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Roberto Petrini
Cresce la povertà nel nostro paese
15 Luglio 2016
Articoli del 2016
La povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l’Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo-tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario. Articoli di Roberto Petrini e Chiara Saraceno.

La povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l’Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo-tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario. Articoli di Roberto Petrini e Chiara Saraceno.

La Repubblica, 15 luglio 2016 (c.m.c.)

POVERTÀ ASSOLUTA PER 4,6 MILIONI
È RECORD DAL 2005
di Roberto Petrini

La crisi economica degli ultimi anni ha lasciato il segno: la povertà è in crescita e in Italia più che negli altri paesi. A scattare la drammatica fotografia è stato ieri l’Istat: soffrono le famiglie numerose, quelle di origine straniera ma soprattutto il nucleo-tipo (due genitori giovani e due figli) fa fatica a sbarcare il lunario. Le nude cifre, relative all’anno 2015, dicono che ci sono 4 milioni e 598 mila italiani che vivono sotto la soglia di povertà assoluta (il 7,6 per cento): un dato in crescita, il più elevato dal 2005, e che nel 2014 era al 6,8 per cento. Conforta poco che il numero dei nuclei familiari in povertà assoluta sia stabile a quota 1 milione e 582 mila: gli individui poveri crescono perché le famiglie numerose sono la componente più importante all’interno dell’area di povertà.


La radiografia Istat indica che la povertà assoluta è salita tra le coppie con 2 figli dal 5,9 del 2014 all’8,6 per cento dello scorso anno. Colpite anche le famiglie di origine straniera: si passa dal 23,4 per cento del 2014 al 28,3 per cento del 2015, con margini più accentuati al Nord. Segnali di peggioramento si registrano anche tra chi vive nelle aree metropolitane (la povertà sale dal 5,3 al 7,2 per cento) e tra i 45-54enni. La povertà assoluta invece diminuisce se aumentano l’età del capofamiglia e il titolo di studio: dati che integrati con quelli forniti dal presidente dell’Inps Tito Boeri l’altro giorno in occasione della presentazione rapporto Onds, ci forniscono la fotografia di un’Italia dove a soffrire sono giovani e la fascia tra i 55 e i 65 anni, cioè coloro che sono privi di ammortizzatori sociali.

Un tema che rimbalza sul terreno politico dove proprio ieri la Camera ha approvato, con 221 sì e 22 no, il ddl del governo per il contrasto alla povertà che introduce il «reddito di inclusione » e che ora passa al Senato. Il reddito di inclusione, contrariamente al reddito di cittadinanza proposto dal M5S che è sostanzialmente erga omnes, si rivolge ad una platea identificata ed è dotato di norme precise di applicazione. I grillini di conseguenza si sono astenuti e hanno attaccato il nuovo reddito di inclusione definito «iniquo e assistenziale ». Il provvedimento sta tuttavia camminando: la Stabilità del 2016 ha istituito il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale finanziato con un miliardo dal prossimo anno e ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, alla Confcommercio ha assicurato che il governo «è impegnato a migliorare le condizioni di vita dei cittadini» sebbene sia l’occupazione «il primo strumento di contrasto delle diseguaglianze».

PERCHÉ CRESCE IL PAESE DEI POVERI
di Chiara Saraceno

In controtendenza con i dati positivi sull’occupazione, la povertà assoluta nel 2015 non solo non è diminuita, ma è aumentata, coinvolgendo quasi 400 mila persone in più rispetto al 2014 e raggiungendo 4 milioni e 598 mila persone, pari al 7,6 per cento della popolazione. Si tratta, secondo i dati Istat pubblicati ieri, del dato più alto dal 2005.

L’incidenza della povertà continua ad essere maggiore nel Mezzogiorno. Ma l’aumento è avvenuto pressoché tutto nelle regioni del Nord, dove riguarda in prevalenza famiglie di persone straniere e regolarmente residenti nel nostro paese. Tra queste, infatti, si trova in povertà assoluta quasi un terzo, il 32,1, una percentuale di 8 punti maggiore rispetto all’anno prima e più alta di quella, pur considerevole (28,3 per cento), rilevabile per queste famiglie a livello nazionale.

