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Francesco Erbani
La solitudine dei direttori nei musei più belli del mondo
18 Agosto 2016
Beni culturali
«Organici carenti, personale anziano, lentezze strutturali. A un anno dalla nomina anche il “

New York Times” indaga successi e fallimenti dei responsabili venuti dall’estero alle prese con il sistema Italia». La Repubblica, 18 agosto 2016 (c.m.c.)

Compie un anno quel pezzo di riforma dei Beni culturali che ha portato l’autonomia e nuovi direttori in venti fra musei e siti archeologici italiani. In realtà i direttori si sono insediati fra l’autunno e la fine del 2015, ma è stato nella calura dell’agosto scorso che essi sono stati designati dopo una selezione pubblica. Venti nuovi direttori, sette dei quali stranieri. Un anno di piccole e grandi rivoluzioni, ma anche di critiche serrate e di polemiche. L’anniversario rimbalza negli Stati Uniti, dove il New York Times dedica un lungo reportage alla vicenda. Che mette in evidenza luci e ombre, cambiamenti e resistenze e che si chiude con il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, il quale, sorridendo, esclama: «Mi hanno messo a fare un lavoro sporco (dirty work), sarebbe meglio che non mi abbandonassero proprio ora».

C’è alle viste il pericolo di lasciare a se stessi storici dell’arte, curatori e archeologi venuti dall’estero per occuparsi di parti pregiate del nostro patrimonio? E ciò andando incontro a uno smacco internazionale di proporzioni poco immaginabili? Ancora è presto per affermarlo. Inoltre i segnali che arrivano dai diversi direttori non lasciano intravedere nubi. Ma le difficoltà che essi incontrano sono quelle che da tempo vengono denunciate: organici carenti, personale molto anziano (oltre il 50 per cento ha più di sessant’anni e fra non molto andrà in pensione), strutture al collasso, leggi farraginose, pastoie burocratiche.

I venti nuovi direttori sono solo la parte più appariscente della riforma voluta dal ministro Dario Franceschini (e tanto più lo sono i direttori stranieri, fra i quali, oltre a Schmidt, figurano James Bradburne a Brera, Sylvain Bellenger a Capodimonte o Gabriel Zuchtriegel a Paestum). L’obiettivo principale è l’autonomia gestionale e finanziaria dei musei, prima agganciati alle soprintendenze, dalle quali provenivano i direttori.

La scelta è stata netta e su di essa si sono concentrate le accuse: si è voluto smantellare un sistema durato per tutto il Novecento, fondato su un legame stretto fra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Bilanci di quanto questa frattura abbia prodotto in positivo o in negativo è ancora difficile poterli tracciare. C’è chi sottolinea una spiccata agilità nel prendere decisioni, nell’avviare innovazioni. Chi invece lamenta il rischio di conflitti: la tutela dei beni esposti nei musei resta, ed è naturale, di competenza dei soprintendenti. C’è chi rileva il dinamismo dei nuovi direttori (dove più dove meno), chi segnala che le questioni strutturali restano inevase. C’è chi plaude ai cambiamenti, chi lamenta che negli anni i tanti cambiamenti imposti a una struttura fragilissima sono come un perenne sciame sismico.

Il New York Times mette in evidenza lo scarto fra le iniziative dei direttori e il contesto. L’episodio dal quale parte l’autrice, Rachel Donadio, è noto: la multa affibbiata nel maggio scorso dai vigili urbani di Firenze a Schmidt pescato perché da un altoparlante invitava i visitatori in fila davanti agli Uffizi a fare attenzione a borseggiatori e bagarini. Non aveva l’autorizzazione: 422 euro di sanzione, pagati da Schmidt di tasca propria. Il giornale americano enumera gli sforzi dello storico dell’arte tedesco – l’abbattimento delle file di visitatori, l’ampliamento della galleria, la riorganizzazione dell’amministrazione e dei servizi di custodia, l’apertura del Corridoio Vasariano – e li mette alla prova di resistenze burocratiche, di norme contraddittorie. «È come giocare una partita multipla di scacchi», commenta il direttore.

La riforma, intanto, procede. Ai musei vengono attribuiti fondi speciali per realizzare progetti da tempo in cantiere. E si sono appena chiusi i bandi per selezionare i direttori di altri nove fra musei e siti archeologici o monumentali, mentre il 15 settembre terminerà quello per il Museo Nazionale Romano, che prima era stato destinato all’autonomia, poi era tornato fra le strutture dirette da personale della soprintendenza, quindi di nuovo reso autonomo: una giravolta non inedita dalle parti del Mibact. Fra gli altri siti, per i quali sono arrivate circa 400 domande, figurano Ercolano, la Pilotta a Parma, il Castello di Miramare a Trieste, Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli. A Roma sono compresi i musei dell’Eur e il museo etrusco di Villa Giulia e gli scavi archeologici di Ostia Antica.

Ecco infine due “parchi archeologici”, tutti da inventare: quello dei Campi Flegrei, a nord di Napoli, e soprattutto l’Appia Antica, che non è un’area a pagamento, essendo un pezzo di città che si spinge verso i Castelli romani, in larghissima parte in mano a privati. L’Appia Antica è stata retta per vent’anni da Rita Paris, con energia e dedizione universalmente riconosciute. Ha avuto sempre a disposizione mezzi scarsi e con questi ha compiuto salti mortali. Chissà se con strutture e strumenti adeguati la condizione dell’Appia sarebbe migliorata. Ma al ministero si è deciso di cambiare tutto.

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