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Franco Arminio
Cedi la strada agli alberi
1 Febbraio 2017
Libri segnalati
«Parlo dei paesi perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico

...» Franco Arminio. "La poesia al tempo della rete” è il capitolo finale di Cedi la strada agli alberi, che esce domani per Chiarelettere. doppiozero online, 1° febbraio 2017 (c.m.c.)


La poesia è un mucchietto di neve
In un mondo col sale in mano.

La poesia è amputazione.
Scrivere è annusare
la rosa che non c’è.

Il naufragio della letteratura

Una volta c’era la letteratura e poi c’erano gli scrittori.
Immaginate un mare con i pesci dentro. Adesso ci sono solo i pesci, tanti, di tutte le taglie, ma il mare è come se fosse sparito. È successo in poco tempo, e non ce l’ha comunicato un esperto. Ce ne siamo accorti incontrando un poeta da vicino, parlando con un narratore al telefono. Abbiamo sentito che qualcosa non c’era più. Ognuno ha i suoi libri, le sue parole, sono sparite le strade che mettevano in comunicazione uno scrittore con l’altro, tra chi muore e chi vive non c’è alcuna differenza, non c’è differenza tra chi lotta e chi è vile.

Oggi tra gli scrittori regna una pacata indifferenza e lo spazio vuoto che c’è tra quelli che scrivono accresce lo spazio tra chi scrive e chi legge. La letteratura è una barca che ha fatto naufragio e ognuno coi suoi libri lancia segnali di avvistamento che nessuno raccoglie perché ognuno è impegnato a farsi avvistare.

Le voci non si sommano e non spiccano. La letteratura fa pensare a un’arancia virtuale: a ciascuno il suo spicchio, ma dov’è il succo?

Poesia e guarigione

C’è un problema quando si hanno rapporti con i poeti. Il problema deriva dal fatto che il poeta è una creatura patologicamente bisognosa di amore. Una creatura in subbuglio con cui non si può mantenere un’amicizia generica e blanda. Col poeta non ci possono essere pratiche attendistiche e interlocutorie, bisogna gettargli in faccia il nostro amore o il nostro odio, bisogna tenerlo ben vivo nella nostra mente, bisogna pensarlo, parlargli delle sue parole, raccontargli le sue storie.

Uno allora può dire: ma a che serve tutto questo? Io penso che alla fine non serva al poeta, perché il poeta non ha mai bisogno di quello che gli viene dato. Penso che tutto questo serva a chi dà, a chi si protende a lenire le varie disperazioni del poeta. L’atto di guarire chiude le ferite, ma solo al guaritore.

L’embargo della poesia

Il poeta è quella creatura che non può stare in questo mondo ed è la persona che più ha bisogno delle cose del mondo. La sua è una bulimia spirituale e, proprio perché è spirituale, non conosce limiti e confini.

È molto grave che il mondo abbia dichiarato un vero e proprio embargo verso i poeti. Il mondo dei disperati che vogliono distrarsi odia i disperati che invece cantano la loro disperazione. Fra le tante guerre in corso, strisciante e non dichiarata, c’è quella che vede i poeti come vittime.

Ogni giorno una cenere sottile cade, attimo dopo attimo, sulle spalle degli spiriti più luccicanti. Lo scopo è opacizzare tutto, rendere tutto intercambiabile, omologabile, smerciabile.

Questa è una società totalitaria e come tale non può che essere ferocemente ostile al grido solitario del poeta, alla sua natura irrevocabilmente intangibile. Il poeta è fuori dall’umano e come tale è un pericolo. Gli uomini non possono tollerare che esistano creature che hanno gli occhi, il cuore e le parole, ma che nulla hanno da spartire con loro.

Bordello facebook

Qualche tempo fa mi era venuta l’immagine di facebook come di una strada a luci rosse. Ognuno sta in vetrina a esporre la sua merce. Chi mostra i glutei, chi spalanca le cosce. Tutto un susseguirsi di merci che cercano acquirenti nella scabrosa condizione in cui i produttori sono assai più dei possibili compratori. E questo i compratori lo sanno e da lì nasce la figura del compratore sadico, colui che entra nel box, gira intorno alla merce e magari se ne va lasciando semplicemente un commento sarcastico. Non c’è differenza tra chi esibisce la sua gamba monca, l’occhio in cui cigola il delirio, e quelli che fanno finta di stare qui perché vogliono cambiare il mondo, fanno finta di indignarsi, insomma fanno finta di essere scrittori.

Facebook è una creatura biforcuta perché porta la scrittura, ma la porta in un clima che sembra quello televisivo. Chi scrive, chi commenta, deve ogni volta decidere da che parte stare, sapendo che da quando abbiamo smesso di credere all’invisibile e al sacro tutto il visibile e il profano non ci basta più, e ci basterà sempre meno.

Nuove percezioni dell’umano

La letteratura non può ridursi a un ballo in maschera. Gli scrittori devono mettere la propria faccia in ogni riga che scrivono. Scrivere è un martirio oppure non è niente. Per divertirsi e per divertire ci sono altre cose, forse. La letteratura è un luogo in cui ci si affanna a costruire nuove percezioni dell’umano. Chi si sporge, chi si pone in bilico è meno elegante e per questo merita di essere consolato.