Se si riducono un po’ i divari Nord-Sud, ciò sembra avvenire in larga misura a causa dell’aumento del divario, soprattutto al Nord, tra famiglie di italiani e famiglie di stranieri. Se a livello nazionale le famiglie di tutti stranieri si trovano in povertà oltre sei volte di più di quelle di tutti italiani, nel Nord la differenza è di oltre tredici volte.

Gli effetti lunghi della crisi sembrano aver colpito molto di più gli stranieri, che faticano a trovare o ritrovare un lavoro che sia anche decente. Potremmo pensare che questi dati non rispecchiano il miglioramento avvenuto sul piano dell’occupazione a seguito del dispiegarsi degli effetti del jobs act, stante che questo è avvenuto soprattutto nell’ultimo trimestre del 2015.

Può essere, ma solo in parte. Siamo, infatti, ancora ben lontani dall’aver recuperato tutti i posti di lavoro perduti. Inoltre va considerato con grande preoccupazione che l’aumento della povertà assoluta (dal 5,2 al 6,1 per cento) ha riguardato anche famiglie con persona di riferimento occupata, soprattutto se operaio o assimilato. Tra le famiglie di questi ultimi l’incidenza della povertà assoluta è passata in un anno dal 9,7 all’11 per cento. Molti di questi lavoratori hanno avuto un reddito troppo basso per poter fruire degli 80 euro, perché incapienti, o li hanno dovuti restituire perché “indebitamente” percepiti, in base alla logica paradossale degli 80 euro che esclude i più poveri.

Il fenomeno dei lavoratori e delle famiglie di lavoratori povere ha conosciuto un fortissimo aumento negli anni della crisi, a motivo sia della riduzione del numero di occupati in famiglia, soprattutto a causa della disoccupazione giovanile, sia della crescita del part-time involontario. Quest’ultimo è sempre meno una caratteristica solo dei contratti di lavoro a tempo determinato e in generale dei contratti atipici quando non irregolari.

Come documenta il Rapporto Inps presentato la scorsa settimana, quattro contratti a tutele crescenti su dieci sono a tempo parziale. Avere un lavoro non sempre è sufficiente a proteggere dalla povertà, se è a tempo ridotto, o troppo poco pagato, o se il reddito che fornisce deve bastare per diverse persone. Da questo punto di vista, un altro dato preoccupante riguarda l’aumento della povertà assoluta tra le famiglie con due figli, specie se minori. Finora era il terzo figlio a far scattare un rischio di povertà sopra la media.

Ora basta il secondo. Non stupisce, allora, che i minori siano sovrarappresentati tra chi si trova in povertà assoluta, con un peggioramento sensibile nell’arco di dieci anni. Era in povertà assoluta il 3,9 per cento di tutti i minori nel 2005, il 10,9 per cento nel 2015. In termini numerici sono più del doppio degli anziani: 1 milione e 131 mila rispetto a 538 mila. Ma anche i loro fratelli più grandi non stanno meglio, con quasi il 10 per cento, pari a un milione e 13 mila individui, in povertà assoluta.

A ben vedere, poco meno della metà dei poveri assoluti appartiene alle giovani e giovanissime generazioni, che non hanno ancora l’età per entrare nel mercato del lavoro o che ne vengono escluse, come mostrano i dati del citato Rapporto Inps sull’invecchiamento della forza lavoro occupata negli anni della crisi, a seguito del combinarsi di riduzione della domanda di lavoro e innalzamento dell’età alla pensione. Investire sull’aumento dell’occupazione, come ha dichiarato il ministro Padoan, è certo necessario per combattere la povertà.

Ma il fenomeno dei lavoratori poveri e delle loro famiglie, della sovrarappresentazione dei minori e dei giovani tra i poveri, insieme alla drammaticità dell’incidenza della povertà tra gli immigrati, segnalano che non è sufficiente se non si tiene conto di quale lavoro si tratta e di chi può accedervi. Impongono anche di rivedere criticamente alcune scelte redistributive, dagli 80 euro al bonus bebè.

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