oggetto «libro» reso architettura del reale, a tal punto da portarlo, in molte occasioni, ad essere copia unica, sottratta alle regole del mercato che ne imporrebbe una tiratura e una impaginazione adatta allo scopo.

Sessanta sigilli, del 1994, è esemplare, in tal senso. Ideato per i 60 anni di Vanni, dipinto, scritto con calligrafie e con sigilli cinesi stampati a mano dall’artista, la copertina in carta giapponese Koko, la rilegatura alla cinese, il sigillo-segnalibro curato da Nino Ricci, evidenzia una sorta di radiografia astratta degli oggetti utilizzati e la concretezza del simbolo, la sua funzione, il suo categorico isolamento nella pagina per ottenerne il massimo significato.

Intanto, appare come fondamentale elemento strutturale, nella definizione dell’equilibrio della pagina e dell’armonia con la parte calligrafica. Basta osservare, l’una dopo l’altra, la collocazione delle impronte dei sigilli, ogni successiva variante, per convincersi che, in fondo, Alina racconta la sua vita, per autenticare, come si faceva una volta, tante lettere non inviate, per fissare sul foglio più segni di riconoscimento, tanti quanti sono i materiali dei sigilli: terracotta, porcellana, giada, osso, corallo, avorio, o le forme: quadrati, rettangolari, tondi, ottagonali, o cosa rappresentano: un drago, una filosofia, una religione, una storia, una poesia, un motto, un nome, un’opera d’arte.

Lo schema e le sue varianti, nella pagina, vengono messi a nudo dal sigillo che proscioglie o condiziona tutti i temi alimentati da poche linee elementari e un accordo di colori a piani sovrapposti, presenti nel libro dello stesso anno, Giardino incantato (a Massafra) e nel Trittico della Szymborska (1997), dove all’universo chiuso e misterioso del primo, carico tuttavia di una sotterranea forza trasfiguratrice propria di una natura fantasmagorica bloccata dall’atmosfera torrida, corrisponde il miracolo inventivo del secondo che trova nella poesia il candore per ricomporre l’universo alle sue stesse radici.

È che Alina, costruendo il libro, si diverte, si stupisce, si commuove, non lo sente come oggetto ma come idea da cui non farsi sopraffare, tanto la visione creativa è diretta e immediata. Così tempestiva da risolvere senza tentennamenti i contrasti sempre attuali tra luminosità – trasparenza e opacità – zona d’ombra. Quasi lo stupore che si rinnova davanti al verso ripetuto come un mantra possa riscoprire il soggetto che le sta di fronte e realizzarlo carico di meraviglia.

Tutto ciò avviene a partire dal Canzoniere di Federico II di Svevia (1995) che accelera la spoliazione all’estremo dell’immagine, per raccogliere gli elementi essenziali di un’architettura svolta tutta nello spazio, e la decomposizione in colori prismatici della luce. Le tre poesie di Alda Merini in Un poeta rimanga sempre solo (1996), con quella scrittura allusiva ed ellittica, sembra vogliano far ristagnare le forme, solide nel loro equilibrio sfumato e sottile di toni. Al contrario, trovano il perfetto accordo tra creazione plastica e sensazioni visive, peculiare della poetessa milanese la cui economia di mezzi corrisponde alla discrezione di Alina, e si dispongono secondo sintesi impreviste, la fantasia a gareggiare con la memoria.

Quanto gli orizzonti pittorici e le esperienze grafiche siano coestesi, ormai, a tutti gli aspetti dell’esistenza, appare evidente in Tesori (2010) che ha i suoi antecedenti in Acquarelli (2001), Mediterraneo (2002), La luce, il colore (2003), Lettere dalla Puglia (2005), Il suo nome è Otranto (2009). Un testo di Camillo Sbarbaro incita a conservare in un incavo della copertina quattro «tesori» avuti in regalo dai bambini otrantini Caterina, Michele e Matilde, come a dire mettere in un libro oggetti invece che parole, per ritrovare intatti cieli, vento, luci, ore, sorrisi, emozioni e rivivere ogni volta la dolce ebbrezza delle stagioni passate.

Sulla scia della Szymborska, di un rapporto coltivato con la partecipazione di una lettrice attenta ai dettagli, ai minimi particolari di ciò che ci circonda, provenienza e comportamenti umani inclusi, la propria individualità assume un’importanza tale da spingere a dar valore anche a cose effimere, a momenti irripetibili che hanno fatto crescere le capacità percettive. Da ciò l’impulso, in fase di impaginazione, alla naturalezza (Zbigniew Herbert, Elegia per l’addio della penna dell’inchiostro della lampada, 1989), la decomposizione crescente della forma, sviluppata in tutte le sue facce (Bao Chang, Pensieri amichevoli, 1989), le frasi colorate che vivificano le superfici della carta secondo misure cadenzate (Wislawa Szymborska, La fiera dei miracoli, 1993), la magia spaziale delle linee di fuga che rompono il silenzio dell’attesa (Eugenio Montale, Domande, 1994), la considerazione di ogni improvvisa accensione fantastica (Alda Merini, Lettere, 1997), i motivi geometrici predisposti dalla combinazione di piani cromatici, gamme di toni, esaltati da variazioni ritmiche (Alina Kalczynska, Otranto, 1997-’99), l’assoluta libertà nell’uso di strumenti come il taglierino o la forbice i cui movimenti, associando la linea al colore e il contorno alla superficie, portano al segno puro (Prisma, 1999), la semplice meraviglia del verso accordata al gioco tra ragione e istinto delle linee rette (Czesław Miłosz, Tak mało, 2010), una originale sapienza grafica come contrappunto a un’incessante osservazione del mondo visibile (Mary de Rachewiltz, Gocce, 2010), la descrizione della quotidianità propria di un universo poetico singolare che tre acquarelli originali, ognuno incorniciato da un intaglio di diversa forma geometrica, tre manoscritti in facsimile e un elemento quadrato in rilievo disposto per trasmettere un riflesso di colore, enucleano quali elementi concreti delle relazioni esistenti tra arte e poesia (Wisława Szymborska, Dodici poesie, 2015).

L’evoluzione di questo rapporto, evidente nella ricerca di Alina fin dalla seconda metà degli anni ottanta (Clemente Rebora, Campana di Lombardia, 1988), prende le mosse da un ininterrotto e rinnovato bagaglio tecnico, da una disciplina artigianale incompatibile con la facilità e da un viaggio all’unisono con la poesia.

Non più complesse architetture, linee avviluppate, piccoli tocchi minuziosi, toni monocromatici, cadenze recise, ma superfici distese, larghi piani, toni chiari e spezzati, tratti d’inchiostro o di matita, pennellata di tempera, luminescenze d’acquarello, e qualche improvviso procedimento d’illusionismo ottico che accentui il valore plastico dell’immagine. Il libro acquisisce il suo vocabolario, una sintassi e uno stile inimitabili. La carta diventa un autentico mezzo d’espressione, materiale docile allo sforzo di dominare uno spazio ormai senza limiti.

Non ha scritto, Alina, che il libro d’artista è l’ultimo tesoro dei nostri tempi?

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