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Zadie Smith
Dell’ottimismo e della disperazione
11 Dicembre 2016
de homine
Multiculturalismo:la complessa realtà storica e sociale di una realtà oggi contestatata, raccontata sulla base della sua esperienza dalla famosa scrittrice britannica.

La Repubblica, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)

Per prima cosa devo riconoscere l’assurdità della mia posizione. Probabilmente accettare un premio letterario è sempre un po’ assurdo, ma in tempi come questi non solo chi lo riceve, ma anche chi lo assegna sente inevitabilmente un certo imbarazzo per tutta la faccenda. Eppure eccoci qua. A occidente sorge il presidente Trump, sull’altro lato dell’oceano l’Europa unita tramonta oltre l’orizzonte: eppure eccoci qua, ad assegnare un premio letterario e a riceverlo.

Gli eventi dell’ 8 novembre hanno reso assurde così tante cose più importanti che esito a includere i miei scritti nell’elenco, e li cito solo perché la domanda che mi sento porre più frequentemente in questi giorni a proposito del mio lavoro mi sembra avere una certa attinenza con la situazione.

La domanda è: «Nei tuoi primi romanzi suonavi molto ottimista, ma ora i tuoi libri sono pervasi di sconforto. È effettivamente così? » . Normalmente viene fatta con un tono di smaniosità furbetta: è un tono che può riconoscere facilmente chiunque abbia sentito un bambino chiedere il permesso di fare qualcosa che in realtà ha già fatto.

A volte viene posta in modo molto più esplicito, per esempio: «Eri una paladina del multiculturalismo: non vuoi ammettere che ormai ha fallito?». Quando sento queste domande mi torna in mente che per certe persone essere cresciuti in una cultura omogenea in un angolo della provincia inglese (per esempio), o francese, o polacca, durante gli anni Settanta, Ottanta o Novanta, significa semplicemente essere stati vivi nel mondo, mentre essere cresciuti a Londra nello stesso periodo con (per esempio) dei musulmani pachistani nell’appartamento accanto, degli induisti indiani al piano di sotto e degli ebrei lettoni nella casa di fronte, è visto, da altri, come la prova di un esperimento sociale storico ben preciso, ormai screditato.

Naturalmente da bambina non mi rendevo conto che la vita che vivevo fosse considerata in qualche modo provvisoria o sperimentale da altri: pensavo che fosse semplicemente vita. E quando scrivevo un romanzo sulla Londra in cui ero cresciuta, non mi rendevo conto che descrivendo un ambiente in cui persone provenienti da posti diversi vivono in modo relativamente pacifico una accanto all’altra, mi stessi facendo “paladina” di una situazione che in realtà era sub judice e le cui condizioni da un momento all’altro potevano essere revocate.

Tutto questo per dire che ero molto innocente, all’età di ventun anni. Pensavo che le forze storiche che avevano portato la parte nera della mia famiglia dalla costa dell’Africa occidentale ai Caraibi attraverso la tratta degli schiavi, e poi in Gran Bretagna attraverso il colonialismo e il postcolonialismo, fossero solide e reali quanto le forze storiche che (per esempio) avevano epurato un paesino italiano di tutti i suoi ebrei, e in virtù della sua distanza fisica da Milano lo avevano mantenuto in larga parte bianco e cattolico negli stessi anni in cui il mio piccolo angolo di Inghilterra diventava razzialmente pluralista e multireligioso.

Pensavo che la mia vita fosse contingente quanto le vite vissute in un paesino di campagna italiano, e che in entrambi i casi il tempo storico si stesse muovendo nell’unica direzione in cui può muoversi: avanti. Non mi rendevo conto che mi facevo “paladina” del multiculturalismo semplicemente raffigurandolo, o descrivendolo altro che come una tragedia incombente.

Allo stesso tempo, non penso di essere mai stata così ingenua da credere, nemmeno a ventun anni, che le società razzialmente omogenee fossero necessariamente più felici o pacifiche della nostra semplicemente in virtù della loro omogeneità.

D’altronde perfino un ragazzino con la metà dei miei anni sapeva quello che si facevano tra loro gli antichi greci, e i romani, e gli inglesi del XVII secolo, e gli americani del XIX. Il mio migliore amico di quando ero giovane — ora mio marito — è originario dell’Irlanda del Nord, un posto dove persone che hanno lo stesso identico aspetto, consumano gli stessi cibi, pregano lo stesso Dio, leggono lo stesso libro sacro, indossano gli stessi vestiti e celebrano le stesse festività, hanno passato quattro secoli a farsi la guerra per una differenza dottrinale relativamente marginale che hanno lasciato trasformarsi in una diatriba a tutto campo su terra, sistema di governo e identità nazionale. L’omogeneità razziale non è in alcun modo garanzia di pace, così come l’eterogeneità razziale non è immancabilmente destinata a fallire.

