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Michele Ainis
Quattro scenari per il dopo
25 Novembre 2016
Democrazia
Un'analisi dei possibili scenari post-referendum attraverso considerazioni pragmatiche e soprattutto meno drammatiche che tendono ad alleggerire la tensione delle ultime battute provenienti dai due fronti
Un'analisi dei possibili scenari post-referendum attraverso considerazioni pragmatiche e soprattutto meno drammatiche che tendono ad alleggerire la tensione delle ultime battute provenienti dai due fronti .

La Repubblica, 25 novembre 2016 (c.m.c.)
E se invece questo referendum non fosse un finimondo? Se il 5 dicembre scoprissimo che non è cambiato nulla? Gettiamo in un cestino gli ansiolitici, proviamo a spalancare gli occhi sugli scenari che ci attendono. Sono quattro, come le stagioni.

Ma il loro paesaggio è già dipinto, quale che sia il responso delle urne. Primo: la Costituzione. Siamo alle prese con la sua riforma da trent’anni; se lasciamo passare questo treno, chissà quando ne incroceremo un altro. Quindi l’alternativa è fra rivoluzione e stagnazione. Sicuro? Dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5.

Insomma: di riforme ne abbiamo cucinate, eccome. Però piccole, leggere. Sono le macroriforme che ci risultano indigeste. È successo con 3 Bicamerali, è risuccesso nel 2005 con la Devolution di Bossi e Berlusconi. Invece nel 2012 l’introduzione del pareggio di bilancio, promossa dal governo Monti, ottenne la maggioranza dei due terzi in Parlamento, tanto da rendere impossibile il referendum.

E adesso? Comunque vada, s’apre una stagione di microriforme. Se vince il Sì, perché la Grande Riforma sarà stata già timbrata, lasciando spazio solo a qualche aggiustamento; d’altronde anche il presidente Renzi, anche il ministro Boschi, ammettono che il loro testo presenta talune imperfezioni da correggere.

Se vince il No, lo stesso. Ne trarremo giocoforza la lezione che gli italiani accettano soltanto interventi chirurgici, puntuali, sulla Costituzione. E in entrambi i casi procederemo a piccoli passi, senza sbalzi, senza troppi scossoni. Se non altro, eviteremo d’inciampare.

Secondo: la legge elettorale. Verrà emendata, a prendere sul serio il «foglietto » ( copyright Bersani), ovvero l’accordo siglato all’interno del Pd: e dunque via il ballottaggio, premio di governabilità, sistema di collegi. Ma anche a non prenderlo sul serio, resta pur sempre l’esigenza d’approvare una nuova legge elettorale, immediatamente dopo il referendum. O quella della Camera, o quella del Senato. Difatti: se la riforma costituzionale cade nelle urne, insieme ad essa cade anche l’-I-talicum (che presume una sola Camera politica); quindi tocca rimpiazzarlo. Se invece la riforma sopravvive, ci sarà da scrivere la legge elettorale del Senato, per renderlo operante. Mutando l’esito del voto popolare, non mutano gli effetti.

Terzo: il governo. Dovrebbe restare indenne da un’eventuale bocciatura: è un esecutivo, non un’Assemblea costituente. E ha davanti un referendum, mica una mozione di sfiducia. Invece no, non in questo caso. Il quesito che ci interrogherà fra dieci giorni si è caricato d’elementi politici, fino a oscurare il merito costituzionale. Sbagliato, però inevitabile; dopotutto votiamo (per la prima volta) su una riforma battezzata dalla stessa maggioranza, dallo stesso esecutivo ancora in sella. Dunque se prevale il Sì, Renzi rimane a cavallo; altrimenti verrà disarcionato. Davvero? Lui è pur sempre l’azionista di maggioranza del partito di maggioranza alla Camera, grazie al premio somministrato dal Porcellum. Sicché dopo Renzi c’è Renzi, oppure un renziano.

Quarto: le elezioni. Quando si vota? Dipenderà dal referendum, dicono tutti gli analisti. Se vince il No, elezioni anticipate; altrimenti la legislatura toccherà la sua scadenza naturale, nel 2018. Errore: si voterà comunque in primavera.

Anche se vince il Sì, soprattutto in questo caso. Per una ragione politica: a quel punto, il presidente del Consiglio passerà all’incasso, come farebbe chiunque altro nei suoi panni. Per una ragione istituzionale: si può tenere in vita, per un paio d’anni ancora, un Senato abrogato dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l’entrata in vigore della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi. Sicché mettiamoci tranquilli: il voto del 4 dicembre è solo un antipasto. E il pasto cuoce già nel forno. Speriamo di non farne indigestione.

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