Abbiamo bisogno di compassione. Abbiamo bisogno di consolazione e di amore. Dare amore per me significa dare nuove visioni di noi stessi e degli altri. Darle non per cantarcela tra noi, ma per puntare a uno sfondamento, per sfondare la creazione e vedere cosa c’è dietro questa parata che chiamiamo vita.

Ci sarà sicuramente un giorno in cui neppure un filo d’erba parteciperà alla parata. La nostra mente può andare già adesso in quel punto, farsi fecondare da quel buio e con quel buio stare nella luce che abbiamo adesso, la luce degli angeli e del sole, la luce delle piante e degli occhi. Scrivere significa gettare scompiglio nella parata, non lasciarla fluire come fosse una volgare scampagnata.

Per una comunità poetica
Ho due problemi. Il primo è che potrei morire da un momento all’altro. Il secondo è che prima o poi morirò. Da qui nasce la mia imperiosa urgenza, da qui il mio scalpitare senza reticenze e aloni. Sono tutti scoperti i miei passaggi, sono offerte intimamente politiche perché contengono sempre un richiamo alla costruzione di una nuova comunità in cui sogno e ragione vadano insieme, una comunità poetica.

Ormai siamo tutti alle prese con cose che riguardano solo noi. Non c’è un’assemblea, un foro in cui si dibatta il nostro caso. Al massimo riusciamo a incuriosire qualcuno per un attimo, poi dobbiamo farci da parte. Se invece insistiamo a proporre la nostra questione, come sto facendo adesso, dobbiamo aspettarci che gli altri diventino insofferenti.

C’è una sola notizia di noi che può un po’ sorprendere, un po’ emozionare gli altri: è la notizia del nostro decesso, ma è una carta che possiamo giocarci una sola volta e, una volta che ce la siamo giocata, non abbiamo modo di verificare la risposta.

Poesia è malattia

Poesia è malattia, diceva Kafka. Il poeta che manda in giro le sue poesie manda in giro i suoi virus, le sue fratture, i suoi tessuti infiammati. Il poeta anela alla cura, o almeno alla consolazione, ma dall’altra parte si pensa a difendersi dal contagio.

La poesia dice sempre del tentativo di riparare un lutto e, quando viene spedita, fa un po’ l’effetto di un afflitto che va in giro a chiedere le condoglianze. E questo movimento rende dubbio il lutto stesso, come se ci trovassimo davanti a qualcuno che volesse venderci le azioni del suo dolore, azioni destinate inevitabilmente al ribasso in una società in cui tutti piangono e dove i morti senza lutto si confondono con i lutti senza morto.

Il poeta è alla guida di un’impresa fallimentare perché ogni suo prodotto resta invenduto e la ragione dell’impresa consiste esattamente in questo. Anche se il prodotto risultasse smerciabile, al poeta non può venirgli nulla, non ci sono rendite, bisogna subito ricominciare da capo. La poesia è radicalmente anticapitalista, non prevede nessuna forma di accumulazione. Un dolore antico è sempre un dolore fresco di giornata.

Quando scrivi ti devi impaurire

Scrivo da tanti anni, mi pare di non aver fatto altro nella vita.

Scrivo a Ferragosto e a Capodanno, scrivo dal mio paese, scrivo dai miei nervi perennemente infiammati.

Senza l’assillo della morte mi sento una cosa inerte. Ho bisogno dello spavento. Lo spavento falcia la mia vita e la trasforma in scrittura, un po’ come fa la mietitrebbia col grano.

Parlo dei paesi perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico, col buco in mezzo. Mi piace arrivare nei paesi per sentire questa cosa nuova che è la desolazione, questa cosa che ha preso il posto della miseria.

Il paese è diventato interessante perché è come se avesse finito i suoi umori, il suo ciclo vitale, persiste a essere abitato, ma sembra quasi incurante dei gingilli con cui si trastulla il mondo.

La faglia è la mia figura, il bordo, la fessura. Abito un orlo senza precipizio, un luogo ideale per poggiare l’orecchio sulla morte. Quando scrivi ti devi impaurire, altrimenti non stai facendo niente.

Il libro infinito

Il mondo simbolico è diventato reale e il mondo reale è diventato simbolico. In questa condizione il poeta trova un ulteriore motivo di disagio perché ogni volta che c’è un mondo per il poeta c’è un esilio. E se i mondi sono due, l’esilio è doppio.

Per anni abbiamo pensato alla poesia come a una realtà marginale, un lavoro per animi eletti, per animi disposti a lavorare ossessivamente sulla lingua. Adesso le poesie le fanno tutti. Il problema non è scrivere cose belle, ma far circolare quello che scriviamo.

È come una città nell’ora di punta. Tutti escono in strada con la macchina e non si cammina. Tutti escono in Rete con le loro parole e dunque non si legge. Per leggere abbiamo bisogno di avere davanti a noi un testo con un inizio e una fine. Può essere anche di mille pagine, ma i confini devono essere precisi.

In Rete non c’è un nostro testo, il nostro testo entra in un libro infinito a cui ognuno aggiunge la sua pagina. A volte sembra quasi che per avere la sensazione di essere letto devi strapparla, la tua pagina, devi sparire. L’unica pagina che viene letta è la pagina bianca.

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