In questi giorni mi sembra che una forma nostalgica di viaggio nel tempo sia diventata un tema politico persistente, sia a destra che a sinistra. Il 10 novembre il New York Times ha scritto che quasi sette elettori repubblicani su dieci preferiscono l’America com’era negli anni Cinquanta: una nostalgia che ovviamente una persona come me non può provare, visto che in quel periodo non avrei potuto votare, sposare mio marito, avere i miei figli, lavorare nell’università in cui lavoro o vivere nel quartiere in cui vivo. Il viaggio nel tempo è un’arte discrezionale: per qualcuno è un viaggio di piacere, per altri un racconto dell’orrore.

Allo stesso tempo, anche a sinistra c’è gente che coltiva fantasie di viaggi temporali, immaginando che gli stessi rigidi principi ideologici che un tempo venivano applicati a tematiche come i diritti dei lavoratori, il welfare e i commerci possano essere applicati senza variazioni a un mondo globalizzato di capitali fluidi.

Tuttavia, la domanda sul progetto fallito, applicata al minuscolo mondo irreale della mia narrativa, non è del tutto sbagliata. È abbastanza vero che i miei romanzi un tempo erano luoghi più solari, e che ora il cielo si è rannuvolato sopra i miei libri. Lo addebito in parte, semplicemente, all’esperienza della mezza età: Denti bianchi lo scrissi da bambina e ci sono cresciuta insieme. L’arte della mezza età è sempre indubbiamente più cupa dell’arte della giovinezza, e la vita stessa diventa più ombrosa. Ma sarei insincera se pretendessi che non c’è altro. Sono una cittadina, oltre che un’anima individuale, e una delle cose che la cittadinanza ci insegna, sul lungo periodo, è che non c’è nessuna perfettibilità nelle faccende umane. Questo fatto, ancora ignoto per una ventunenne, è un po’ più evidente agli occhi di una quarantunenne.

Come il mio caro, ben presto ex presidente, capiva bene, in questo mondo ci sono solo progressi incrementali. Solo persone ostinatamente cieche possono ignorare che la storia dell’esistenza umana è simultaneamente la storia della sofferenza: della brutalità, degli omicidi, delle estinzioni di massa, di venalità di ogni sorta e di orrori ciclici. Nessuna terra ne è esente, nessuna persona è priva di questa macchia di sangue, nessuna tribù è interamente innocente. Ma c’è sempre questa faccenda liberatoria dei progressi incrementali. Può sembrare piccola cosa a chi ha visioni apocalittiche, ma per una che fino a non molto tempo fa non avrebbe potuto votare, o bere dalla stessa fontanella dei suoi concittadini, o sposare la persona che voleva, o vivere in un certo quartiere, questi cambiamenti incrementali sembrano qualcosa di enorme.

E contestualmente il sogno di viaggiare nel tempo — per i nuovi presidenti, per i giornalisti letterari, per gli scrittori — è solo questo: un sogno. E un sogno che ha senso soltanto se i diritti e i privilegi che ti sono accordati in questo momento ti venissero accordati anche allora. Che alcuni uomini bianchi abbiano una visione più sentimentale della storia di chiunque altro, in questo momento, non è una gran sorpresa: i loro diritti e privilegi risalgono molto indietro nel tempo.

Per una donna nera l’estensione della storia vivibile è enormemente più breve. Che cosa sarei stata e che cosa avrei fatto — o più esattamente che cosa mi avrebbero fatto — nel 1360, nel 1760, nel 1860, nel 1960? Non dico questo per rivendicare il proscenio della vittima perfetta o dell’innocenza storica. So benissimo che i miei antenati dell’Africa occidentale vendevano e schiavizzavano i loro cugini e vicini tribali. Non credo in una qualunque identità politica o personale di pura innocenza e assoluta rettitudine.

Ma non credo nemmeno nei viaggi nel tempo. Credo nei limiti umani, non per un qualche sentimento di fatalismo, ma per una prudenza appresa, racimolata nella storia vicina e lontana. Non saremo mai perfetti: questo è il nostro limite. Ma possiamo avere, e abbiamo avuto, momenti di cui andare realmente orgogliosi. Io andavo orgogliosa del mio quartiere, della mia infanzia, nel lontano 1999. Non era perfetta, ma era ricca di possibilità. Se le nubi si sono addensate sulla mia narrativa non è perché quello che era perfetto si è rivelato vuoto, ma perché quello che stava diventando possibile — e milioni di persone vivono ancora come tale — ora viene negato come se non fosse mai esistito e non potesse mai esistere.

Mentre scrivo queste righe mi rendo conto di essermi un po’ allontanata dalla felicità che dovrebbe giustamente accompagnare l’accettazione di un premio letterario. Sono molto felice di accettare questo grande onore, vi prego di non fraintendere la mia disposizione d’animo. Sono più che felice, sono stupefatta.

Quando cominciai a scrivere non avrei mai immaginato che qualcuno al di fuori del mio quartiere avrebbe letto questi libri, tantomeno fuori dall’Inghilterra, tanto meno “ sul continente”, come lo chiamava mio padre. Ricordo che ero sbalordita quando mi imbarcai nel mio primissimo tour europeo per la presentazione di un libro, in Germania, con mio padre che ci era stato per l’ultima volta nel 1945, come giovane soldato durante la ricostruzione. Per lui fu un viaggio colmo di nostalgia: aveva amato una ragazza tedesca nel lontano 1945 e uno dei suoi grandi rimpianti, ammise con me durante quel viaggio, era di non aver sposato lei ed essere invece tornato a casa, in Inghilterra, e aver sposato prima una donna e poi un’altra, mia madre.

