loader
menu
© 2024 Eddyburg
Silvia Truzzi e Marco Revelli
“L’unica politica del lavoro che serve: salari più alti”
5 Gennaio 2017
Lavoro
«Marco Revelli. Disoccupati, precari, malpagati: “Il capitalismo non vuole più compromessi e impoverisce i lavoratori: ma poi chi compra i prodotti?”».

Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2017 (p.d.)



Professore, l’anno che si è appena chiuso ha visto gli effetti del Jobs act. Bilancio?
Pessimo, ma facciamo una premessa: la questione del lavoro è centrale non solo perché rappresenta il cuore della crisi attuale, ma perché è il principale indicatore della mutazione genetica che ha subito la sinistra. O, se si vuole, dell’estinzione della sinistra novecentesca. E questo è evidente analizzando le politiche del lavoro dei governi di centrosinistra degli ultimi 15 anni. Per non parlare di un ministro del Lavoro come Poletti che non potrebbe figurare dignitosamente nemmeno in un governo di destra, vista la riforma che ha fatto e le sue vergognose affermazioni sui giovani: un’intera generazione è stata cancellata dall’orizzonte sociale e viene pure disprezzata. Una catastrofe antropologica è avvenuta a sinistra.

Si parla molto dei voucher.
Il tormentone ora è che non bisogna criminalizzarli. Ma i buoni lavoro sono la certificazione per legge della precarietà come stato permanente del lavoratore. Assistiamo al rovesciamento di quell’orizzonte che un tempo si chiamava riformista, cioè teso a migliorare le condizioni del lavoro. Il fatto che si possano comperare le braccia in tabaccheria per pochi euro come fossero un oggetto di consumo minimo la dice lunga. Poi ci sono settori e professioni in cui un certo grado di frammentarietà è strutturale, ma i buoni sono entrati nell’intero sistema-lavoro.

La sinistra ha smesso di occuparsi del lavoro?
Peggio: i mini-job in Germania li hanno introdotti i socialdemocratici, non la Cdu. Quando Berlusconi provò ad abolire l’articolo 18 si è trovato 3 milioni di lavoratori al Circo Massimo: ma ci è riuscito Renzi. La sinistra tardo-novecentesca, che non ha capito nulla delle mutazioni in corso e della globalizzazione, si è accomodata all’interno delle categorie neoliberiste come se fossero una condizione di natura. Non criticabile: anzi, ogni critica era segno di arretratezza. Ma questo è il prodotto di un’assoluta ignoranza di quali siano caratteristiche e contraddizioni della modernità. Ciò che continuiamo a chiamare sinistra è in realtà una destra tecnocratica venata di populismo. Parola che detesto ma che la caratterizza: la demagogia renziana è populista, ed è la peggiore perché è populismo di governo. L’ottusità e la prepotenza che circolano tra i nostri governanti si riassumono benissimo nella proposta del professor Pitruzzella sull’Agenzia di controllo del web. Tanto più che il primo da bandire sarebbe l’ex premier: fino a qualche mese fa invitava a investire nella “solida”Mps.

Lo smantellamento delle tutele, conquistate tra gli anni 60 e 70, è la cifra degli ultimi anni. È pensabile fare dei passi indietro, ora? E può bastare?
Il primo passaggio di una politica del lavoro che volesse essere coerente con le idee della sinistra sarebbe certamente la cancellazione di quanto fatto negli ultimi 4 anni. Lo Statuto dei lavoratori ha rappresentato l’ingresso nelle fabbriche della Costituzione: non sono riusciti a smantellare la Carta con la riforma Boschi, ma l’hanno cacciata dai luoghi di lavoro, e spero davvero che si possa votare presto sui referendum proposti dalla Cgil per ripristinare quei diritti. A proposito di Costituzione: bisognerebbe sì procedere a una revisione, di un solo articolo, l’81. Nel 2012 è stato introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio senza un minuto di dibattito. Questo è l’ostacolo a qualsiasi politica di tutela e garanzia del lavoro e di altri diritti, come la salute.

E poi?
Lo dico col cuore sanguinante – è un tema strappato alla sinistra dalla destra, perché fa parte del programma di Trump – ma sono favorevole alla tassazione delle imprese che delocalizzano la produzione e all’imposizione di dazi sui prodotti di imprese nazionali che vanno a produrre all’estero e vengono a vendere in Italia.

Difficile pensare ai dazi in un mondo senza frontiere... Senza dire che una delle principali industrie del Paese ha trasferito la sede fiscale a Londra e legale in Olanda salutata con applausi e abbracci dall'ex premier.
La Fiat produce in giro per il mondo e vende in Italia senza pagare il minimo pegno: tutto ciò la dice lunga sulla nostra classe dirigente.

Peraltro: Marchionne a chi pensa di vendere la Panda?
Le poche auto che produce a Torino sono le Maserati, pensate per la sottilissima fascia di mercato dei ricchissimi.

Il Bloomberg Billionaires Index ha tracciato il patrimonio dei paperoni del mondo: continua ad allargarsi la forbice tra i pochi che hanno moltissimo e i moltissimi che hanno poco o niente.
La crescita delle disuguaglianze è un enorme danno all’economia e nello stesso tempo è un prodotto strutturale della forma che l’economia ha assunto negli ultimi anni. Una terribile contraddizione che spiega, tra l’altro, la rabbia e la disperazione che serpeggiano nelle società occidentali. Noi siamo un Paese che non cresce, in cui però la ricchezza del 10% più abbiente continua ad aumentare: il meccanismo di redistribuzione funziona alla rovescia. Anche nei Paesi che crescono, il reddito della working class è rimasto al palo. Il risultato sono i lavoratori poveri, cioè coloro che col loro impiego non riescono a vivere dignitosamente, cosa che oltretutto danneggia i consumi. È la forma del terzo capitalismo: si è rotto il compromesso tra capitale e lavoro, il capitale ha acquistato un’enorme capacità di movimento e il lavoro si è paurosamente impoverito.

Il governo ha annunciato “un piano per la povertà”. I sussidi sono una risposta?
Leggo che lo stanziamento dovrebbe essere un miliardo: è insufficiente per qualsiasi cosa. Se si volesse affrontare anche solo il tema della povertà assoluta – cioè di coloro che non possono mangiare, vestirsi, curarsi e così via – bisogna pensare a un reddito di cittadinanza che arrivi a 2 milioni di famiglie. Ma poi questa non è una politica del lavoro! C’è il problema dei redditi da lavoro e della loro assoluta insufficienza: se non si risponde a questo, non si ritorna nel novero dei Paesi civili. Altro passo sarebbe la ristrutturazione del debito: senza non si esce da questa situazione. Continueremo a buttare il nostro surplus per pagare interessi a banche e istituzioni finanziarie.
Questo ci porta all’euro.
Così com’è non sta in piedi. L’euro, con livelli di produttività così differenziati, funziona come una macchina che scarica sul fondo della piramide i costi e che costringe, per competere, a comprimere il costo del lavoro ben al di sotto dei limiti fisiologici. Se non si affronta la questione monetaria – con un durissimo scontro nell’Europa (e non fuori di essa) – non si affronta nemmeno la questione del lavoro.
ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg