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Fabrizio Bottini
Città e Satelliti
31 Luglio 2016
Fabrizio Bottini
L'idea circolava da tempo, come del resto quella dell'ossimoro biblico città giardino, ma fu proprio l'esigenza di andare oltre quel marchio indelebile

impresso da Ebenezer Howard al suo riformismo sociale ... (segue)

impresso da Ebenezer Howard al suo riformismo sociale, senza cambiare gran che dell'idea insediativa generale, a far ripescare ai suoi interessati collaboratori ed epigoni il concetto di «città satellite». Assai meno impegnativo, apparentemente, non implicava alcuna ricomposizione delle gerarchie tra urbano e rurale, o mutamento radicale del rapporto sociali o di produzione: del concetto riformista riprendeva giusto quello schemino indelebile del grande nucleo centrale attorno al quale giravano i pianetini dipendenti. Che poi si trattasse di vere città integrate come le immaginavano da sempre gli utopisti, o dei sobborghi dormitorio da bambini e casalinghe cari ai padroni del vapore con sensibilità estetica, non contava moltissimo. L'importante era procedere con quel decentramento pianificato che tanto prometteva in termini di «macchina per lo sviluppo» economico, e si sperava anche un po' sociale: nuovi consumi, nuove aspettative, nuove frontiere, e per i paranoici nell'epoca della guerra fredda anche un po' di prevenzione in più in caso di attacco nucleare del terribile nemico comunista (ci furono decine di convegni monografici sul tema).

Eppure qualcuno già da tempo provava ad avvertire dei pericoli di asfissia e sopravvivenza, di quei «satelliti» inopinatamente scagliati nell'orbita territoriale e socioeconomica senza averne davvero valutato la resilienza. Fu per primo addirittura l'amministratore di Letchworth, Thomas Adams, a notare a cavallo della Grande Guerra come qualcosa non andasse proprio dentro la comunità artefatta del villaggio remoto monofunzionale per forza: finiva per diventare l'ennesima versione della comunità hippy di stravaganti, eccentrici, toga party itineranti, predicatori assatanati, scienziati pazzi ansiosi di essere presi sul serio, nulla a che vedere col «pacifico sentiero verso il futuro» di tutte le famiglie e gli individui preconizzato dal profeta.

Al satellite mancavano vistosamente parecchie componenti essenziali del pianeta madre, e nondimeno si insisteva nel mandarne in orbita altri e di diverso modello, come notava poco dopo la seconda guerra William H. Whyte nelle sue inchieste per la rivista Fortune dentro i laboratori sociali dei primi sobborghi voluti dalle nascenti multinazionali per i propri manager. Che ci fosse una bella differenza, tra gli schemi a Tre Calamite di Howard e una brutale flowchart organizzativa aziendale, evidentemente sfuggiva ai più, o non interessava capire, ma il sociologo rilevava parecchie anomalie nelle forme di convivenza, negli stili, nei tic apparentemente secondari, nello strapotere dell'Organizzazione nel dettare i ritmi della vita. O della morte violenta dentro il carcere volontario in cui si poteva trasformare la famiglia satellitare per i soggetti più deboli, come la moglie frustrata raccontata da Richard Yates nel suo Revolutionary Road (1961), antenata di tutte le casalinghe più o meno disperate dei decenni futuri disperse nello sprawl.

L'asfissia sociale da satellite difettoso, e insieme l'immediato gioco di parole che lo stesso termine «satellite» ovviamente induce, è certamente alla base del piccolo prezioso lavoro cinematografico di un giovanissimo cineasta, il ventunenne Lucas Monjo di Montpellier, che nel suo recentissimo corto Les Spectateurs mescola a modo proprio fantascienza e storia urbanistico-sociale. Collocando la città satellite esattamente su una versione gigante di quei satelliti che ciclicamente si sparano in orbita per telecomunicazioni o ricerca, e che in effetti potrebbero anche svolgere altri ruoli, per esempio quando si dice che «per mantenere un certo stile di vita avremmo bisogno di altri pianeti abitabili a disposizione». Ed ecco, parrebbe di poter dire, la trovata ingegneristica risolutiva, che pesca tutto il peggio di almeno un secolo di suburbanizzazione, con effetti sociali a loro modo perfettamente prevedibili, a partire dall'alienazione di una paradigmatica signora che lì «si sente proprio fuori luogo». E ne ha ben d'onde.

Gli Spettatori del titolo saremmo praticamente noialtri, che dentro quelle orbite satellitari, territoriali umane relazionali, ci passiamo tutto il tempo o quasi. Perché sarà anche vero come dice soprattutto la letteratura da treno, che «ognuno di noi è un pianeta», ma c'è una bella differenza ad esserlo dentro un consesso umano e urbano, oppure a sprofondare nel vuoto siderale del Satellite, ed è meglio provare a guardarci anche da quella prospettiva, le solitudini dentro un abitacolo di macchina, davanti a uno schermo televisivo in un pomeriggio di «vacanza» dal silenzio surreale, vis-à-vis con quel che si è e al confronto con quello che si sarebbe voluto essere. Insomma stare sul satellite quello vero, che gira nell'orbita terrestre anziché metropolitana, mette in evidenza la casalinga disperata che c'è in tutti noi, chi più chi meno. Lo fa in modo assai più efficace di qualunque sprezzante dissertazione contro la villettopoli (bruttissima e alienante finché non la pubblicano sulla rivista di settore giusta) o l'ecatombe ambientale incipiente se non ci pentiamo per il nostro stile di vita peccaminoso e consumista. Un modo per guardare le cose molto terra terra, e non dalla solita prospettiva «satellitare» tipica di certa critica.

Qui qualche informazione in più, una clip video, e qualche link di approfondimento in inglese e francese

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