Sicuramente sembravamo una strana coppia in quel tour: una giovane ragazza nera e il suo anziano padre bianco, che giravano con le guide strette in mano a cercare quei punti di Berlino che mio padre aveva visitato quasi cinquant’anni prima. È da lui che ho ereditato sia l’ottimismo che la disperazione, perché aveva partecipato alla liberazione del lager di Bergen-Belsen, e quindi aveva visto il peggio che il mondo ha da offrire: ma da lì in poi aveva saputo andare avanti, con un cuore e una mente sufficientemente aperti, lasciandosi dietro un matrimonio fallito e poi un altro, e sposandosi tutte e due le volte senza tenere conto delle varie barriere di classe, colore e temperamento, eppure continuava a trovare nella vita ragioni per essere allegro, perfino ragioni per essere felice.

Mi rendo conto adesso che era una delle persone meno ideologiche che abbia mai conosciuto: tutto quello che gli succedeva lo prendeva come un caso specifico, non era capace o non voleva ricavarne una generalizzazione. Perse il lavoro che gli dava da vivere, ma non perse la fede nel suo Paese. Il sistema scolastico lo aveva respinto, ma continuava a venerarlo e riponeva in esso tutte le sue speranze per i figli. Le sue relazioni con le donne sono state quasi sempre un disastro, ma non odiava le donne. Nella sua mente non aveva sposato una ragazza nera, aveva sposato “ Yvonne”; e non aveva un insieme sperimentale di bambini di razza mista, aveva me, mio fratello Ben e mio fratello Luke.

Quanto sono rare persone del genere! Non sono così ingenua da credere, neanche adesso, che in ogni periodo storico ce ne siano a sufficienza da formare una società decente e tollerante. Ma nemmeno voglio negare che esistano, o che non possano esserci vite come la sua. Era un membro della classe operaia bianca, un uomo spesso afflitto dalla disperazione, ma che riusciva comunque a conservare un ottimismo di fondo. Forse in un’epoca diversa, sottoposto a influenze culturali diverse, in una società diversa, sarebbe diventato uno di quegli uomini bianchi rabbiosi di cui la sinistra odierna è tanto impaurita. Ma così come stavano le cose, lui, nato nel 1925 e morto nel 2006, ha visto i suoi figli beneficiare delle tutele di civiltà del dopoguerra, l’istruzione e le cure mediche gratuite, e riteneva di avere molte ragioni per essere grato.
Questo è il mondo che ho conosciuto.

Le cose sono cambiate, ma il cambiamento non cancella la storia, e gli esempi del passato offrono comunque nuove possibilità per tutti noi, opportunità per ricostruire, a beneficio di una nuova generazione, le condizioni di cui abbiamo goduto noi. Né i miei lettori né io siamo più sulle alture relativamente soleggiate che descrivevo in Denti bianchi. Ma la lezione che ricavo da tutto questo non è che le vite di quel romanzo erano illusorie, semmai che il progresso non è mai permanente, che sarà sempre minacciato, che va raddoppiato, riaffermato e rimmaginato se si vuole che sopravviva. Non dico che sia facile. Non ho le risposte.

Per natura non sono portata alla politica, e questo politicamente è il periodo più oscuro che abbia conosciuto. Il mio mestiere, così com’è, concerne le vite intime delle persone. Quelli che mi interrogano sul “ fallimento del multiculturalismo” vogliono insinuare che non solo è fallita un’ideologia politica, ma gli esseri umani stessi sono cambiati e ora sono fondamentalmente incapaci di vivere insieme pacificamente a dispetto delle loro tante differenze.

In questa tesi è lo scrittore che fa la figura del bambino ingenuo, ma io sostengo che sono proprio le persone che credono in cambiamenti fondamentali e irreversibili della natura umana a essere antistoriche e ingenue. Se c’è una cosa che i romanzieri sanno è che i singoli cittadini sono plurali internamente: contengono in loro l’intera gamma delle possibilità comportamentali. Sono come spartiti musicali complessi, da cui è possibile estrarre certe melodie e ignorarne o sopprimerne altre, a seconda, almeno in parte, di chi è il direttore d’orchestra. In questo momento, in tutto il mondo — e più recentemente in America — i direttori di questa orchestra umana hanno in mente solo le melodie più grette e banali.

Qui in Germania probabilmente vi ricordate di questi canti marziali: non sono una memoria tanto remota. Ma non c’è posto sulla Terra in cui non siano stati suonati, in un momento o nell’altro. Quelli di noi che ricordano anche una musica più bella ora devono cercare di suonarla, e incoraggiare gli altri, se ci riusciamo, a cantare insieme a noi.

( traduzione di Fabio Galimberti)

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