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Dante De Angelis
Ferrovie, si parla di errore umano per non parlare degli errori disumani
15 Luglio 2016
Articoli del 2016
«Dispiace leggere che la magistratura abbia subito individuato, come al solito, soltanto le responsabilità dell’ultimo anello della catena senza alzare lo sguardo verso chi aveva il dovere giuridico di adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità dei lavoratori e dei viaggiatori

«Dispiace leggere che la magistratura abbia subito individuato, come al solito, soltanto le responsabilità dell’ultimo anello della catena senza alzare lo sguardo verso chi aveva il dovere giuridico di adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità dei lavoratori e dei viaggiatori

». Il manifesto, 15 luglio 2016 (c.m.c.)

L’errore umano non esiste, o meglio non esiste nulla che possa giustificare una strage in conseguenza di una banale distrazione o di un equivoco in una comunicazione tra due ferrovieri. Non esiste come giustificazione nel senso che l’errore è sempre presente nell’azione dell’uomo, è un evento incombente, connaturato alla quotidianità ed all’essenza umana, appunto.

Se ci fosse stata una efficace valutazione del rischio, questo sarebbe emerso ed eliminato o attenuato al minimo possibile. Pertanto chiunque organizzi o gestisca un’attività produttiva che abbia qualche rischio per i lavoratori o per i terzi ha l’obbligo morale e giuridico di prevedere l’errore umano come fattore onnipresente in qualsiasi azione o procedura e di prevenirne gli effetti.

Qualsiasi carpentiere precipiti da un’impalcatura e qualsiasi operaio si amputa una mano sotto una fresa, sicuramente commette un errore umano. È un evento prevedibile come il sonno o la fame. Per questo sono stati inventati, e resi obbligatori per legge, i parapetti e le fotocellule di blocco delle lame. Perché a quei ferrovieri che pure facevano un lavoro così delicato e rischioso non sono stati forniti dei ‘parapetti’ che nel momento della stanchezza, distrazione o di tensione non li hanno trattenuti dal precipitare nel disastro?

Se si fosse trattato di avviare un grande macchinario in una normale fabbrica, il comando esclusivamente telefonico, senza controlli sarebbe stato fuorilegge da sessant’anni. Sarebbero stati imposti vincoli meccanici, elettrici e elettronici di controllo, da una postazione remota con allarme incorporato… magari via internet. Per quei treni no: ancora oggi sono autorizzati a circolare, con norme scritte nel secolo scorso, solo per queste ferrovie «minori» poiché sulla rete nazionale dopo alcuni gravissimi incidenti – e solo grazie a quei morti – le regole e le tecnologie sul distanziamento dei treni sono finalmente cambiate.

Il vero, grande errore umano – commesso pure da esseri umani – è mantenere in esercizio una linea ferroviaria così intensamente trafficata col sistema primitivo del «blocco telefonico», cioè uno scambio di fonogrammi mediante una normale telefonata, tra due capistazione.

È un errore umano anche destinare investimenti, per sviluppare in modo così disomogeneo le diverse linee gestite dalla stessa società: da una parte stazioni e treni nuovi (quasi di zecca), dotati di tutti i moderni sistemi che passano prima su linee con tecnologie moderne e poi proseguono la loro corsa su una linea rimasta al secolo scorso. Dove anche gli stessi macchinisti e capitreno sono indotti all’errore poiché devono cambiare continuamente il «registro mentale» delle loro azioni più volte al giorno in base al punto in cui sono.

Un errore ancora più grande è quello in capo alle istituzioni ministeriali di scrivere e mantenere in vigore delle norme di sicurezza che consentono alle imprese ferroviarie di continuare a gestire, senza limiti di tempo, un servizio pubblico strategico con standard di sicurezza di serie C.

Questi sono «errori disumani», perché commessi, con scelte consapevoli e precise strategie manageriali ed istituzionali, da persone lontane nel tempo e nello spazio dal luogo del disastro e dallo strazio di quelle lamiere. Errori commessi a tavolino con fredda lucidità in conseguenza dei quali si sono create le «insidie o le trappole» in cui sono caduti i compagni di lavoro pugliesi.

Dispiace leggere che la magistratura abbia subito individuato, come al solito, soltanto le responsabilità dell’ultimo anello della catena, senza alzare lo sguardo verso chi aveva il dovere giuridico di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori e dei viaggiatori.

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