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Alberto Melloni
Se la foto di Mussolini resta a palazzo Chigi
28 Gennaio 2017
Articoli del 2017
Domande non peregrine sulla permanenza di un ritratto di Benito Mussolini, Duce d'Italia, in una sala della Presidenza del consiglio. Forse la "defascistizzazione" in Italia non ci fu.
Domande non peregrine sulla permanenza di un ritratto di Benito Mussolini, Duce d'Italia, in una sala della Presidenza del consiglio. Forse la "defascistizzazione" in Italia non ci fu.

La Repubblica, 28 gennaio 2016

A PALAZZO Chigi c’è una grande anticamera a pianta quadrata: dà accesso alla Sala Verde, quella in cui il governo ospita riunioni medio-grandi come quelle coi sindacati che fanno parte della archeologia politica; e anche agli appartamenti del presidente del Consiglio. Il bianco panna che la connota, illuminato dal riflesso dei lucidi marmi del pavimento recentemente restaurato, gli dà l’aura algida e solenne che deve avere un luogo di Stato. Sui lati corre una lunga galleria fotografica: cornicine anch’esse chiare, con sobrio filetto ad anticarle e uniformarle. E dentro i primi piani dei presidenti del Consiglio dell’Italia unita. Una lunga sequenza che finisce sempre con il presidente del Consiglio in carica, collocato sempre nella stessa posizione, appena di lato alla porta del suo ingresso. La nomina di un nuovo premier, fa infatti scivolare indietro tutti gli altri: sicché ad ogni cambio di governo Cavour arretra sul muro e con lui tutti gli altri, in un moto retrogrado che ha qualcosa di simbolico.

È in questa anticamera qui che bisognerebbe fare il giorno della memoria. Perché fra le sobrie immagini, spicca la foto di Benito Mussolini. La sua foto apre una diluvio di domande: e alle domande più serie e difficili questa giornata non deve dare risposte, appaganti e sedative; ma deve dare ragioni per tenerle aperte, come gli occhi con cui lo spirito critico guarda il mondo.

Com’è possibile che quella foto sia lì? Qualcuno può immaginare cosa accadrebbe se ci fosse una foto di Hitler nell’anticamera di Merkel? E qualcuno si chiede cosa può pensare di questo Paese chi, in visita alla sede del governo, vede un’Italia che ingloba e riassorbe anche il proprio passato più nero, e si autoassolve accontentandosi di far identificare in un cortocircuito emozionale i discendenti dei carnefici col dolore dei discendenti delle vittime?

Eppure Mussolini è lì. Come tante vestigia del regime che ci diede l’infamia delle leggi razziali, che predispose il laccio in cui fu preso l’ebraismo italiano, che consegnò il paese alla guerra e vide 600mila internati militari italiani preferire il lager al ritorno nell’Italia repubblichina. In uno scambio storicamente datato nel quale la chiusura della guerra civile e l’impegno dei partiti di massa per un patriottismo costituzionale valeva la scelta di non rimuovere i simboli netti e allusivi che disegnarono l’Italia fascista. È lì che si colloca (da quando?) questa foto, che non può stare lì “così”.

Per toglierla ci vorrebbe niente. E allora si dovrebbe discutere come l’Italia rappresenterebbe in quel vuoto il crimine politico e morale di quel regime: che non è stato un “male assoluto” (come dicevano i missini pentiti), ma un male umanissimo, costruito dalla cecità e dalla pulsione politicamente suicidaria di una generazione che non capì che l’emergenza storica richiede unità e non cipiglio divisivo che allora dilaniò il Paese.

Oppure la si potrebbe lasciar lì: per non occultare una verità storica. Come dice Giuseppe Galasso, uno di quegli uomini che dà lustro ad una categoria spesso meritevole della irrilevanza in cui sguazza, quella foto dice chi ha fatto e chi ha ereditato quel male. Può stare lì se ricorda i gesuiti mandati dal capo del governo dopo la liberazione a chiedere di salvare la “parte buona” delle leggi razziali; le università che non restituirono le cattedre agli espulsi del 1938; il risarcimento morale negato ai 600mila Imi che preferirono rimanere schiavi nei lager piuttosto che tornare in Italia al soldo dei repubblichini; coloro che a 5mila lire denunciarono gli ebrei; i cappotti di chi a Fiume andò ad arrestare la famiglia di Andra e Tatiana Bucci; e quel male che non ammette sottrazioni e accomodamenti.

Per darle questo significato non possiamo contare sul “patriottismo costituzionale” da noi esile e raro (da noi si arriva al massimo alla faziosità costituzionale che ispirava l’accozzaglia del No): ci vorrebbe una scelta, un gesto. Quello di un passante che rompa almeno il vetro e supplichi il governo di non ripararlo mai. Quello di un artista che la macchi di sangue. Oppure bisogna che stia lì, senza null’altro che la coscienza di tutti nel saperla lì: così che il rischio di doverci vergognare se un ospite dovesse notarla incomba sulle nostre istituzioni, sulla nostra storia e sul nostro Paese: e consegni al sapere il compito di fare di una generica memoria la sostanza di una vita civile, ancora oggi fragile.

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