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Laura Margottini
Ammalarsi di precariato fa più male dell’alcol
20 Febbraio 2017
Articoli del 2017
«Lo status economico di un individuo rappresenta uno dei maggiori determinanti della salute umana e della longevità, ma resta un fattore di rischio abitualmente ignorato dalle politiche sanitarie internazionali».
«Lo status economico di un individuo rappresenta uno dei maggiori determinanti della salute umana e della longevità, ma resta un fattore di rischio abitualmente ignorato dalle politiche sanitarie internazionali».

il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2017 (p.d.)

Lo stress pisco-sociale, come lo definiscono alcuni scienziati, accorcia la vita. È la tensione a cui è sottoposto chi vive in condizione di costante svantaggio socio-economico che può determinare un calo dell’aspettativa di vita di circa 2 anni, come dimostrano i risultati di uno studio appena pubblicato.
In Italia, una disoccupazione giovanile che supera il 40 per cento, come riportano i dati Istat di fine gennaio, sta condannando intere generazioni a non poter sperimentare la serenità che deriva da un reddito sufficiente e sicuro, tale da lasciar spazio alla progettualità e alla capacità di sognare. Come ha denunciato nella sua ultima tragica lettera Michele, il trentenne che si è tolto la vita a causa di una costante situazione di precariato.
Quando i farmaci non bastano
Per la salute, sperimentare una condizione socio-economica di costante svantaggio rappresenta un fattore di rischio paragonabile a fumo, alcol o obesità. “Perché curare le persone per poi riportarle nelle stesse condizioni che hanno provocato la malattia?” è la provocazione di Sir Michael Marmot, professore di epidemiologia e salute pubblica all’University College of London, nel Regno Unito, che ha dedicato la sua vita a convincere medici e politici che la salute si migliora non solo prescrivendo farmaci, ma intervenendo sulla la qualità della vita delle fasce sociali più deboli.
Lo racconta nel suo libro “Salute diseguale”, edito in Italia da Il Pensiero Scientifico. Per primo ha parlato di stress psico-sociale, quel fattore di rischio per la salute determinato dalla mancanza di potere sulla propria vita quando si hanno pochi mezzi economici. Le pillole possono intervenire sull’incendio ormai scoppiato - la malattia - ma non sulle cause che lo hanno scatenato, sostiene, e che lo scateneranno di nuovo, se non migliorano. Se poi peggiorano, come quando si perde il lavoro, l’ipotesi è che l’aspettativa di vita si riduca ulteriormente. Dalle intuizioni di Marmot e dai tanti studi già condotti sull’argomento, è partito il progetto europeo Life-Path finanziato nell’ambito di Horizon 2020, gestito da un consorzio di ricercatori internazionali (molti dei quali italiani: l’Italia ha una con solida tradizione scientifica in epidemiologia), di cui è coautore anche Marmot.
Ha misurato di quanto esattamente uno status socio-economico svantaggioso riduce l’aspettativa e la qualità della vita. “È noto da tempo che sia un indicatore del calo nella speranza di vita”, spiega Silvia Stringhini, epidemiologa alla Lausanne University Hospital di Losanna, Svizzera, co-autrice dello studio. “Ma il suo impatto non era mai stato confrontato quello dovuto a fattori di rischio noti”. Fumo, tabacco, obesità, scarsa attività fisica, eccessivo consumo di sale, pressione alta e diabete sono considerati i 7 maggiori fattori di rischio legati alle malattie non trasmissibili - come quelle cardiovascolari o il cancro - che possono condurre a morte prematura. Secondo la ricerca, il fumo accorcia la vita di 4,8 anni, la mancanza di attività fisica di 2,4, il diabete di 3,9 e quasi di 1 l’eccessivo consumo di alcol. Lo status socio-economico, mostra la ricerca, è responsabile di una riduzione di 2,1 anni di vita.

