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Paola Somma
Città per schiavi, un investimento sicuro
26 Febbraio 2017
Paola Somma
Il ministro Minniti vuole farli lavorare gratis e molti sindaci vogliono impiegarli in lavori volontari: è sempre più chiaro che l’unica possibilità che siamo disposti ad elargire ai migranti... (segue)

Il ministro Minniti vuole farli lavorare gratis e molti sindaci vogliono impiegarli in lavori volontari: è sempre più chiaro che l’unica possibilità che siamo disposti ad elargire ai migranti... (segue)

Il ministro Minniti vuole farli lavorare gratis e molti sindaci vogliono impiegarli in lavori volontari: è sempre più chiaro che l’unica possibilità che siamo disposti ad elargire ai migranti è quella di essere usati come schiavi, il che, del resto, già avviene nei campi e nei cantieri.

Alcuni commentatori hanno criticato i provvedimenti che intendono istituzionalizzare lo sfruttamento di migliaia di persone accomunate dal fatto di essere state costrette ad abbandonare la loro terra, interpretandoli come il segnale di un cedimento alla propaganda razzista. Minor attenzione si è posta alla dimensione territoriale di programmi che, prevedendo la concentrazione forzata in appositi insediamenti, da creare ex novo o attraverso il ri-popolamento di zone abbandonate dai nativi, rischiano di dare origine a un vero e proprio regime di apartheid.

Tale prospettiva è tutt’altro che remota e trova conferma in una serie di progetti che economisti e gruppi di investitori hanno elaborato per realizzare “insediamenti a statuto speciale nei quali ai profughi sia consentito intraprendere lavori dignitosi, per provvedere alle proprie famiglie e contribuire allo sviluppo economico, sia dei paesi ospitanti che di quelli di provenienza”. Alcune idee sono state abbandonate, ad esempio quella del miliardario egiziano Naguib Sawiris (fondatore di Wind e insignito del titolo onorifico di commendatore dell’ordine della Stella della solidarietà italiana) che voleva comprare un’isola nel Mediterraneo per metterci cento mila profughi e impiegarli nella costruzione di una nuova città. “La chiamerò Little Siria”, aveva detto, e “assumerò grandi architetti per restituire lo stile architettonico del loro paese d’origine”.

Altre proposte, invece, godono del sostegno ampio e crescente da parte di influenti istituzioni internazionali. Una delle più ambiziose è Refugee cities, messa a punto dalla omonima organizzazione con sede negli Stati Uniti, con l’obiettivo di fornire una risposta “pragmatica e fattibile per trasformare i profughi da onere a beneficio, da peso sulle risorse pubbliche e fonte di disagio sociale a produttivi generatori di reddito, lavoro e investimenti stranieri”.

Michael Castle Miller, il direttore esecutivo di Refugee cities, è un avvocato che vanta una pluridecennale esperienza nello sviluppo di “zone economiche speciali”. E delle zone economiche speciali il progetto, destinato a “liberare il potenziale dei rifugiati”, riprende molte caratteristiche, a partire da una solida partnership tra pubblico e privato, indicata come indispensabile precondizione per il suo successo.

Nella fase iniziale, lo stato dovrebbe elaborare il quadro legislativo e normativo per consentire la formazione di “città speciali” e il rilascio di permessi di lavoro validi solo al loro interno; i profughi, infatti, conserveranno il loro passaporto d’origine, ma non potranno uscire dai confini della città. Contemporaneamente, un’impresa privata di riconosciuta esperienza formerà un team di economisti, avvocati e scienziati sociali che eseguirà uno studio di fattibilità, prendendo in considerazione le aree a disposizione e tenendo conto della domanda di mercato, dell’impatto ambientale e sociale e delle competenze e capacità dei profughi. Una volta individuati i luoghi più adatti, l’impresa presenterà il progetto alle autorità, alle popolazioni locali e agli investitori nazionali e internazionali, che saranno attirati dalla “disponibilità di forza lavoro addestrata e da un quadro normativo eccezionalmente favorevole”.

Quindi, un’altra impresa, specializzata in infrastrutture, comprerà, o affitterà con un contratto a lungo termine, i terreni necessari, vi costruirà le opere di base, dalle strade alle reti idriche ed elettriche e affiderà a una terza impresa il compito di fornire tutti i servizi, dall’istruzione dei bambini alla raccolta dei rifiuti, incluso l’addestramento professionale.

Per garantire il rientro dell’investimento delle imprese private, lo stato si impegnerà ad erogare sussidi ai profughi, affinché il loro reddito sia tale da metterli in grado di “pagare merci e servizi a prezzi di mercato”. Inoltre, per migliorare il business environment di questi enormi campi di lavoro recintati, delegherà il governo dei territori speciali ad apposite autorità nazionali o sopranazionali, la cui “efficienza” stimolerà l’avvio di riforme anche nel paese ospitante.

Fra i molti sostenitori di Refugee cities, uno dei più importanti è Middle east investment initiative che, dal 2005 raggruppa una serie di economisti, finanzieri e diplomatici. Ne fanno parte, tra gli altri, John Negroponte, già ambasciatore americano in Honduras (era chiamato l’ambasciatore della tortura), alle Nazioni Unite e in Iraq; Thomas Pickering già ambasciatore in Russia, India e Israele e Madeleine Albright, già segretario di stato durante la presidente Clinton e principale azionista di un fondo di investimento che ha fatto ottimi affari grazie alle privatizzazioni imposte al Kosovo. Una serie di personaggi, cioè, che dopo aver esportato la democrazia in tutto il mondo , adesso si offrono come investitori in progetti umanitari.

Sul fronte accademico, il direttore di Refugee cities è particolarmente legato a Paul Romer, consulente della Banca mondiale e direttore del Marron institute of urban management, il dipartimento della New York university specializzato in ricerche e progetti per promuovere l’urbanizzazione a scala globale.

Romer è noto per la proposta di creare nei paesi “poveri” una serie di città stato, denominate charter cities, governate dai paesi “ricchi”. In queste “enclaves illuminate all’interno di uno stato da educare, avamposti liberisti e zone per promuovere le riforme”, dovrebbero confluire e trovare lavoro tutti gli abitanti “non contenti dei loro governi corrotti e inefficienti”. Il modello a cui Romer si ispira è Hong Kong, dove si sono “rifugiati i profughi che scappavano dal maoismo” e la cui creazione è stata decisiva per introdurre il libero mercato in Cina. Finora, i tentativi di costruire charter cities in Magadascar e Honduras non hanno avuto buon esito, ma Romer continua a propagandare la sua idea. In Italia, l’ha presentata al festival dell’economia del 2016, organizzato a Trento dal professor Tito Boeri, presidente dell’INPS.

Forse l’INPS non investirà i soldi delle pensioni in città per schiavi (con charter cities li aiutiamo a casa loro, con refugee cities li aiutiamo a casa nostra!) E’ certo, però, che il moltiplicarsi di imprese internazionali che si specializzano nella fornitura di prodotti per rifugiati, e di gruppi di pressione che spingono i governi nazionali a privatizzare “la valorizzazione della risorsa rifugiato” è una tragica conferma che il dislocamento forzato di milioni di persone non è un fenomeno inevitabile provocato da conflitti irrazionali, ma fa parte di un lucido e articolato progetto di messa in schiavitù della maggioranza dell’umanità.

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