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Fabrizio Gatti
Sette giorni all'inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato
13 Settembre 2016
Italiani brava gente
Un appello di Eugenio Scalfari su

Un appello di Eugenio Scalfari su Repubblica ci sollecita a pubblicare questo reportage, pubblicato domenica scorsa. Si tratta di uno scandalo denunciato da tempo da chi segue le vicende delle migrazioni, di cui trovate ampia documentazione su questo sito (vedi in calce). L'Espresso, 12 settembre 2016

Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centrodi accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge nonesiste.. Ecco il suo diario
La quinta notte apro la portasull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa earroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa didecine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Nientelenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte dilana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sonosparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischiodi calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica dadue fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare alavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage.

No, questa non è una bidonville. È unghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centrod’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce nesono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengonosfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” dellaLega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”,amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione,incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona,quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto intre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze delmomento.

La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto igangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da farprostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria adasciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion perl’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non lapolizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico delcancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille.Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nellarecinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso,una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Unasettimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il miodiario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato.


Telecamere e buchi nella rete

Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazionedi fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianuraai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza.Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’èun varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entranoaddirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritornodalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungola pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sonousciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Unastratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltorifoggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli èarrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hannoaperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notteil riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttostointegralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio chevende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista,appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione delGhetto di Stato.

I fari sono puntati a terra e letelecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Ilprimo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati.Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri perdue, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello.Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirlabrutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazzacentrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moscheae i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondocapannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in unadozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte,alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietrocancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altraschiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lousano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che ilsecondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lìvigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione delCara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornatadi sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso possoentrare.

I fantasmi respinti

Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah èil più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro ediciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musicaafro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fannoprostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommatelungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlavacosì forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamanoalla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci deimuezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’iniziodel massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduticome schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche dicerti fanatici islamisti di oggi.

Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova adormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro nonc’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman,24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumacheaggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani lecomprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Maservono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiestoasilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositoreperseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere idocumenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so.E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento dicollaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano dellalotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere miasorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. Laterra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi èquest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No.«Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie.«Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anchemangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tuvieni in moschea?».


Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare neipochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire allapovertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale proteggesoltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali emaliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Sulemanverrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia difantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori.

Gli schiavi in bicicletta

Un altro giorno è passato. È laseconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il lorotormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è giàla coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con lebottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmenol’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricolturapugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedentiasilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporalinigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista:per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro algiorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherriitaliani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Cosìmolti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli.

Le biciclette nel Cara sono groviglidi manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcunonelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsirubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, ilguadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Statovengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata,piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto ealloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensionetra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati,disposti a lavorare a meno.

Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti arifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri seraquasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti dalavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualchecompagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente adormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietrol’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spallail muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio comebersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti.
Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo,in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta èrespinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”.Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati,analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa allacooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari,una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinatosi aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba.

Le spie dei gangster nigeriani


«Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 annianche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Vieneda Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dallanotte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta dellamensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», hainsistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o laGermania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europeechiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca.Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amicia bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte.Meglio non esporsi troppo.

Precauzione inutile. La polizia non si è mai fattavedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco conla faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibiliconfini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corsodella notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con duepakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato azona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento,arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza dibirra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà siarrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amicinigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con unmaterasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sulsuo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso.Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici checosa fai qui?».

I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lohanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato finoa farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con unmachete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga,il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parloinglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adessochiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per iltelefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vaivia” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sulmaterasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanerenel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia.Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo delmuezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non simuove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco.

L'assalto dei cani randagi

Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondocui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Allaprefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questoGhetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato dicani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori.Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono inbicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le lorosagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiamaun’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono unadecina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentementetornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro.

Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una seraparliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzalevicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra.È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme allaPista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare iprezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani paganobene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiegaNasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In seianni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito unabella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiestoasilo in Italia».


Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Unamacchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per unanotifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Leragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se sianoospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavatanell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causadell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. Escompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le lucicolorate, la palla di specchi al centro del soffitto.

La corrente la rubano dalla rete di illuminazionepubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, aloro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attentiai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e incostruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonvillee il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro dabanalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bellascarica.

Benvenuti all'inferno


Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbeessere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovonascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo piùsicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato alreggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghierasfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Siricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dalbuio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila dibraccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamonel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengonotutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere.Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato difogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono albuio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce deifari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, maancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Unragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata allacolonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiottosotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita ètutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchiotelevisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suoorizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti.

Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati comematerassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando dueuova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e unrotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, unpiatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nelcortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo diCumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’ariaintorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. Èstata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchiodi cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne egli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro diaccoglienza.


Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sonouscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastranoprima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire anon far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio,questa è una trappola.

Lo sconto sulla dignità

I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiatodei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce nesono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane,accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllanogli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestiniper i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hannostrappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catenaalimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire alloscoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, prepararei richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, irisultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un repartooncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadinio moriremo da clandestini?

Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noiitaliani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti perpensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale arendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova giànella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribassopercentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra dipartenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo”di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassatola diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. Lalogica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefetturadi Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coopsapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunqueil ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti diqualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senzagara. Così perfino lo sconto è rimborsato.

La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per contodi “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo.Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazioneannuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono allamissione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categoriepiù bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce èaccesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti peri campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonnacentrale, che martella la vista: «Benvenuti».


Riferimenti

Su eddyburg vedi i molti articoli nella nella cartella EsodoXXI . Sulla prima accoglienza vedi in particolare l'intervento di Gianna De Masi, l'articolo di Stefano Galen Breve storia dei 35 euro , l'appello per la chiusura dei CIE, Sull'analisi della questione delle migrazioni e le risposte vedi Ospitalità e cittadinanza: un diritto e un dovere di Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici, Edoardo Salzano, e i numerosi scritti di Guido Viale ospitati in questo sito

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