I parametri della ricerca
Lo studio è stato possibile grazie ai dati raccolti da precedenti ricerche su 48 popolazioni in Europa, Stati Uniti e Australia negli ultimi 13 anni, per un totale di 1,7 milioni di persone. “Disponevamo di informazioni su parametri legati alle malattie croniche, alle cause di morte e alla classe sociale”, spiega Paolo Vineis, epidemiologo ambientale all’Imperial College of London nel Regno Unito, e coordinatore di LifePath.
Per definire lo status socio-economico, i ricercatori hanno usato come parametro la professione dei partecipanti delle persone sopra i 40 anni. Nel caso di un operaio non specializzato, per fare un esempio, si attribuisce il punteggio più basso. Per un ingegnere, quello più alto. “È un parametro che ci ha permesso di confrontare popolazioni appartenenti a culture e paesi differenti, “spiega Vineis. E che rispecchia anche altri fattori che determinano lo status, come il grado di istruzione e reddito, difficili però da paragonare da nazione a nazione. La ricerca, spiega Vineis, “ha permesso di vedere che c’è un effetto importante sulla mortalità dovuto solo alla classe sociale e non ai 7 fattori di rischio tradizionalmente considerati”.
Cosa sia quel qualcosa in più che ha un impatto sulla mortalità, che Marmot imputa allo stress psico-sociale, e che lo studio LifePath ha ora quantificato, non è ancora compreso a fondo. “Lo studieremo nei prossimi due anni,” spiega Vineis. “Abbiamo informazioni di tipo molecolare su campioni di sangue di quelle popolazioni, su cui studieremo l’impatto che l’ambiente in cui viviamo esercita sul Dna. Una componente importante e innovativa del progetto, racconta Vineis, consiste infatti in indagini epigenetiche sulla modulazione del funzionamento dei geni in diverse migliaia di persone.

Un fattore di rischio “non modificabile”
Lo status economico di un individuo rappresenta dunque uno dei maggiori determinanti della salute umana e della longevità, ma resta un fattore di rischio abitualmente ignorato dalle politiche sanitarie internazionali. Nel 2011 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha lanciato un programma che mira a ridurre la mortalità causata da malattie non trasmissibili del 25% entro il 2025, puntando sulla riduzione dell’impatto che i 7 fattori di rischio noti hanno su queste patologie e dunque sulla mortalità. Ma che non considera quello costituito dall’appartenenza alle classi negli ultimi gradini della piramide sociale.
La stessa Oms considera lo status sociale un fattore di rischio non modificabile, a differenza degli altri 7. Sui quali si ritiene di poter intervenire con prescrizioni (smettere di fumare, consumare meno sale, fare esercizio fisico) e attraverso campagne di sensibilizzazione come quelle promosse anche dal Ministero della Salute italiano. “È percepito come più difficile attuare politiche che possano attenuare fattori socio-economici svantaggiosi, politiche che però aumenterebbero la resilienza dell’organismo umano alle malattie,” spiegano i ricercatori di LifePath. “Queste politiche richiedono molti più soldi”, perché prevedono di investire prima di tutto sull’istruzione di base, sul miglioramento dei quartieri disagiati, garantendo maggiori spazi di verde pubblico e una migliore rete di trasporti. “Dal punto di vista della politica, quando ci si limita a intervenire su una scelta individuale appare tutto molto più semplice,” spiegano.
Dal progetto Lifepath stanno emergendo molti articoli scientifici in pubblicazione, raccontano gli autori, ma la principale ambizione consiste nell’influenzare la politica. Per questo, il progetto prevede un gruppo di lavoro presieduto da Sir Marmot che si è riunito in questi giorni a Londra. Con l’esplicito compito di tradurre in politiche i risultati scientifici. “L’appartenenza a una bassa classe sociale nell’infanzia ha un influsso duraturo nel corso di tutta la vita,” spiega Vineis. “È un messaggio politico forte: bisogna investire nei giovani, le coppie in età fertile, contrariamente a quello che molti governi stanno facendo, e investire nell’istruzione per ottenere frutti anche nel settore della salute collettiva sul lungo periodo”.
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