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Alberto Ziparo
Un piano di resilienza
4 Settembre 2016
Invertire la rotta
«È necessariouno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspettio sono intrecciati: ricostruire è necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere».

«È necessariouno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspettio sono intrecciati: ricostruire è necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere». Il manifesto, 4 settembre 2016 (p.d.)

Le prime dichiarazioni del governo circa l’urgenza, la necessità e l’importanza tanto di una rapida ricostruzione di quanto distrutto dal terremoto, «dov’era e com’era», quanto dell’avvio di un massiccio programma di risanamento del territorio, sembrano dettate – una tantum – da un minimo di razionalità economica, ecologica e sociale (si parla addirittura di partecipazione dal basso): speriamo non si tratti di annunci opportunistici.
È bene che sia chiara all’inizio l’esigenza di uno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspetti peraltro sono intrecciati: ricostruire è certo necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere. E acquista maggiore senso se – come hanno già detto tra gli altri Guido Viale, Salvatore Settis, Piero Bevilacqua, Tomaso Montanari – si inserisce in un quadro di tutela e valorizzazione dei contesti e dei paesaggi interni, spesso abbandonati a se stessi. Di cui sorprende addirittura la capacità di attrarre turismo sociale legato alla qualità identitaria del territorio e dell’ambiente, al di là dei «ritorni estivi al paesello».

Va detto tuttavia che, a fronte dello straordinario impegno da profondere nelle ricostruzioni e nella difesa del territorio, le operazioni da fare devono caratterizzarsi, più che per «eccezionali trovate progettuali» (comode forse per il consenso politico e il richiamo mediatico suscitabili dall’eventuale presenza di archistar) per «ordinarie» operazioni di pianificazione contingenti e strategiche. Capaci di contestualizzare i modelli ricostruttivi idonei nel caso dell’Appennino marchigiano-laziale, nonché di attualizzare e risignificare i programmi di difesa, di messa in sicurezza del territorio e degli insediamenti, già contenuti in molta recente pianificazione paesaggistica e territoriale.

È bene soffermarsi brevemente su ciascuno dei momenti che costituiscono il processo di gestione dell’emergenza-ricostruzione-preservazione-valorizzazione del territorio.

1) Per quanto riguarda il primo momento, ovvero il ricovero dei senza casa da inagibilità, è positivo che si siano scartate le soluzioni – no town più che new town – tipo il berlusconiano Progetto Case per L’Aquila. E si tenti invece di andare incontro alle esigenze degli abitanti di restare il più vicino possibile alle residenze distrutte; anche come pressione per un ripristino ricostruttivo rapido. Tra le risorse utilizzabili per questo, oltre e più che sulle «casette in legno tipo Map» ai prefabbricati, ai container, si può puntare sull’utilizzo delle case integre e vuote, presenti nei quartieri e soprattutto nei comuni viciniori a quelli più colpiti.

Il processo di ricostruzione può così integrarsi con quello di valorizzazione dei nuclei urbani e dell’ambiente: anche iniziando a riusare quell’enorme monumento allo spreco costituito dall’ingente quota di case vuote. Con processi che potrebbero interessare oltre che i terremotati anche gli altri disastrati, ovvero i migranti disponibili a diventare operatori dei territori interni per azioni di tutela e valorizzazione sostenibile.

Con azioni analoghe a quelle promosse, piuttosto in sordina, per la prima accoglienza, dalle prefetture per conto dei ministeri degli Interni e delle Infrastrutture, i sindaci potrebbero chiedere ai titolari di case vuote – anche privati – la disponibilità all’utilizzo, a canone sociale provvisto dai fondi emergenziali, per il ricovero temporaneo dei senza casa. Oltre che più in generale per qualsiasi tipo di accoglienza.

A questo proposito è utile ricordare che gli edifici vuoti o sottoutilizzati ammontano secondo l’Istat a 5.550 circa in provincia di Rieti, 5.650 in quella di Teramo, 21.100 a L’Aquila, 1.970 a Terni, 2.190 nel territorio provinciale di Ascoli Piceno. Laddove gli alloggi non utilizzati da residenti sono pari nelle stesse province rispettivamente a 59.000 (Ri), 25.100 (Tr), 48.650 (Tm), 95.000 (Aq), 27.000 circa (Ap).

2) La ricostruzione delle strutture abitative, di servizi, storico-culturali, distrutte o danneggiate, sembra, per volontà corale, dover seguire il modello del ripristino urbanistico e architettonico («dov’erano, com’erano», appunto). Qui va fatta attenzione perché la medesima tipologia architettonica può perseguirsi anche con diverse, più attuali e sicure, tipologie costruttive. È importante mantenere la «coerenza interna» delle strutture portanti degli edifici: puntellare parti di essi con elementi di consolidamento parziale può rivelarsi anche un grave errore; specie allorché c’è stata attenzione relativa alla compatibilità con la consistenza strutturale. Ciò che emerge talora drammaticamente in caso di eventi sismici o idrogeologici rilevanti.

3)La prevenzione degli eventi sismici costituisce problematica fondamentale; sempre evocata al momento di catastrofi da terremoti, frane o alluvioni. Ma mai realmente perseguita. Come peraltro è quasi ovvio in questa fase caratterizzata da «una politica istituzionale assai mediatizzata» e spesso subalterna agli interessi finanziari.

Gli stessi che privilegiano i «grandi eventi» o le «grandi opere» che infatti muovono grandi flussi di capitali; e spesso vedono gli operatori pubblici impegnatissimi ad acquisire da banche o agenzie di settore quelle risorse finanziarie che non ci sono. La prevenzione nella difesa del territorio deve invece essere unitaria (difesa da tutti i rischi, in primis frane e terremoti), pianificata.

E costa molto, per prefigurare, disegnare, integrare e realizzare sistemi di piccole opere coordinate (in cui i grandi operatori finanziari si muovono a disagio e che quindi avversano). La stessa denominazione che il governo ha attribuito a questa fase operativa – «Piano Casa Italia» laddove serve un grande programma territoriale – dimostra di non, o non aver voluto, cogliere la vera essenza della tutela. Ovvio sottolineare infatti come prevenzione antisismica e idrogeologica si completano a vicenda, in un modello che tende al ripristino dei caratteri di consistenza e di resilienza ecosistemica dei territori.

La prevenzione sismica e idrogeologica e da altri rischi (es. incendi) deve essere quindi integrata, unificando le competenze oggi frammentate di Protezione Civile e ministeri delle Infrastrutture, Ambiente, Beni Culturali. Sarebbe ora di promuovere il ministero del Territorio che integri le diverse azioni gestionali e coordini le varie strategie.

Le risorse che servono sono ingenti: è corretta l’idea del programma pluriennale, anzi pluridecennale, ma basta sommare le cifre ufficiali fornite dagli stessi uffici ministeriali per capire che 1,5- 2 miliardi di euro annui, anche per 10 o 20 anni, costituiscono solo una piccola parte del necessario. Stime ufficiali del MISE per la Programmazione Regionale parlano di 65 miliardi per la sola messa in sicurezza antisismica delle attrezzature pubbliche, oltre 40 miliardi per quelle private, 55 miliardi per il riassetto idrogeologico e 15 per fronteggiare gli altri rischi: siamo circa a 180 miliardi di euro – peraltro meno delle risorse previste per le grandi opere della Legge Obiettivo.

Va bene l’idea di piano ventennale: purché la finanziaria – altro che stabilità – preveda per questo un portafoglio di almeno 10 miliardi di euro annui. È la prima, più grande e estremamente urgente, opera di cui necessita quello che era il Bel Paese.

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